Buchi, cinesi, e generali (iraniani)

"Nulla di cui preoccuparsi […] L’idea era di usarlo come un bunker sotto la montagna per proteggere le cose. E’ un buco in una montagna". Con queste parole, in una intervista al New York Times, il direttore generale dell’AIEA Mohammed El Baradei ha giudicato i risultati delle ispezioni effettuate al sito nucleare iraniano di Qom che tanto allarme aveva destato in Occidente.
In una successiva intervista in esclusiva a La Repubblica (1), sempre El Baradei ha avuto modo di chiarire ed ampliare il concetto. Confermato che le ispezioni avevano dato esito negativo sulla pericolosità del sito, il direttore dell’Agenzia atomica ha accolto come credibile la versione iraniana secondo cui l’impianto altro non sarebbe che un bunker difensivo entro cui accogliere, in futuro, centrifughe per l’arricchimento dell’uranio in modo da proteggerle contro eventuali bombardamenti nemici. A domanda precisa dell’intervistatore in merito alla possibilità che l’Iran nasconda altri siti, El Baradei ha dichiarato che gli ispettori devono basarsi su dati oggettivi e non su illazioni o indiscrezioni, pertanto allo stato attuale quella eventualità è esclusa. Ed in ogni caso controlli ed ispezioni dell’Agenzia sono continui.
A tal proposito, El Baradei ha svolto un richiamo a diffidare delle voci incontrollate, che possono apparire ciclicamente sui mezzi di stampa, volte a creare allarmismi spesso ingiustificati. In particolare il direttore ritiene che taluni dossier forniti da servizi segreti, come ultimamente da quelli statunitensi, che sostengono come Teheran continui la sua corsa alla costruzione della bomba, siano da ritenersi falsi. Non è del resto la prima volta. El Baradei continua ricordando che nel 2003 le Nazioni Unite e l’opinione pubblica mondiale erano state deliberatamente ingannate con false prove allo scopo di provocare l’invasione dell’Iraq, e che all’Agenzia era stato impedito di svolgere le opportune verifiche sul campo.
Da ultimo il britannico The Guardian aveva rivelato una scoperta "mozzafiato", ovvero che gli iraniani avrebbero testato una nuova tecnologia denominata "two-points explosion" che consente la produzione di testate atomiche più piccole e agili, facilmente implementabili nell’ogiva di un missile di medie dimensioni che Teheran già possiede. Nella fattispecie il Guardian ha citato un dossier proprio della AIEA ("Possible Military Dimensions of Iran’s Nuclear Program") ma che si basa su informazioni fornite dai servizi segreti di potenze occidentali. In casi come questo il modus operandi è ripetitivo: l’intelligence fornisce ad agenzie di controllo informazioni artefatte che finiscono in un dossier; tali informazioni sono fatte trapelare ad organi di stampa che li rendono pubblici; le stesse agenzie, e autorità dei paesi le cui intelligence hanno creato le informazioni, senza confermare o smentire, dichiarano di stare valutando attentamente il caso. Intanto tali notizie si propagano contribuendo a creare un clima di diffidenza nel mondo diplomatico e timori nelle opinioni pubbliche.

Quando ai margini dello scorso G-20 di Pittsburgh, Obama, Sarkozy e Brown "rivelarono" al mondo l’esistenza di un sito nucleare segreto in Iran (quello appunto di Qom) e lanciarono una sorta di ultimatum all’Iran, il presidente Ahmadinejad dichiarò che, una volta accertata la verità, tale errore si sarebbe ritorto contro le potenze occidentali e Obama avrebbe dovuto chiedere scusa.
Il leader iraniano si è sbagliato in entrambi i casi: i risultati delle ispezioni della AIEA hanno avuto ben poca risonanza rispetto lo show mediatico di Pittsburgh; e Obama, lungi dallo scusarsi, sta invece spingendo a pieno ritmo nella attività diplomatica volta a isolare ed accerchiare l’Iran, puntando dritto su Russia e Cina.
Con la Russia l’impegno ottenuto da Washington pare ormai acquisito. Nei giorni scorsi il quotidiano russo Kommersant, citando fonti vicine all’amministrazione del presidente Medvedev, ha affermato che Mosca è "pronta" a sostenere sanzioni più aspre contro l’Iran, ciò che modificherebbe tutte le precedenti cautele del Cremlino che aveva giudicato "controproducenti" eventuali nuove misure punitive. Un altro segnale è giunto dal ministro dell’energia, Sergey Shmatko, che ha annunciato l’annullamento dell’avvio della centrale nucleare iraniana di Bushehr che i russi stanno costruendo. Nei mesi scorsi il capo dell’agenzia nucleare russa, Kirienko, aveva invece assicurato che la centrale sarebbe stata pronta entro la fine del 2009.
Il recente viaggio in Cina di Obama forse non resterà storico per i risultati ottenuti ma alcune dichiarazioni rimarranno negli annali. Obama si è infatti presentato come il "primo presidente Usa del Pacifico" dopo che il secolo scorso era vissuto sull’asse dell’Atlantico tra America ed Europa.
Tra Stati Uniti e Cina rimangono ancora profonde divisioni, eppure si sta consolidando sempre più quell’idea strategica di Henry Kissinger (già fautore negli anni ’70 dell’incontro epocale tra Nixon e Mao) di "integrare la Cina in un nuovo ordine mondiale imperniato sull’asse statunitense" (2).
Non a caso Obama ha tenuto a rassicurare la classe dirigente economico-finanziaria cinese, con le sue visite a Shanghai e Hong Kong, che obiettivo americano non è quello di "contenere la Cina" ma di farne un pilastro strategico, un socio di minoranza dell’Impero. L’accoglienza nel mondo della finanza è infatti stato caloroso per il presidente americano, molto più freddo e prudente da parte della leadership politica, il presidente Hu Jintao ed il premier Wen Jiabao.
In agenda sono rimasti i dissidi sul rapporto dollaro/yuan che Pechino usa come arma politica ma anche una sorta di accordo bilaterale a danno dell’Europa sul clima (ovvero niente riduzioni coattive di inquinamento e quindi di produzione industriale). Sulla questione dei diritti umani Obama ha fatto riferimento soprattutto alla condizione delle minoranze in Tibet e Xinjang, trascurando completamente la condizione dei lavoratori nelle zone economiche speciali, dove il capitalismo di stato cinese lascia porta aperta allo sfruttamento intensivo del turbo capitalismo occidentale. Anche in questo caso l’America non vuole cali nella produzione cinese, vuole piuttosto assicurarsi un controllo politico sfruttando la destabilizzazione in quelle regioni (a cui si deve aggiungere il Myanmar, ex Birmania) che sono le cerniere verso occidente di Pechino e snodi fondamentali per il passaggio delle rotte energetiche con l’Asia centrale ed il Medio Oriente.
In questa fluida situazione di confronto/scontro, Obama ha strappato a Hu Jintao un atteggiamento di prudente distacco sul dossier iraniano. Durante la dichiarazione stampa congiunta dei due leader, Obama ha così potuto dire: "Abbiamo concordato che Teheran deve dare assicurazioni alla comunità internazionale sul fatto che il suo programma nucleare è pacifico e trasparente. L’Iran ha un’opportunità per presentare e dimostrare le sue intenzioni pacifiche ma se non riesce a sfruttare questa occasione dovrà affrontare le conseguenze".
Del resto la Cina non ha ancora la forza per spingersi troppo avanti nella difesa dell’Iran, puntando ad esempio a ricattare gli Usa sul suo enorme debito pubblico che Pechino detiene in larga parte. Come ha ben fatto rilevare l’analista economico Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph: "Va di moda parlare dell’America come se si trattasse di un mendicante. Tutto questo dà un’idea sbagliata dell’equilibrio strategico. Washington può mettere la Cina in ginocchio in qualunque momento chiudendo i mercati. Non esiste alcuna simmetria. Qualunque mossa di Pechino per liquidare i propri pacchetti di Buoni del Tesoro americani potrebbe essere neutralizzata – in extremis – dai controlli sui capitali. Gli stati sovrani ben armati possono fare quello che vogliono.
Se venissero provocati, gli Stati Uniti hanno l’accortezza economica di ritirarsi in una quasi autarchia (con il NAFTA) e riorganizzare le proprie industrie dietro a delle barriere doganali, come fece la Gran Bretagna negli anni Trenta sotto l’Imperial Preference. In simili circostanze, la Cina crollerebbe. Le statue di Mao verrebbero rovesciate dalle sommosse nelle strade" (3).

Cosa accade, nel frattempo, sul fronte interno iraniano? L’unica presa di posizione degna di rilievo dell’ultimo periodo è stata del Capo di stato maggiore delle Forze armate iraniane, il generale Hassan Firouzabadi, che lo scorso 13 novembre ha rilasciato una dichiarazione all’agenzia di stampa Mehr sulla possibilità per la Repubblica islamica di accettare lo scambio con l’Occidente sul combustibile nucleare: "L’Iran non patirà le conseguenze di uno scambio […] al contrario, ottenendo combustibile al 20% per il reattore di Teheran, un milione di nostri cittadini beneficerà di cure mediche e, allo stesso tempo, proveremmo la buona fede sulle nostre attività nucleari pacifiche. La quantità di uranio arricchita al 3,5% che sarà inviata all’estero per ottenere in cambio il combustibile non è tale da provocare pregiudizio ai nostri interessi".
La netta presa di posizione del generale Firouzabadi giunge probabilmente troppo tardi per poter influenzare una decisione in tal senso. Più che sul piano interno questo intervento sembra destinato ad essere ascoltato all’estero. Il generale si è così accreditato come un esponente aperto al dialogo smarcandosi profondamente dalle posizioni di altre strutture di sicurezza iraniane, come i Guardiani della Rivoluzione, dimostrando che non tutto l’apparato militare si trova su posizioni oltranziste. Una ulteriore crepa su cui il cuneo della diplomazia occidentale può puntare per spaccare l’unità interna del paese.

 

(1)http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/esteri/iran-9/baradei-intervista/baradei-intervista.html
(2)Le parole sono di Pepe Escobar, analista geopolitico di "Asia Times"
(3)Ambrose Evans-Pritchard, "China has now become the biggest risk to the world economy" http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/ambroseevans_pritchard/6575883/China-has-now-become-the-biggest-risk-to-the-world-economy.html

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