Netanyahu vs. Obama. Chi ha vinto?

L’incontro al vertice tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed il presidente americano Barack Obama era molto atteso dagli osservatori. Da anni i rapporti tra Israele e Stati Uniti non apparivano così tesi, e distanti le rispettive visioni strategiche sul Medio Oriente, in un momento, tra l’altro, decisivo e delicatissimo. I risultati del summit sono sembrati apparentemente interlocutori, in realtà una più attenta analisi delle dichiarazioni dimostra che un vincitore vero c’è stato: Bibi Netanyahu.
Sulla Palestina la posizione americana è incentrata sulla Road Map rivisitata dalla conferenza di Annapolis: ovvero acquisizione del riconoscimento di uno Stato per i palestinesi, instaurazione di un processo negoziale che definisca nel dettaglio lo status di questa entità nazionale; per gli israeliani è l’approccio opposto: nessun riconoscimento preventivo, solo al termine di un processo negoziale si potrà arrivare alla definizione di una forma di "autogoverno" per i palestinesi.
Il vertice non sembra aver intaccato né avvicinato le posizioni. Obama ha ribadito che gli Stati Uniti vogliono la posizione "due popoli, due stati", di converso Netanyahu ha dichiarato che "Israele è disposto a riprendere immediatamente i negoziati di pace, ma i progressi saranno condizionati dal riconoscimento palestinese del diritto di Israele ad esistere in quanto stato ebraico". Solo allora, e alla fine dei negoziati successivi, i palestinesi potranno ottenere di "governare se stessi e non essere governati da Israele", saranno i colloqui di pace a definire cosa significhi questo auto-governo, se uno stato o altro: "la terminologia verrà da sé" sostiene Netanyahu.
È chiaro che sotto questo aspetto sono gli americani ad aver bisogno degli israeliani, non viceversa. A Tel Aviv il prolungarsi dello status quo porta solo vantaggi. Anzi, Israele può continuare in sordina la politica degli insediamenti, consolidare l’accerchiamento dei Territori in cui le condizioni di vita dei palestinesi si fanno ogni giorno che passa più insostenibili, nonché decidere quale condizione riservare agli arabi con passaporto israeliano (il tema demografico, trovarsi nel futuro minoranza nel paese, è l’unico vero allarme per Israele).
Gli Stati Uniti possono sbloccare la situazione non con annunci di principio ma solo con una azione diplomatica forte: pressioni e minaccia reale di sanzioni. Ma questa decisione a Washington non sembrano averla. Obama ha dichiarato, anzi, che la "relazione speciale" tra i due paesi è viva e vegeta.
Due quotidiani israeliani, Yedihot Aharanot e Ma’ariv, hanno pubblicato indiscrezioni su un piano Obama per la Palestina che il presidente americano dovrebbe rendere pubblico durante il discorso alle nazioni arabe che terrà a Il Cairo ai primi di giugno. Tra i punti che porterebbero alla creazione di uno stato palestinese, nel termine di quattro anni, almeno due appaiono destinati a far nascere già morto questo futuro stato: la nazione sarà priva di esercito e non avrà facoltà di stringere alleanze militari con paesi arabi; i palestinesi dovranno cedere territori a Israele, quindi i confini non saranno quelli precedenti al 1967.
Insomma, lo stato di Palestina dipenderebbe in tutto e per tutto da Israele in termini di sicurezza; per la geografia economica e la gestione delle risorse (energia, acqua) si ridurrebbe ad essere una semplice propaggine di Israele. La Palestina sarebbe niente più che una mera espressione geografica. Alcuni rappresentanti palestinesi hanno già dichiarato (oltre la problematicità di altre questioni come Gerusalemme capitale ed il diritto al ritorno dei profughi) che il piano così inteso sarebbe inaccettabile. Obama si sta forse preparando per l’ennesima grande esposizione mediatica allo scopo di farsi dire un no dai palestinesi?
Intanto Israele sembra aver gettato sul tavolo un’altra variabile. Non si potrà arrivare ad uno stato palestinese finché sul paese penderà la minaccia iraniana. La prospettiva di una crisi mentre in Cisgiordania c’è un governo palestinese, magari controllato da Hamas, sarebbe come "avere una base delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a un tiro di Qassam dall’aeroporto di Tel Aviv" (Jerusalem Post, 19 maggio).
Questo porta dritto al secondo problema. I rapporti tra occidente e Teheran.
Sulla questione iraniana Israele è pronta a giocarsi il tutto per tutto. Sul tema il paese è unito come non mai. Tzipi Livni, ex ministro degli esteri e leader dell’opposizione interna, davanti all’assemblea del suo partito Kadima ha ribadito che "per quanto riguarda la questione palestinese le divergenze col governo sono profonde, ma per quanto riguarda l’Iran non c’è maggioranza e non c’è opposizione". A rincarare la dose il ministro della difesa Ehud Barak, leader del partito laburista, ideologicamente distante da Netanyahu, ma che proprio sui temi della sicurezza ha trovato l’accordo per entrare nell’esecutivo: "L’Iran non abbandonerà certo le sue ambizioni nucleari se il governo israeliano sostiene la soluzione a due stati. Israele non esclude alcuna opzione rispetto alla minaccia nucleare iraniana".
Dal canto suo Obama, fautore di una apertura negoziale con l’Iran, al termine dei colloqui con Netanyahu ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di porre "limitazioni temporali" alle trattative, e tuttavia di aspettarsi sostanziali progressi nel breve termine, entro la fine dell’anno: "Non andremo avanti coi colloqui all’infinito".
Netanyahu ha riferito che "sia gli Stati Uniti che Israele sono consapevoli dell’urgenza di impedire all’Iran di acquisire armi nucleari e di fare qualcosa in tal senso. […l’Iran…] Potrebbe offrire un ombrello nucleare a organizzazioni terroristiche o, peggio, potrebbe dare direttamente armi nucleari ai terroristi mettendoci tutti in grave pericolo" ed in ogni caso "Israele si riserva il diritto di difendersi dall’Iran".
In questo caso è Israele ad aver bisogno degli Stati Uniti, pur rivendicando la possibilità di una azione unilaterale come ultima ratio che però potrebbe anche risultare disastrosa. Tuttavia anche in questo caso il tempo gioca tutto a favore di Tel Aviv. Sei mesi di tempo (fino alla fine dell’anno) saranno sufficienti per portare avanti un percorso di pace lungo sentieri sottilissimi e durante i quali non pochi soggetti (interni anche alla stessa Amministrazione americana) saranno pronti a remare contro? Scaduto questo tempo, cosa potrà accadere?
Nei giorni scorsi il leader spirituale della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, in vista delle elezioni presidenziali ha invitato il popolo a non votare per candidati che "vogliono arrendersi al nemico… per coloro che cercano di ingraziarsi i governi occidentali". Nessun cedimento dunque.
Se da un lato all’altro della scacchiera sono queste le dinamiche che si fronteggiano, l’augurio di pace per il Medio Oriente rischia di essere una petizione di speranza senza alcun aggancio con la realtà dei fatti.

Print Friendly, PDF & Email