LA VIA EUROPEA PER PRISTINA PASSA DA VERSAILLES

Con l’indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008), la disintegrazione della Federazione Jugoslava trova il suo epilogo, proprio laddove aveva avuto inizio: non molti rammentano infatti che, nel luglio 1990, proprio dopo che il parlamento del Kosovo aveva adottato una costituzione che dava alla regione il rango di repubblica e attribuiva agli albanesi i diritti di nazione autonoma, la repubblica serba sciolse quel parlamento e assunse il governo diretto della regione. Fu questa la rottura di un difficile equilibrio che, attraverso l’indipendenza di Slovenia (1991), Croazia (1991) e Macedonia (1991), le guerre del 1992-1995, con la creazione dell’incredibile mosaico di Dayton in Bosnia-Erzegovina, l’intervento Nato contro la Serbia (1999) e l’indipendenza del Montenegro (2006), hanno completamente modificato tutto il quadro geopolitico dei Balcani.
Questi avvenimenti si sono prodotti proprio mentre l’Europa sviluppava un pacifico processo di unificazione continentale che, sembrato dapprima inarrestabile, è andato nel corso degli ultimi anni sempre più incontrando difficoltà nella definizione dei fondamenti di una comune identità culturale e politica, nella capacità di esprimere una presenza coerente nella politica internazionale e nel risolvere i crescenti problemi relativi agli assetti dell’area orientale del continente: rapporti con la Russia in primis e situazione appunto dei Balcani.
Non occorre essere specialisti di storia contemporanea per accorgersi che, in definitiva, nella prospettiva di lungo periodo, l’Europa sta continuando a raccogliere i frutti della sistemazione che al continente si volle dare nel 1919 a Versailles, alla fine della Grande Guerra, affermando, con solo apparente ingenuità, grazie all’acritico accoglimento del wilsonismo nordamericano, il principio della autodeterminazione dei popoli, che così utile era stato, con i Quattordici Punti nella battaglia di idee contro gli Imperi Centrali. Principio che inserendosi nell’area di sutura delicatissima fra Mitteleuropa ed est Europa, in un tessuto etnico-religioso estremamente complesso, per il portato storico di almeno sette secoli, è risultato chiaramente esplosivo, nella sua fredda indifferenza, astrattamente giuridica, alla storia. Né più né meno di come lo sono stati gli altri parti del legalismo anglosassone: in Palestina, India, Cipro, Irlanda, per citare solo i più noti.
La sua applicazione ha condotto dapprima all’odio profondo che, per motivi diversi, maturarono in Germania e in Italia contro un assetto di pace ritenuto ingiusto, a tutto beneficio dei vincitori, dando un decisivo impulso agli eventi che condussero alla Seconda Guerra mondiale. Oggi porta, in una onda lunga di quasi un secolo, all’attuale pericolosa “libanizzazione” dei Balcani. Un primo pericolo sta nel fatto che le entità statuali che si sono artificiosamente create sono funzionalmente incapaci di operare come uno Stato nazionale moderno dovrebbe, sono cioè privi di un’effettiva auto-sufficienza economica e amministrativa. Basti pensare alla Bosnia Erzegovina, una entità articolata su qualcosa come 11 sotto-entità politico-amministrative, spesso in conflitto fra loro, ragione per cui, per esempio, non si è ancora giunti alla creazione di una comune forza di polizia. Naturali conseguenze, in un sistema internazionale mondializzato, sono, da una parte, lo straordinario spazio d’azione che si è aperto alle economie illegali, gestite in forma feudale dalle organizzazioni della criminalità internazionale: basti dire che si stima che l’80% delle risorse economiche del Kosovo provengano da traffici illeciti, droga e armi in primo luogo. D’altra parte, la creazione in questi Paesi di enclave di carattere strategico-militare da parte degli Stati Uniti, che vi hanno collocato, fuori del controllo Onu e persino Nato, grandi installazioni militari (Camp Bondsteel, Camp Able Sentry, Camp Monteith, Camp Comanche), che rispondono ad una logica strategica che ovviamente Paesi privi di sovranità non sono in alcun modo in grado di condizionare o controllare.
Proprio come nel 1919, l’applicazione del principio dell’autodeterminazione è quindi un utile strumento dietro il quale si costruiscono posizioni di egemonia, se si pensa alla rilevanza che quest’area ha assunto per i prossimi sviluppi delle grandi linee di trasmissione dell’energia fra Russia ed Europa; per il controllo della pericolosa “faglia” di conflitti religiosi con il mondo musulmano, che qui trova la propria estrema propaggine europea; per la proiezione aereo-spaziale verso l’area mediterranea, russa e vicino-orientale.
Eppure, l’Unione Europea, con la missione Eulex che dovrebbe nei prossimi mesi garantire il rispetto della legalità internazionale in Kosovo, non ha fatto altro che aggiungere una nuova infrazione ai trattati internazionali esistenti, come è regolarmente avvenuto dopo il 1990: l’intervento delle Nazioni Unite e della Nato nel 1999, seguito ad una sorta di diktat che gli Usa dettarono alla Serbia a Rambouillet, infrangeva infatti il Trattato di Helsinky del 1975 che, sul finire della Guerra Fredda, aveva voluto disegnare in Europa, attraverso il principio della intangibilità dei confini esistenti, un quadro di stabilità continentale che evitasse il riaprirsi di drammatici contenziosi fra Stati. Ma l’indipendenza viola ora anche le regole che l’Onu si è data con la risoluzione n. 1244, quella appunto che giustificò i bombardamenti Nato su militari e civili in Serbia e in Kosovo (causando qui, per inciso, assai più vittime e profughi di quelli che si attribuivano alla repressione serba): cioè il mantenimento dell’autonomia della regione senza modifiche all’integrità territoriale della Repubblica serba. Infine, illegittimità nell’illegittimità, l’Unione non potrebbe in realtà assumere impegni internazionali in mancanza dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, solo atto da cui ricava una personalità giuridica internazionale!
Questo terribile puzzle giuridico sta creando immediate frantumazioni politiche nei governi dei Paesi circostanti, non solo, come prevedibile, in Serbia, ma nella Bosnia Erzegovina serba, in Croazia e in Macedonia: con il possibile risultato di allontanare progressivamente anche questi Paesi dalla prospettiva di un indolore inserimento nell’Unione. Gli incidenti avvenuti a Belgrado prima, e più di recente a Mitrovica (nel Kosovo serbo), non sono probabilmente che un inizio. Ma assai più preoccupante è il fatto che questo uso spregiudicato, alla Versailles appunto, della strumentazione giuridica internazionale, sta creando un muro contro muro con la Repubblica di Serbia, che viene considerata ormai, seguendo la più che decennale propaganda statunitense, il “cattivo” della situazione e viene per questo progressivamente costretta nell’angolo, senza volerne minimamente considerare il possibile ruolo stabilizzatore che potrebbe avere nel contesto balcanico, proprio come fu per la Jugoslavia titoista per quasi mezzo secolo. Una scelta geopolitica di incomprensibile miopia, della quale sarebbe necessario approfondire le effettive ragioni, sulle quali, per esempio, la diplomazia italiana non ha dato alla pubblica opinione il benché minimo chiarimento, nel momento in cui si è precipitata a riconoscere l’indipendenza del Kosovo.
Ma non basta, giacché, oltre i Balcani stessi, questa indipendenza influenza in maniera pesantemente negativa i rapporti con la Russia, in un momento di passaggio delicatissimo: la decisione europea di sostenere l’indipendenza del Kosovo e di mettere alle corde la Serbia, pare infatti coerente solo con la strategia che gli Stati Uniti stanno perseguendo con vigore negli ultimi due anni, cioè di tornare a cingere la Russia con una cintura militare di armi strategiche, che questa volta, a differenza del periodo della Guerra Fredda, sono assai più vicine al cuore del Paese – dato che non esiste più il cuscinetto protettivo degli ex- Paesi satelliti, che anzi sono ora i più pronti ad ospitare gli armamenti missilistici americani puntati su Pietrogrado e su Mosca.
Pare quasi che l’Unione Europea stia commettendo lo stesso errore dell’impero Austro-ungarico: dinanzi al complicato quadro rappresentato dal crescere del senso identitario degli slavi del Sud, in un insieme territoriale, culturale e religioso così intricato, sul quale soffiavano il fuoco tutti i nemici vicini e lontani dell’impero (si pensi all’assegnazione del mandato della Bosnia-Erzegovina all’Austria al Congresso di Berlino del 1875…), la monarchia restò paralizzata, incapace di trovare soluzioni efficaci.
Occorreva infatti già allora ripensare a fondo il concetto stesso dello Stato Nazione moderno, frutto specifico dei processi di unificazione degli Stati europei occidentali: riprenderlo dalla sue fondamenta, domandarsi se non vi possano essere organizzazioni diverse delle componenti politiche, economiche e culturali su cui si articola l’esistenza di popoli liberi. Tale esigenza era forte allora, dinanzi al dinamismo delle democrazie occidentali, pronte a demolire senza rimpianti gli imperi di diritto divino. Tanto più fortemente questa esigenza dovrebbe essere sentita oggi, giacché l’Europa abbisogna di una visione radicalmente nuova della propria storia, per sviluppare da essa una superiore capacità di coesione fra le sue componenti, storicamente tanto diverse. Tanto più essenziale sarebbe questo modello di organizzazione delle società, per tutto il mondo, dato che le gigantesche forze della globalizzazione rendono gli Stati Nazione di per sé deboli dinanzi a forze economicamente condizionanti (il fatturato di Wallmart, dodicesima società al mondo in ordine di grandezza, supera, da solo, quello di ben 161 Stati). E, anche oggi, l’astrattezza del democracy building anglosassone ha dimostrato quel che vale nei pantani iracheno e afghano.
Il Kosovo rappresentava un’occasione unica per l’Europa per proporre dinanzi al mondo un nuovo modello di libera organizzazione delle comunità culturali, politiche e sociali diverse che insistono sullo stesso territorio: questa era la sfida. Ad oggi possiamo dire che a questa sfida l’Europa ha risposto banalmente, applicando gli antichi metri di Versailles, che non potranno dimostrarsi meno disastrosi a Pristina di quello che si sono dimostrati altrove.
A chi ha coscienza della grandezza epocale dell’errore, rimane quindi il compito di lavorare per rimediarvi.

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