Kosovo: nessun passo avanti nella trattativa

Lo scorso 7 agosto, a Vienna, sono ripresi i colloqui fra Serbia e Kosovo sul problema della decentralizzazione e dei diritti delle minoranze nel Kosovo. Dopo l’intervento della Nato 1999 e la recentissima indipendenza del Montenegro, la preoccupazione della Serbia sul destino del Kosovo è ovviamente crescente e fa resistenza all’idea, oramai generalizzatasi, di una qualche forma di futura indipendenza anche per questa ultima regione superstite dell’ex federazione jugoslava.
I colloqui, cui era presente l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martti Ahtissari, si sono però interrotti il giorno seguente, in assenza di benché minimi progressi.
Il primo ostacolo è stato che i serbi del Kosovo non hanno inteso essere presenti con una propria delegazione, proprio per rimarcare la propria appartenenza alla Nazione Serbia e per questo non intendendo essere considerati una "minoranza" kosovara. Si tratta, come ben si comprende, di una questione preliminare non meramente procedurale, in quanto l’ammissione di essere una minoranza implica un riconoscimento di fatto del Kosovo quale entità politica autonoma rispetto alla Serbia.
Resta il fatto che, anche ammessa l’indipendenza della regione, non è chiaro quale possa essere il reale futuro del nuovo Paese, in cui la disoccupazione è al 44 per cento, il 47 per cento della popolazione vive in povertà ed il 13 per cento in condizioni di estrema povertà. Ad oggi, in assenza quasi totale di investimenti esteri che servirebbero per rimettere in funzione le industrie di base (quella dell’energia elettrica e quella mineraria, per esempio), il paese vive delle rimesse dei kosovari all’estero e dei 2,6 miliardi di euro che la missione ONU spende in Kosovo per personale (quasi 70.000 impiegati), beni e servizi, cifra che rappresenta da sola quasi il 9 per cento del suo Pil. Un primo paradosso dell’indipendenza sarebbe con essa la ovvia scomparsa di una fondamentale fonte di reddito.
Anche nel caso del Kosovo, come già in quello della Bosnia, della Macedonia e del Montenegro, non si può non domandarsi allora se la proliferazione di queste nazioni, così indebolite da conflitti etnici interni, sia la strada giusta per lo sviluppo dei Balcani: il processo in atto sembra realizzare in forma ancora più radicale la frammentazione politica sancita nel 1919, con tutti i rischi di un indebolimento strutturale del tessuto politico-economico di un’area cui l’Italia dovrebbe guardare con molta maggiore preoccupazione di quanto non stia facendo.
Risolutivo potrebbe essere il ruolo dell’Unione Europea se fosse capace di elaborare per quest’area modello politico-istituzionale diverso da quello dello Stato-Nazione classico: esso potrebbe fare dei Balcani, invece della polveriera d’Europa, un’occasione di sperimentazione di una nuova forma di organizzazione sociale cui potrebbero un giorno guardare anche altre aree critiche del mondo, come quella mediorientale, tormentate dal problema della frammentazione etnica conseguente alle frontiere artificiali imposte dai diplomatici di Versailles quasi un secolo fa.

Print Friendly, PDF & Email