Chi ha tradito la voce dell’Iran?

L’analisi del voto iraniano comparsa sul Washington Post (che è possibile leggere di seguito a questo commento) consente alcune importanti riflessioni. Eseguito da una società di sondaggi indipendente, americana, lo studio è stato finanziato dal Rockfeller Brothers Fund. L’agenzia ha certificato che, secondo le rilevazioni demoscopiche a tre settimane dal voto, il presidente Ahmadinejad avrebbe avuto un netto vantaggio sullo sfidante Moussavi, con un rapporto di 2 a 1, addirittura maggiore ai risultati elettorali reali.
Se questi dati fossero aderenti alla realtà, anche solo in linea di massima, significa che le attuali manifestazioni popolari anti-governative si basano su falsi presupposti, ovvero che il voto sia frutto di frodi macroscopiche (si calcola che circa 10 milioni di voti sarebbero dovuti sparire). Al contrario, la rielezione di Ahmadinejad sarebbe, volente o nolente, legittima.
Accanto a queste banali considerazioni di fatto, il dato politico che esce dalla lettura del quadro generale implica fortissime responsabilità di tutto lo scenario istituzionale che sta sprofondando lo stato iraniano nel baratro.
Lo sfidante Mir Hussein Moussavi ha agito in modo del tutto irresponsabile ed avventurista. Ammesso che creda in buona fede che la sua sconfitta derivi da brogli, le improvvide affermazioni durante la notte del voto in cui dichiarava di essere il vincitore con oltre il 60% dei suffragi, il suo appello alla popolazione a resistere contro il pericolo di "tirannia", l’aver chiamato a raccolta i suoi sostenitori in una manifestazione di piazza oceanica, non ha fatto altro che creare i presupposti per un clima da scontro civile e offrendo soprattutto il destro (come ovviamente accaduto) a provocazioni e contro provocazioni di chi mira a far divampare l’incendio. Ora il rischio che le tensioni si avvitino e rincorrano senza più nessun controllo appare tangibile.
Il presidente Ahmadinejad ha dimostrato incapacità nel cogliere i nessi profondi della posta in gioco. Invece di minimizzare le proteste avrebbe dovuto prontamente spiazzare il nemico spuntandone le armi, forte, se i dati sono veri, dell’ampio consenso popolare di cui gode. Senza indugio avrebbe potuto lui stesso chiedere un nuovo conteggio dei voti, se non addirittura sfidare ad un ballottaggio il contendente.
Allo stesso modo la Guida spirituale Khamenei sembra aver assistito in maniera insipiente a quanto stava avvenendo sotto i suoi occhi. Dichiarazioni di prammatica, minimizzazioni, vuoti appelli alla calma ed alla legalità che di certo non hanno contribuito a stemperare le tensioni.
Il risultato è che tutti sembrano aver interpretato, finora magistralmente, un ruolo. Sullo sfondo il popolo iraniano, anche esso, ci pare, utile strumento nella mani di un oscuro regista. A noi sembra che gli unici a poter trarre un vantaggio strategico da questa drammatica situazione siano i nemici geopolitici dell’Iran che stanno utilizzando per i loro scopi gruppi di potere dentro il regime, sia tra i riformisti che tra i falchi.
In questo momento non ci sembra possibile che la rivolta popolare possa sfociare in un "regime change". Molto più probabile l’obiettivo di ottenere una dura repressione delle manifestazioni che porterebbe ad una unanime condanna internazionale, a stringere l’Iran ancor più nell’isolamento esterno e nella destabilizzazione interna. Terreno fertile per molte altre manovre a venire.
Il timore evidente è che il popolo iraniano venga ancora una volta ingannato, tradito e oppresso, per impedirne la missione spirituale nel mondo. Ingannato, tradito e oppresso come nei quasi trenta anni di occidentalizzazione forzata ad opera dello Shah, dopo il colpo di stato che nel ’53 stroncò un governo nazional-popolare; ingannato, tradito e oppresso in questi venti anni di teocrazia che nacque deviando la rivoluzione del ’79, ancora una volta un ampio movimento nazional-popolare e laico (il primo presidente dell’Iran post-rivoluzione fu il socialista Bani Sadr col 75% dei voti), complice lo stato di guerra determinato dall’invasione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein e il conflitto che durò otto anni. E in quegli anni, sotto la guida suprema dell’Ayatollah Khomeini, presidente era Alì Khamenei e primo ministro Mir Hossein Moussavi, due dei protagonisti di questi giorni terribili.
Quale altro inganno, tradimento e oppressione si sta preparando per il popolo iraniano? Chi sta agendo lo fa su larga scala ed in modo criminale e spregiudicato, dal Mediterraneo all’Asia centrale passando attraverso Libano, Palestina, Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, un arco di crisi lungo migliaia di chilometri pronto a scoppiare ed incendiarsi in uno qualsiasi dei suoi punti; oppure tenuto semplicemente a bruciare sotto la cenere, in un amplissimo progetto di destabilizzazione e "libanizzazione" di tutto intero il Medio Oriente.
Chi ci guadagna? Chi sta tradendo la voce dell’Iran?

 


Il popolo iraniano parla

di Ken Ballen e Patrick Doherty*

I risultati elettorali in Iran potrebbero riflettere la volontà del popolo iraniano. Molti esperti stanno sostenendo che il margine di vittoria del presidente in carica, Mahmoud Ahmadinejad, è stato il risultato di frodi o manipolazioni, tuttavia il nostro sondaggio dell’opinione pubblica iraniana a livello nazionale tre settimane prima del voto mostrava Ahmadinejad in testa con un margine di oltre 2 a 1 – superiore a quello con cui apparentemente ha vinto nelle elezioni di tre giorni fa.
Mentre i servizi giornalistici da Tehran nei giorni che hanno preceduto il voto rappresentavano una opinione pubblica iraniana entusiasta del principale avversario di Ahmadinejad, Mir Hossein Mus-savi, il nostro campionamento scientifico in tutte e 30 le province dell’Iran mostrava Ahmadinejad in testa di parecchio.
I sondaggi nazionali indipendenti e non censurati dell’Iran sono rari. Di solito, i sondaggi pre-elettorali vengono condotti o monitorati dal governo, e sono notoriamente inaffidabili. Invece, il sondaggio realizzato dalla nostra organizzazione no-profit dall’11 al 20 maggio era il terzo di una serie negli ultimi due anni. Condotto per telefono da un Paese confinante, le rilevazioni sul campo sono state eseguite in Farsi da una società di sondaggi il cui lavoro nella regione per conto di ABC News e della BBC ha ricevuto un Emmy Award. Il nostro sondaggio è stato finanziato dal Rockefeller Brothers Fund.
L’ampiezza del sostegno per Ahmadinejad era evidente nel nostro sondaggio pre-elettorale. Nel corso della campagna elettorale, ad esempio, Mussavi ha sottolineato la sua identità di azero, il secondo gruppo etnico in Iran dopo quello dei persiani, per cercare di accattivarsi gli elettori azeri. Il nostro sondaggio indica, tuttavia, che gli azeri preferivano Ahmadinejad a Mussavi nel rapporto di due contro uno.
Gran parte dei commenti hanno rappresentato i giovani iraniani e Internet come precursori del cam-biamento in queste elezioni. Ma il nostro sondaggio ha scoperto che solo un terzo degli iraniani hanno accesso a Internet, mentre, di tutti i gruppi di età, quello dei giovani fra i 18 e i 24 anni comprendeva il blocco di voti più forte a favore di Ahmadinejad.
Gli unici gruppi demografici nei quali Mussavi era in testa o competitivo rispetto ad Ahmadinejad, secondo i risultati del nostro sondaggio, erano gli studenti universitari e i laureati, e gli iraniani con la fascia di reddito più alta. Quando è stato realizzato il nostro sondaggio, inoltre quasi un terzo degli iraniani erano ancora indecisi. Tuttavia, le distribuzioni di riferimento che abbiamo trovato allo-ra rispecchiano i risultati riferiti dalle autorità iraniane, il che indica la possibilità che il voto non sia il prodotto di frodi diffuse.
Alcuni potrebbero argomentare che il sostegno dichiarato per Ahmadinejad da noi rilevato riflettesse semplicemente la riluttanza degli intervistati impauriti a fornire risposte oneste ai rilevatori. Tuttavia, l’integrità dei nostri risultati è confermata dalle risposte politicamente rischiose che gli iraniani erano disposti a dare a un sacco di domande. Ad esempio, quasi quattro iraniani su cinque – compresa la maggioranza dei sostenitori di Ahmadinejad – hanno detto di voler cambiare il sistema politico per avere il diritto di eleggere la Guida Suprema, che attualmente non è soggetta al voto popolare. Analogamente, gli iraniani hanno definito libere elezioni e una libera stampa come le loro priorità più importanti per il governo, praticamente alla pari con il miglioramento dell’economia nazionale. Non propriamente risposte "politically correct" da esprimere pubblicamente in una società generalmente autoritaria.
Anzi, e coerentemente in tutti e tre i nostri sondaggi nel corso degli ultimi due anni, più del 70 % degli iraniani si sono detti favorevoli a dare pieno accesso agli ispettori sugli armamenti, e a garan-tire che l’Iran non sviluppi o possieda armi nucleari, in cambio di aiuti e investimenti esterni. E il 77 % degli iraniani era favorevole a rapporti normali e commercio con gli Stati Uniti, un altro dato in accordo con i nostri risultati precedenti.
Gli iraniani considerano il loro sostegno a un sistema più democratico, con rapporti normali con gli Stati Uniti, in armonia con il loro appoggio ad Ahmadinejad. Non vogliono che lui continui con le sue politiche intransigenti. Invece, gli iraniani apparentemente considerano Ahmadinejad il loro ne-goziatore più tosto, la persona meglio posizionata per portare a casa un accordo favorevole – una sorta di Nixon persiano che va in Cina.
Le accuse di frodi e manipolazioni elettorali serviranno a isolare ulteriormente l’Iran, e probabil-mente ne aumenteranno la belligeranza e l’intransigenza nei confronti del mondo esterno. Prima che altri Paesi, compresi gli Stati Uniti, saltino alla conclusione che le elezioni presidenziali iraniane sono state fraudolente, con le conseguenze serie che accuse di questo tipo potrebbero portare, essi dovrebbero valutare tutte le informazioni indipendenti. Potrebbe darsi semplicemente che la rielezione del presidente Ahmadinejad sia quello che voleva il popolo iraniano.

* Ken Ballen è presidente di "Terror Free Tomorrow: The Center for Public Opinion", un istituto senza fini di lucro che si occupa di ricerche sugli atteggiamenti nei confronti dell’estremismo. Pa-trick Doherty è vice direttore dell’"American Strategy Program" presso la "New America Foundation". Il sondaggio condotto dai due gruppi dall’11 al 20 maggio si basa su 1.001 interviste in tutto l’Iran, e ha un margine di errore di 3,1 punti percentuali.

Traduzione di Ornella Sangiovanni per Osservatorio Iraq

Fonte: http://www.washingtonpost.com
Titolo originale: "The Iranian People Speak" 15.06.2009

Tratto da Rivista Eurasia :
http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkuVEFyyVkVcxoCcde.shtml

 

 

 

Elezioni in Iran: un primo commento
Simone Santini
Sabato, 13 Giugno 2009, ore 17.45

A teatro tutti gli attori seguono le indicazioni del regista per raggiungere lo scopo drammaturgico. Ma in quel caso il regista è conosciuto e il fine è evidente. Anche in Iran tutti gli attori sembrano muoversi secondo un copione, ma in questo caso non è chiaro chi diriga la messa in scena e quali siano gli obiettivi ultimi da raggiungere. E’ chiaro solo che l’Iran sta correndo un gravissimo pericolo.
Ahmadinejad ha vinto le elezioni con oltre il 60% dei voti. Una vittoria schiacciante, annunciata, messa in dubbio solo nelle ultime due settimane quando la campagna elettorale aveva vissuti momenti di crudissimo dibattito pubblico, segno di un montante nervosismo che coincideva con una sorta di fervore popolare crescente, soprattutto nella capitale, a sostegno dello sfidante riformista Mir Hussein Moussavi. Il miracolo sembrava poi possibile con i dati dell’affluenza insolitamente alti, cosa che in passato aveva sempre coinciso con la vittoria dei riformisti.
Ma alla fine il paese ha votato come ci si aspettava, così come le pressioni internazionali, il terrorismo interno e le dinamiche politiche avevano spinto a fare. Il polarizzarsi dello scontro tra Ahmadinejad e Moussavi ha avuto il solo risultato di cannibalizzare gli altri due candidati che hanno ottenuto risultati talmente scarsi che il primo turno si è trasformato di fatto in un ballottaggio diretto. Il margine del riconfermato presidente è stato così ampio che oggettivamente è difficile parlare di brogli sostanziali come invece sta facendo lo sconfitto. In un paese grande come l’Iran significherebbe manipolare diversi milioni di voti, ciò che non potrebbe avvenire senza plateali irregolarità. Non è sufficiente oscurare gli sms nella capitale o impedire agli osservatori di entrare in alcuni seggi per spostare milioni di voti da un candidato ad un altro.
Un osservatore esterno potrebbe invece ben vedere come il pathos narrativo sia stato in qualche modo orchestrato in queste ultime settimane in maniera quasi filmica, e lo sbocco in una situazione di estrema tensione ne sia il risultato conseguente.
Gli attentati terroristici di inizio mese hanno dato l’allarme. Gli attacchi dialettici di Ahmadinejad hanno creato un clima di forte contrapposizione con lo schieramento avversario. La piazza, intesa come il ribollire delle rivendicazioni giovanili e femministe, soprattutto nei centri urbani come Teheran, ha cominciato a credere al cambiamento non solo come possibile ma addirittura a portata di mano. Nelle riunioni e manifestazioni dell’opposizione circolavano ormai da giorni come reali le voci di brogli. La dichiarazione di Moussavi che si auto-proclama vincitore, giocando in anticipo sulle comunicazioni ufficiali la notte del voto, è stato l’ultimo colpo di scena prima della doccia fredda.
Il risultato di tutto questo è uno scenario da tumulto sociale, se non addirittura da scontro civile. Un canovaccio riscontrabile negli ultimi anni nella destabilizzazione di molti paesi, che hanno portato a volte ai cosiddetti "regime change" (come nelle rivoluzioni colorate in Serbia, Ucraina, Georgia), o a repressioni violente del potere (come in Asia centrale o Africa).
In Iran il contesto è reso ancora più grave dalla situazione internazionale e dalle minacce di guerra che coinvolgono il paese. Ogni evento è reso per questo ancor più acuto e le ripercussioni più delicate.
Il mondo occidentale ha ormai il suo tiranno, senza se e senza ma: il suo nome è Ahmadinejad.
Le prime reazioni da Israele, dietro il tenore preoccupato, sembrano grida esultanti. Il vice-ministro degli Esteri, Danny Ayalon, ha dichiarato: "Se anche ci fosse stata un’ombra di speranza, la rielezione di Ahmadinejad è giunta a dimostrare una volta di più la crescente minaccia rappresentata dall’Iran, ai cui programmi nucleari bisogna subito far fronte". Esplicito anche il vice-premier di Netanyahu, Silvan Shalom, uno dei leader del maggiore partito al governo, il Likud, secondo cui il risultato delle elezioni presidenziali iraniane "sta esplodendo in faccia a chi pensava che l’Iran fosse pronto a un dialogo con il mondo libero, incluso quello sulla cessazione dei suoi piani nucleari" con chiaro riferimento ad Obama ed alle componenti della sua Amministrazione che stanno cercando un dialogo con Teheran.
Riuscirà il popolo iraniano a tenere i nervi saldi, la mente lucida, il cuore limpido? È solo sull’anima nascosta del popolo persiano su cui si può fare affidamento. La sua leadership, in tutti i suoi settori, ci pare troppo implicata e stretta in meccanismi di potere, interni ed internazionali, che la stanno spingendo là dove si vuole che vada.
Un comandante guerrigliero latino-americano ha detto che l’unico modo che ha il popolo di battere il potere è fare sempre ciò che non ci si aspetta da lui. In Iran, oggi, appare quasi impossibile.

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