Marcia su Roma e oltre

Novant’anni sono trascorsi dalla Marcia su Roma, evento che, come si sa, portò il Fascismo al potere in Italia: a volerne discutere davvero nello spirito dei 150 anni della storia unitaria, come dovremmo fare dopo averli tanto celebrati, non possiamo non notare l’attualità, per certi versi singolare, di questo così imbarazzante anniversario.
Nel nostro Paese infatti si respira ovunque un’atmosfera da "fiato sospeso": chi parla con la gente comune, frequenta le aziende, ascolta i discorsi dettati dal più semplice buon senso, non può non cogliere questa enorme aspettativa di un cambiamento radicale.
Un’aspettativa generata dall’esperienza quotidiana della inadeguatezza dell’organizzazione economica, giuridico-amministrativa e culturale del Paese; dalla consapevolezza che un’intera classe dirigente ha ormai fatto il suo tempo; dal desiderio di vedere anche fisicamente uomini nuovi, prima ancora che forze politiche nuove, assumere la responsabilità di attraversare questa crisi che, lo dicano o no i media, tutti sentiamo essere non contingente ma di sistema.
Storicamente, lo affermò Gramsci, la Marcia su Roma fu in effetti una vera e propria "eversione delle classi dirigenti", dunque un cambiamento, nel bene e nel male, radicale e profondo – proprio come quello cui oggi l’Italia, più o meno lucidamente, aspira in ogni minima piega del suo tessuto popolare. Così come la vittoria del fascismo fu sentita dai più come un’efficace risposta a quella Crisi morale di cui aveva parlato il filosofo Giovanni Gentile nel 1919, che in quella occasione aveva definito la situazione politica italiana "una democrazia senza contenuto"(1).
Sappiamo tutti che mutamenti di questo genere, per quanto repentini nel prodursi, sono in realtà frutto di forze che maturano nel tempo: forze, occorre dirlo, prima di tutto di natura morale e ideale, capaci di aderire perfettamente ai mutamenti sociali ed economici che il passaggio tra Ottocento e Novecento, e lo stesso spaventoso primo conflitto mondiale, avevano evidenziato. Non se ne potrebbe spiegare altrimenti il successo, dato che il vetusto leit motiv di un consenso creato con la pura violenza è stato ormai ampiamente smentito dai fiumi di storiografia scorsi da oltre quattro decenni.
Anche la crisi morale di oggi viene da lontano ed è soltanto aggravata, proprio come avvenne con la Prima Guerra mondiale per il fascismo, dall’attuale crisi finanziaria internazionale. Se infatti volessimo davvero coglierne le radici profonde, queste affondano negli avvenimenti che vanno dall’8 settembre del 1943 all’aprile del 1948, i cui esiti sono stati lucidamente sintetizzati di recente dallo storico inglese Christopher Duggan:
"Con l’Italia ideologicamente polarizzata tra Democrazia cristiana e Chiesa cattolica da un lato e comunisti e socialisti dall’altro, e con gli Stati Uniti che surriscaldavano l’atmosfera politica badando a chiarire a De Gasperi che gli aiuti americani per la ricostruzione economica presupponevano che l’estrema sinistra venisse tenuta al guinzaglio, i «valori della Resistenza» persero qualunque residua capacità di fornire una limpida piattaforma etica alla nuova Repubblica. In una situazione in cui nessuno dei due campi poteva fare appello con sincerità alla «nazione» come a un valore supremo, sovraordinato a tutto il resto (dopo tutto, che cos’era la «patria» dei cattolici se non la comunione internazionale dei credenti, e la «patria» dei comunisti se non l’Unione Sovietica?), l’essenza della politica italiana diventò, com’era avvenuto per tanta parte della sua storia, più una lotta contro un nemico interno che un processo volto a conseguire fini collettivi."(2)
La perpetuazione delle divisioni della guerra civile; la creazione di una democrazia completamente controllata dai partiti; la costante limitazione della sovranità italiana da parte di potenze internazionali – sono stati il frutto della genesi tratteggiata da Duggan.
Questi nodi irrisolti dell’Italia post-bellica, debordando fuori dalla stessa politica nell’economia e nella cultura, hanno progressivamente minato le nostre risorse morali, quelle di cui oggi si sente il maggiore bisogno. Si è dissolto il senso di una comune appartenenza (Patria, Popolo o Nazione, gli si dia il nome che si preferisce), che solo può ingenerare la dedizione e lo spirito di servizio per cui gli interessi particolari si arrestano davanti alla cosa pubblica, al bene comune, all’interesse collettivo – considerando quasi d’istinto quest’area come invisibilmente collocata ad un livello più elevato. Si è persa di conseguenza anche la nozione per la quale lo stesso interesse particolare, vissuto a partire dal quel sentimento di appartenenza, assume una prospettiva diversa: per cui il lavoro, anche il più umile, la famiglia, anche la più modesta, l’impegno personale, anche il più limitato, grazie alla chiara percezione dei fini collettivi e della continuità storica del proprio popolo, acquisiscono un valore che supera gli stessi limiti anagrafici propri della semplice esistenza individuale. Non è stato più possibile, infine, che la differenza di idee, opinioni politiche, orientamenti culturali e religiosi, invece di essere origine di divisioni e di conflitti, costituisse l’ampio e diversificato patrimonio comune al quale poter liberamente e creativamente attingere, senza il timore di scomuniche, senza necessità di abiure, senza limitazioni né esclusioni: per cui l’Italia avrebbe potuto alimentarsi di tutte queste forze interiori come del proprio nutrimento vitale.
In questa prospettiva, l’atteggiamento dinanzi al fascismo quale parte della storia italiana ha un’importanza determinante, che antistoricamente ci si ostina ancora a non voler riconoscere.
Il neo-fascismo, per parte sua, non ha mai compreso che il fascismo è un fenomeno completamente concluso in Italia, eradicato come fu dal Paese con le uccisioni di massa avvenute nella primavera del 1945: per questo, al di là della buona fede di molti, il neo-fascismo non è mai stato in grado di rappresentare una possibile alternativa alla classe dirigente post-fascista. Ma quest’ultima, facendo dell’anti-fascismo un valore fondante della Repubblica, ha ottusamente imposto la considerazione del fascismo come di un incidente, di un corpo estraneo alla storia dell’Italia, in tal modo determinando una rottura nella continuità ideale della nostra storia unitaria: per la sua l’incapacità di accogliere anche le ragioni dei vinti, in quanto forza vincitrice, l’anti-fascismo porta intera la responsabilità della costitutiva debolezza morale odierna del nostro Paese, dovuta appunto alla sua imposta discontinuità ideale.
Per questa ragione, paradossalmente, questo novantesimo anniversario della Marcia su Roma, ove volesse essere utilizzato davvero per ricostituire una base morale in vista degli attesi futuri mutamenti, dovrebbe servire di stimolo al recupero della storia del fascismo come parte integrante della storia unitaria dell’Italia, senza che questo significhi minimamente cancellare le ragioni e le scelte differenti di uomini e movimenti.
Senza un orientamento coraggioso, spregiudicato e onesto in questo senso, la base morale di qualsiasi futuro rimarrà minata, giacché da troppi decenni quella soluzione di continuità paralizza e distorce ogni moto vitale dell’Italia.

1) G. Gentile, "Crisi morale", Politica, 24 novembre 1919.

2) C. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Laterza, Bari, 2007, p. 623.
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