L’INTERVISTA A SCELLI RIAPRE IL CASO CALIPARI

Consigliamo ai nostri lettori di confrontare l’intervista a Scelli pubblicata da LA STAMPA del 25 agosto e che riproduciamo qui di seguito.
Vi chiediamo solo di confrontarla con il nostro articolo All’ultimo check point, sul caso Calipari
Lasciamo al lettore osservazioni e conclusioni…

Bugie italiane

Maurizio Scelli racconta come furono liberati gli ostaggi a Baghdad: mentendo agli Usa

LA STAMPA 25 agosto 2005
di Guido Ruotolo
CORTINA D’AMPEZZO. «Nessuno deve saperlo. Soprattutto non devono saperlo gli americani». Maurizio Scelli racconta: «Avevo appena allacciato i contatti con il Consiglio degli Ulema, con i fratelli Al Kubaysi, per tentare di recuperare il corpo di Fabrizio Quattrocchi prima di cercare di ottenere la liberazione degli altri tre ostaggi italiani, Agliana, Cupertino e Stefio. Il tacere agli americani i nostri tentativi di liberare gli ostaggi fu una condizione irrinunciabile per garantire l’incolumità degli ostaggi e nostra, che feci mia sin dal primo giorno, e che trovò d’accordo, quando gliela rappresentai, anche il sottosegretario Gianni Letta.
A Baghdad, quando si trattò di riportare in Italia le due Simone, Nicola Calipari, consapevole di questa direttiva si raccomandò con me di non parlarne neppure al generale Mario Marioli, italiano, vicecomandante delle forze alleate in Iraq che, invece, fu informato dallo stesso Calipari dell’operazione Sgrena». L’auto sale per le valli del bellunese diretta a Cortina, dove Scelli, commissario straordinario uscente della Cri, deve partecipare a un dibattito sull’«intelligence» organizzato dal giornalista-economista Enrico Cisnetto. Durante il viaggio Scelli parla del suo Iraq: la missione umanitaria della Cri in una zona di guerra gli ha consentito di conoscere da vicino l’«area grigia» dei sequestratori degli occidentali riconducibile ai «resistenti» sunniti contro l’invasione dell’Iraq. Scelli ricorda le trattative, i canali attivati, dà volto e nomi ai mediatori che a partire da quel lunedì di Pasquetta, il 13 aprile del 2004, quando furono sequestrati i primi (quattro) italiani, si misero in azione per ottenere il rilascio degli ostaggi. E la sua storia arriva ai giorni nostri, al recupero dei resti del giornalista freelance Enzo Baldoni e di Salvatore Santoro, l’italiano residente a Londra ucciso il 16 dicembre scorso in Iraq, e i cui resti sono tornati in Italia il 21 giugno scorso: «Una vergogna, – commenta amareggiato Maurizio Scelli – la sua bara non era neppure avvolta nel tricolore, come se si fosse trattato di un connazionale di Serie B. Una bara restituita alla famiglia nella totale indifferenza delle istituzioni e dei media…».
TRE BAMBINI SORDI Ai resti di Santoro, il commissario della Cri è arrivato grazie a un cittadino di Baghdad: «Un giorno – rivela – mi viene posto il problema: ci sono tre bambini, Ahmed, Behjed e Uweis, nati sordi dalla nascita per via del padre che ha sposato una cugina. Il padre è disposto ad aiutarci a ritrovare i resti di Santoro. Oggi quei tre bambini sono ricoverati all’unità operativa di otochirurgia dell’ospedale di Padova, dove saranno sottoposti al trapianto di un orecchio artificiale. La riabilitazione, invece, si svolgerà in Giordania». Il racconto di Scelli è un insieme di aneddoti, di particolari, di retroscena inediti. A un certo punto, il commissario Cri fa ascoltare un messaggio ancora memorizzato nella segreteria del suo cellulare: «Le voci diffuse sul nostro conto – dicono in inglese prima Simona Pari e poi Simona Torretta – sono false. Noi stiamo bene, vi preghiamo di rispettare i vostri impegni e di non scherzare con la nostra vita». Era il 23 settembre e Maurizio Scelli stava trattando la loro liberazione. Quello stesso giorno arrivò un comunicato via Internet che dava l’annuncio che le due Simone erano state uccise perché il governo Berlusconi non aveva rispettato l’ultimatum, non aveva ritirato i militari da Nassiriya e fatto liberare le donne detenute ad Abu Ghraib. Naturalmente Scelli, avendo avuta la prova che le due Simone erano vive, tirò un sospiro di sollievo. La telefonata delle due Simone era importante perché i sequestratori chiedevano al commissario Cri, che aveva spiegato di agire in piena e totale autonomia dal governo, di rispettare «gli impegni presi».
DUE CHECK-POINT «I mediatori – ricorda oggi Scelli – ci chiesero di salvare la vita a quattro presunti terroristi ricercati dagli americani, feriti in combattimento. L’operazione non era facile: noi avevamo nell’ospedale di Baghdad medici e personale pronto a intervenire, ma dovevamo riuscire a far arrivare i feriti senza che gli americani ci scoprissero. Fuori dall’ospedale c’erano due check point Usa. Si trattava di aggirarli: facemmo uscire dall’ospedale un’ambulanza e una jeep che ufficialmente andavano a consegnare dei medicinali. In realtà i mezzi si diressero in un luogo convenuto per prelevare i feriti. Nascosti sotto coperte e scatoloni di medicinali, i quattro terroristi – tre, per le ferite riportate erano in condizioni disperate – furono operati e salvati dai medici della Croce Rossa. E poi c’era un’altra condizione: dovevamo curare anche quattro loro bambini malati di leucemia che, se non ricordo male, arrivarono in Italia il giorno dopo le due Simone». La storia delle trattative per il rilascio degli italiani sequestrati in Iraq è segnata sin dall’inizio dalla nostra «diffidenza» nei confronti degli alleati americani. Nel caso Sgrena-Calipari, la versione ufficiale italiana dice che gli americani furono informati dell’operazione mentre la giornalista del manifesto veniva accompagnata all’aeroporto. Scelli, che non fu protagonista di questa fase finale, non smentisce questa versione. Ma insiste: «Che gli americani non dovessero sapere – ricorda Scelli – fu una condizione inderogabile, ripeto, postami da tutti gli interlocutori e mediatori iracheni. Una condizione accettata e condivisa da palazzo Chigi sin dall’aprile del 2004». «Quando finalmente ci furono restituiti i resti di Fabrizio Quattrocchi – ricorda Scelli – dopo che i convogli della Croce Rossa erano andati più volte a Falluja e anche a Najaf, gli Al Kubaysi si dichiararono fiduciosi sulla liberazione dei tre ostaggi. Il 5 giugno mi chiamarono: E’ fatta. C’è un furgone Kia parcheggiato. Controllate gli occupanti e partite senza girarvi». Come è noto, i tre italiani furono liberati insieme a un ostaggio polacco dalle forze speciali americane: «Dovevano essere consegnati agli Ulema e gli Ulema l’avrebbero dati a noi. Ma poi andò diversamente: i due carcerieri non parlavano neppure una parola d’inglese e c’era un problema di comunicazione con gli ostaggi. Uno dei due ebbe la brillante idea di farsi aiutare da un amico che masticava l’inglese. Caso volle che si trattasse di un confidente degli americani che, naturalmente informati subito, liberarono gli ostaggi….».
«NON DIRE NIENTE» Alle due Simone, Scelli arrivò per caso e contro le indicazioni di tutti. Questa volta fu direttamente Mohammed al Kubaysi – professore di diritto islamico all’università di Baghdad, vicepresidente del Consiglio degli Ulema, il personaggio più autorevole e influente del Consiglio – a interrogare il medico iracheno amico del commissario della Cri, Nawar: «Ma Scelli è interessato alle due italiane?». Scelli chiama Letta: «C’è una diffusa ostilità nei tuoi confronti, mi dice Letta. Solo Fabio Alberti, di “Un Ponte per”, l’associazione umanitaria di riferimento delle due Simone, può darti l’ok. Vado da Alberti, in piazza Vittorio, e ascolto il suo grande rifiuto. Io intanto ricevo i messaggi delle due Simone sul mio cellulare. Al secondo messaggio vado da Letta. Lo ascolta, mi dice:“Vai avanti e non dire nulla a nessuno”. Quel giorno, quando il problema è ormai garantire al massimo la sicurezza per il rilascio e il recupero delle due Simone, palazzo Chigi mi affida a Nicola Calipari. Nicola fu davvero straordinario, assumendosi responsabilità contro la volontà dei suoi stessi superiori. Era accaduto che le modalità di rilascio delle due ragazze erano mutate: io e Nawar avremmo dovuto trovarle al parcheggio dell’aeroporto e invece trovammo due emissari che ci volevano portare in una località sconosciuta. Calipari chiese l’autorizzazione al direttore del Sismi, Nicolò Pollari, che la negò: “Annullate l’operazione, è una trappola, vogliono sequestrare Scelli”. Attimi di incertezza, di tensione e alla fine Nicola capì che doveva lasciarci andare. Passarono sei ore drammatiche, noi fummo sequestrati ma alla fine le due Simone tornarono a casa». Anche per Giuliana Sgrena la Croce rossa si attivò. Stava lavorando per ritrovare i resti di Enzo Baldoni (in questi giorni è arrivata la conferma che un campione di ossa è compatibile con il dna di Baldoni) quando si «materializzò» la voce della giornalista de “il manifesto” sul cellulare di Nawar. “Il manifesto”, come “un Ponte per” nel caso delle due Simone, respinse l’offerta di aiuto di Scelli. Calipari stava già trattando e portando a termine la sua missione. Al prezzo della sua vita.

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