Il romanzo delle stragi di Pasolini

Trent’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini. Rifuggendo le conformiste commemorazioni, Clarissa vuole ricordare il poeta per ciò che il suo pensiero può ancora servire alle nostre vite, ad illuminarle. Per la rubrica che teneva sul Corriere della Sera, nel 1974 Pasolini espresse alcune tesi folgoranti in cui si ventilava il proposito di scrivere un romanzo monumentale, una sorta di summa del suo pensiero. Il titolo era emblematico, Petrolio, ed infatti il libro (pubblicato postumo alcuni anni fa, compare ancora allo stato embrionale e pieno di tracce di lavoro incompiute) doveva essere una analisi sul potere e sulle strategie da esso attuate per la sua perpetuazione. Ma non un trattato filosofico, o almeno non solo, soprattutto un romanzo del reale, con personaggi e fatti reali. Dalla strage di Portella della Ginestra, alla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei (da cui il titolo dell’opera) fino alla strategia della tensione negli anni ’70, di cui Pasolini non fece in tempo a vedere la fine, ma di cui aveva capito tutto. Anzi, di cui conosceva nomi e cognomi degli attori, sia delle marionette che di coloro che tiravano le fila.
Perché rileggere oggi quelle pagine? Perché nel 1974 Pasolini diceva cose che quasi nessuno dice ancora oggi su quegli anni, ed è questo il motivo principale per cui i metodi di affermazione del potere (e precisamente di quel potere) continuano ancora oggi indisturbati e tremendi, allo stesso modo, con l’identico vento di morte e sopraffazione. Poco importa se le comparse e gli scenari sono cambiati, se allora si trattava della italiana provincia dell’Impero ed oggi riguarda il pianeta intero, se allora era l’accento del sud di un grigio funzionario dell’apparato statale italiano ed oggi è l’accento texano del presidente di una nazione formidabile, poco importa se allora si costruiva un piccolo Lenin baffuto e armato di P38, o si utilizzava un ragazzo desideroso di rinverdire il fascismo dei padri umiliati, mentre oggi si usano le icone mediatiche di spettri che si rifugiano nelle grotte dell’Afghanistan. Il potere è lo stesso, gli stessi sono i metodi.

Per questo, solo per questo, Pasolini è ancora oggi vivo e più che mai abbiamo bisogno del suo pensiero. Pubblichiamo alcuni stralci di quello scritto apparso sul Corriere oltre trenta anni fa, con lo sgomento di accorgerci che decenni sono trascorsi e vite e si sono perdute, invano.

dal "Corriere della sera" del 14 novembre 1974 col titolo "Che cos’è questo golpe?", di Pier Paolo Pasolini:

”Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum.

Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra,
hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione
politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di
riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di
Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per
creare in concreto la tensione anticomunista) e infine
ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse
per sempre, senza nome (per creare la successiva
tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che
stanno dietro a dei personaggi comici come quel
generale della Forestale che operava, alquanto
operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi
bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente
organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che
stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le
suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni,
siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come
killers e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti
(attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono
resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che
cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere
tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò
che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche
lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e
frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare
l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del
mio mestiere. Credo che sia difficile che il "progetto
di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè
attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a
fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre
che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano
ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere.
Perché la ricostruzione della verità a proposito di
ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi
così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione –
sta dietro una
grande quantità di interventi anche giornalistici e
politici: cioè
non di immaginazione o di finzione come è per sua
natura il mio. […]

Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche
delle prove o,
almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici,
pur avendo
forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno
i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a
chi non solo
ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è
compromesso nella
pratica col potere, e, inoltre, non ha, per
definizione, niente da
perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare
pubblicamente quei
nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere,
tiene rapporti
pratici col potere, ha escluso gli intellettuali
liberi – proprio per
il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere
prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come
intellettuale, e
inventore di storie, potrei entrare in quel mondo
esplicitamente
politico (del potere o intorno al potere),
compromettermi con esso, e
quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa
alta
probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è
possibile, perché è
proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo
politico che si
identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a
dire la
verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica
politica sono due
cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente
disprezzato da
tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato
falsamente alto
e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i
problemi morali e
ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato
traditore del
suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse
altro che
questo) al "tradimento dei chierici". Gridare al
"tradimento dei
chierici" è un alibi e una gratificazione per i
politici e per i
servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche
un’opposizione al potere. […]

.
Ma […]
l’opposizione si
identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre
potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione
non possono
non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così
drammaticamente ci
riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale
un mandato
stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a
questo mandato –
puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma
soddisfazione
di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici
dell’opposizione, se hanno –
come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non
fanno i nomi
dei responsabili reali, cioè politici, dei comici
golpes e delle
spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non
li fanno nella
misura in cui distinguono – a differenza di quanto
farebbe un
intellettuale – verità politica da pratica politica. E
quindi,
naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove
e indizi
l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano
nemmeno, com’è del
resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello
che gli viene
imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo
codificato di
intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare
momento della
storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di
sfiducia
contro l’intera classe politica. Non è diplomatico,
non è opportuno.
Ma queste categorie della politica, non della verità
politica: quella
che – quando può e come può – l’impotente
intellettuale è tenuto a
servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei
responsabili dei
tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al
posto di questo)
io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa
contro
l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo
nei
principi "formali" della democrazia, credo nel
Parlamento e credo nei
partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare
ottica che è
quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia
(anzi non aspetto
altro che questo) solo quando un uomo politico – non
per opportunità,
cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto
per creare la
possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi
dei
responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che
evidentemente
egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno
indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà –
magari
decidendo "diplomaticamente" di concedere a un’altra
democrazia ciò
che la democrazia americana si è concessa a proposito
di Nixon [si riferisce allo scandalo Watergate ed alle conseguenti dimissioni del presidente degli Stati Uniti, n.d.r.] –
questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli
saranno uomini che
hanno condiviso con essi il potere: come minori
responsabili contro
maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso
americano, che
siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero
colpo di Stato.”

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