L’Europa senza Unione

La mancata intesa tra Commissione e Parlamento sull’approvazione della finanziaria 2011 è frutto di uno scontro aperto tra gli stati, prima ancora che tra istituzioni comunitarie. L’esercizio provvisorio del bilancio, nel caso non si trovasse un compromesso, comporterebbe gravi perdite per tutti, compresi i membri refrattari all’accordo. L’Italia ormai asservita alla tutela di interessi di pochi ha un ruolo sempre più marginale in ambito comunitario. La questione del brevetto europeo come emblema della divisione all’interno della Ue. Bruxelles fa pressioni su Dublino affinché accetti l’aiuto comunitario, ma anche la pur fiera Londra non naviga in buone acque.

Quando il Trattato di Lisbona entrò in vigore, il 1° dicembre 2009, fu salutato come lo strumento che avrebbe dotato l’Europa di istituzioni evolute e metodi di lavoro adeguati alle sfide di un mondo in perenne cambiamento. Da allora non è trascorso neppure un anno e quello stesso accordo che che doveva condurre l’Unione nella realtà del XXI secolo potrebbe trasformarsi nel suo requiem.
Nella notte tra martedì 16 e mercoledì 17 novembre, alla scadenza del termine istituzionale per trovare un accordo, le trattative tra il Parlamento e il Consiglio dei Ministri Ue sull’approvazione del bilancio 2011 sono saltate. Era la prima volta, in base al suddetto Trattato, che l’Europarlamento esercitava poteri decisionali in materia e subito c’è stata una fumata nera. Se l’intesa non si troverà entro il prossimo mese, l’Europa dovrà prepararsi ad affrontare l’anno venturo con risorse bloccate mese per mese ai livelli del bilancio 2010. Non accadeva dal 1988 ma ora la prospettiva per l’Unione è carica di incertezza, dovendo la Commissione Ue far fronte a spese nuove per finanziare quelle stesse istituzioni previste a Lisbona (come il Servizio diplomatico comunitario e l’organo di vigilanza sui mercati finanziari) e che adesso non avranno più i mezzi per partire o altri progetti già approvati in passato (come «Iter» per generare energia con la fusione nucleare). E gli stati non riceveranno i rimborsi per i progetti già finanziati. Per l’Italia, ad esempio, si parla di un buco di due miliardi.
La gravità della situazione è testimoniata dalle stesse dichiarazioni dei vertici Ue, solitamente accorte e pacate. Il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso ha dichiarato senza mezzi termini: "chi crede di avere vinto contro Bruxelles si è sparato da solo sui piedi", rammaricandosi per il fallimento dei negoziati per i quali in molti hanno lavorato duro in queste settimane. Barroso ha poi ha precisato che le nazioni che responsabili del negativo esito delle trattative "avrebbero dovuto sapere che questo non è un bilancio per Bruxelles", ma che a beneficiarne sono "tutti i programmi europei" che ora sono improvvisamente a rischio. Dello stesso avviso è stato il Commissario al Bilancio Janusz Lewandowski: "la Commissione europea si rammarica che non sia arrivato un accordo sul bilancio 2011 nell’incontro di conciliazione". Più diretto è stato il commento del Presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek: l’intransigenza di alcuni Stati membri in seno al Consiglio mina la fiducia dei cittadini".
Il mancato accordo si registra proprio nei giorni in cui Bruxelles sta cercando di convincere il governo di Dublino ad accettare gli aiuti comunitari per evitare un probabile default, e fa il paio con un’altra trattativa sfumata, quella per l’istituzione del brevetto unico europeo.
L’Europa è sempre più senza Unione.

Il bilancio annuale dell’Ue ammonta attualmente a circa 133,8 miliardi: l’1% del PIL di tutti i paesi dell’Unione, 235 euro pro capite per ogni cittadino comunitario. Tale somma finanzia la maggior parte delle politiche comuni, in particolare i Fondi Strutturali per lo Sviluppo, che ammontano al 45% degli stanziamenti totali e sono destinati a finanziare progetti di innovazione e crescita che i singoli stati non sarebbero altrimenti in grado di attuare da soli, per eliminare così le differenze esistenti tra le regioni più ricche e quelle meno avvantaggiate all’interno dell’Unione. Il 30% va alla Pac (politica agricola comunitaria), l’11% allo sviluppo rurale e il restante 14% è impiegato in egual misura per le spese amministrative e le attività internazionali.
Tutto l’ammontare è finanziato attraverso la tariffa doganale comune (in vigore dal 1° luglio 1968), dalle quote sui prodotti agricoli e lo zucchero (12%), dall’IVA (11%), e dalla "risorsa PNL" (prodotto nazionale lordo), ossia un contributo pari all’1% del PIL annualmente versato da ciascuno stato (circa 75%).
Il Trattato di Lisbona prevede che ogni anno la Commissione formuli una proposta per ciascun settore d’intervento e ciascun programma; il Parlamento deve approvarla e poi la gira al Consiglio che prende la decisione finale. La Commissione può allora impiegare i fondi stanziati ed è tenuta a renderne conto al Parlamento.
Stavolta però, il sistema non ha funzionato. Dopo settimane di trattative più simili ad braccio di ferro che ad un tavolo di negoziati, il Parlamento ha accettato che l’incremento del budget rispetto al 2010 fosse del 2,91% (pari a 3,5 miliardi) rispetto al 5,9% inizialmente proposto dalla Commissione. Per convincere l’Europarlamento ad accettare, la Commissione aveva offerto in cambio un ruolo più incisivo nella distribuzione delle risorse e soprattutto l’avvio di modifiche del sistema delle risorse proprie del bilancio Ue, prevedendo in particolare una certa "flessibilità" per i bilanci 2012-2013 nonché alcune proposte di tassazione Europea. Il rifiuto di alcuni paesi (Regno Unito e Olanda su tutti, seguiti da Olanda, da Svezia, Danimarca, Repubblica Ceca, Finlandia e Lettonia) ha fatto saltare tutto.
Ora il Commissario al bilancio Lewandovski preparerà a tempo di record una proposta di compromesso per riaprire una nuova trattativa. Non c’è una scadenza per questo, ma con i tempi così stretti è logico che la Commissione dovrà concludere la nuova bozza il prima possibile. Il Consiglio europeo ha incluso il bilancio dell’Ue all’ordine del giorno per l’ultimo vertice del 2010, che si terrà il 16 e il 17 dicembre. Prima, per cautelare l’Unione dalla paralisi totale, dovrà preparare l’attivazione del meccanismo dei dodicesimi provvisori, per cui ogni mese la Commissione potrà spendere per le 200 poste previste non più di 1/12 del bilancio 2010.

Il pomo della discordia, che ha fatto naufragare le trattative, non era l’entità della spesa, quanto le fonti di finanziamento del bilancio comunitario. Quando all’interno di una comunità vi sono membri più facoltosi e altri meno avvantaggiati, è logico che all’atto della redistribuzione del totale i primi ricevano meno di quanto versano.
Nel 2010, ad esempio, si calcola che la Germania ha contribuito al bilancio europeo per il 19,6% del totale, seguita dalla Francia (18%), dall’Italia (13,9%), l’Inghilterra (10,4%) e la Spagna (9,6%). Questi paesi sono contribuenti netti al bilancio, cioè versano nelle casse comunitarie più di quanto ottengono. E da tempo il Regno Unito rivendica le sue prerogative di contributore netto.
Purtroppo, nel caso in cui il meccanismo dei dodicesimi provvisori dovesse entrare in funzione le perdite per gli stati potrebbero essere considerevoli. Anche per Londra. Nel caso della Pac, i governi anticipano agli agricoltori i contributi per il settore per poi riceverne successivamente i rimborsi dalla Ue. Ma per la politica agricola i rimborsi della Ue non sono però spalmati su 12 mesi, bensì concentrati al 70-80% nei primi due mesi dell’anno. Ciò implicherebbe perdite a carico di tutti gli stati membri per cifre proporzionali ai contributi Pac di cui godono. Da un rapido calcolo, la più colpita sarebbe la Germania, seguita proprio dal Regno Unito, il cui ostracismo ha contribuito a questa situazione. Per l’Italia si parla già di una perdita di cassa di 2 miliardi di euro. I fondi per il nostro paese ammontano a 4.227 miliardi, dei quali si stima che almeno la metà sia già stata versata a partire dal 16 ottobre scorso. Una cifra che, con i dodicesimi di bilancio, la Ue potrebbe non essere in grado di rimborsare.

Non è il primo smacco che Bruxelles rifila a Roma, ma c’è da dire che ultimamente Roma non ha fatto granché per farsi rispettare da Bruxelles.
In Europa la credibilità di un governo si esprime sulla base delle lotte che intraprende, e soprattutto negli ultimi mesi non si può dire che l’Italia abbia combattuto su nobili fronti. Dapprima il governo del Bel Paese si è accapigliato con quello europeo per la questione del crocifisso nelle aule pubbliche, una battaglia condotta con la stessa intensità di quelle passate contro la pena di morte; poi ha cercato di evitare ad alcuni allevatori che avevano superato le quote latte di pagare le multe; infine ha cercato di impedire che Sky tv, diretta concorrente delle televisioni del premier, potesse partecipare ad una gara per l’assegnazione delle frequenze sul digitale terrestre. Argomenti poco europei e molto "personali", espressione di un potere pubblico ormai completamente fagocitato dalla tutela di discutibili interessi privati.
Nel mezzo, si situano due questioni degne di importanza: il monolinguismo e il brevetto europeo, emblemi della disarmonia in seno alla comunità.
Da tempo il nostro paese si batte per evitare che inglese, francese e tedesco acquisiscano uno status di lingue privilegiate all’interno dell’Unione a scapito di altre, come l’italiano o lo spagnolo, altrettanto diffuse. Passi per l’inglese, che è ormai la seconda lingua dell’ecumene, ma perché anche francese e tedesco? Per l’Italia si tratterebbe di una discriminazione, ma il ricorso in merito inoltrato al Tribunale di Nizza è stato respinto la scorsa estate.
Analogo discorso vale per il brevetto europeo, un dossier che si trascina da sette anni. Attualmente la registrazione di un brevetto che sia valido al di là dei confini nazionali si può fare presso l’ufficio di Monaco di Baviera per il brevetto europeo, ma al costo di 20.000 euro per una protezione estesa in meno della metà dei paesi, mentre negli Usa ne costa appena 1.850. La presidenza belga aveva elaborato una soluzione di compromesso che rendeva possibile la registrazione in una delle tre lingue principali (inglese, francese o tedesco). L’Italia, per bocca del Ministro Ronchi, in ragione della sua battaglia contro il "trilinguismo" aveva posto il suo veto. "Vogliamo che la seconda lingua in cui viene tradotto il brevetto abbia sempre valore legale", aveva dichiarato il Ministro Ronchi. Se l’obiettivo del brevetto europeo è di ridurre i costi di traduzione, sostiene il nostro paese, avrebbe più senso decidere di farlo in una sola lingua: l’inglese, appunto. La proposta della presidenza belga, appoggiata dalla Commissione, sarebbe incompatibile con le regole del mercato interno perché comporterebbe una discriminazione.
Il 15 novembre sembrava che un accordo fosse possibile. Invece è stata la Spagna a dire di no a tutti e a tutto. In Europa, insomma, il principio ognuno per sé e nessuno per tutti sembra l’unica regola condivisa. E le aziende europee continueranno ad andare a brevettare negli Stati Uniti.

La mancata approvazione del bilancio Ue ha fatto passare in secondo piano la crisi dell’Irlanda. Bruxelles vuole convincere Dublino ad accettare l’aiuto dell’Unione per evitare che continui l’effetto contagio sui mercati obbligazionari, che potrebbe travolgere anche altri paesi a rischio aumentando il costo già esorbitante per sostenere i debiti sovrani.
La crisi dell’isola smeraldo ha un’origine molto semplice: l’Irlanda è un piccolo paese con grandi banche. Troppo grandi. Mesi fa si stimava che il salvataggio della sola Anglo-Irish Bank, ad esempio, sarebbe costata al governo irlandese una cifra superiore a tutto il gettito fiscale delle persone fisiche. Cifra che col tempo è andata aumentando.
Per quanto le disponibilità del Fondo anticrisi di Eurolandia e del Fmi siano rassicuranti (440 miliardi di garanzie dai governi dell’area euro, 60 miliardi con prestiti garantiti dalla Commissione europea, 250 miliardi del Fondo monetario) non è detto che possa bastare se invece di un solo paese da salvare dovessero essercene di più. Solo i prestiti previsti per la Grecia arrivano a 110 miliardi, l’Irlanda potrebbe riceverne 50 a breve e forse anche il Portogallo si metterà in coda. Sullo sfondo ci sono la Spagna, la cui solidità finanziaria, esaurito il boom immobiliare, non è mai stata definita con certezza.
Di positivo c’è che il meccanismo di stabilizzazione finanziaria non dipende dal bilancio annuale della Ue e dunque non sarebbe bloccato dall’eventualità dell’esercizio provvisorio per il 2011. Ma al momento nessuno può dire alla fine quanti soldi saranno effettivamente necessari per il rifinanziamento dei debiti sovrani.
Lo stesso Regno Unito potrebbe trovarsi in seria difficoltà. Secondo John Hawksworth, capo economista della PricewaterhouseCoopers (PwC), la più importante società di consulenza del mondo, entro il 2015 il debito complessivo (cioè dello stato e dei privati) di Londra sfonderà la quota di 10 trilioni di sterline (16 mila miliardi di dollari). La crescita incontrollata del suo sistema finanziario, i bassi tassi d’interesse degli ultimi anni (ridotti proprio per fronteggiare la crisi e ridare ossigeno ad un’economia stagnante), nonché l’ingresso dello stato nel capitale di Royal Bank of Scotland (84% delle azioni) e di Lloyds (41%) per procedere al loro salvataggio hanno portato a queste conseguenze.
Nel corso di una conferenza allo European Policy Center, il Presidente della Ue, Herman Van Rompuy ha ammesso: "stiamo fronteggiando una crisi per la nostra sopravvivenza". Una dichiarazione così netta da parte di un uomo così misurato come il belga basta a spiegare la drammaticità del momento che l’Europa sta attraversando.

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