La cospirazione è un venticello, anzi un terremoto

E’ trascorso oltre un mese dal maremoto nell’Oceano Indiano. Clarissa non ha voluto commentare in alcun modo quella immensa tragedia, non è nostro compito, e non avremmo potuto aggiungere parole nuove di pietà e dolore rispetto a quante (magari anche inutili) sono state spese dai maggiori canali di informazione. Piuttosto è da indicare come quella informazione si sia già fatalmente dimenticata dell’accaduto, non dedicandole nemmeno più una parola, mentre sarebbe utilissimo, oggi, ad emergenza terminata, fissare l’attenzione sui problemi della ricostruzione e dell’abbandono secolare di quelle popolazioni. Ma forse è bene commuoverci di fronte alle immagini di un bambino morente e di un padre che lo sorregge, mentre non è bene sapere chi e come farà affari con il dopo catastrofe.

Oggi vogliamo affrontare l’argomento, ma con taglio del tutto differente (anzi, addirittura incidentale) rispetto alla tragedia. Lo spunto ci è venuto dalla lettura di una serie di articoli comparsi soprattutto su siti internet di controinformazione, che ventilano l’ipotesi di una origine umana, e non naturale, del maremoto asiatico.
Alla base di questa lettura “dietrologica” e “cospirazionista”, starebbe una coincidenza effettivamente molto suggestiva: esattamente un anno prima (il 26 dicembre 2003), un forte terremoto radeva al suolo la storica città di Bam, in Iran, con 50.000 morti. Se poi si considera che l’Iran è attualmente lo “stato canaglia” numero uno per l’amministrazione americana, che in due delle zone maggiormente colpite dal nuovo cataclisma erano in corso guerriglie antigovernative (Sri Lanka e Sumatra), che quella zona dell’Indonesia (proprio Banda Aceh, nell’isola di Sumatra) è ricca di petrolio, ecco che le varie fantasie cospirazioniste possono facilmente sbizzarrirsi.
Aldilà delle ipotesi più fantasiose, che vanno dall’intervento di elementi alieni, al solito complotto giudaico-sionista volto al dominio del pianeta, stupidamente riproposto dal solito giornaletto arabo e subito rimbalzato sulla solita stampa israeliana, restano due teorie che portano con sé un certo carico di coerenza e documentazione.
La prima riguarda l’ipotesi di utilizzo di una nuova catastrofica arma capace di influenzare gli elementi naturali, e quindi in grado di scatenare delle vere e proprie “guerre climatiche” e “sismiche”. La possibilità è tutt’altro che peregrina, per quanto improbabile la si possa pensare. Non è affatto un’invenzione, infatti, il progetto HAARP (High frequency Active Auroral Research Program), cioè l’utilizzo di onde elettromagnetiche per bombardare l’atmosfera, provocando volutamente uragani e tempeste a scopo militare. Una tale arma potrebbe essere utilizzata, ad esempio, come supporto durante un attacco convenzionale per mettere in difficoltà le difese nemiche, ma se usata a lungo termine, può essere un ottimo fattore per la destabilizzazione di un paese avverso. Pensiamo alla possibilità di provocare siccità e alluvioni, oppure mutamenti climatici permanenti. Il progetto HAARP non è né segreto, né fantascientifico. Esistono tre basi utilizzate dai militari americani per le sperimentazioni con le onde elettromagnetiche, una si trova in Alaska nella base di Gokona (con tanto di sito ufficiale: www.haarp.alaska.edu), l’altra a Tromsoe in Norvegia, la terza in Groenlandia. Per maggiori informazioni, molto esaustivo e ben dettagliato è un articolo di Michel Chossudovsky reperibile su http://globalresearch.ca/articles/CHO409F.html . Nell’articolo, in realtà, si parla solo di guerre climatiche, e non si fa cenno a guerre sismiche, se non per un rapporto dell’aviazione americana (non correlato col progetto HAARP) in cui si enuncia la possibilità di usare le onde elettromagnetiche per “modificazioni indotte nella ionosfera” capaci di scatenare a scopi militari e/o di deterrenza: disturbo delle comunicazioni e dei radar nemici, inondazioni, uragani, siccità, terremoti (US Air Force. Air University of the US Air Force, AF 2025 Final Report, www.au.af.mil/au/2025/). Pertanto, se la guerra climatica è un elemento di studio, non si sa a quale stadio di avanzamento, la guerra sismica rimane una semplice possibilità (o forse un auspicio).
Un’altra ipotesi di cospirazione è quella dell’analista politico e militare australiano Joe Vialls (www.vialls.com), che denuncia la possibilità che il maremoto sia stato scatenato da un ordigno nucleare posto sotto la faglia tettonica da un sottomarino. Le indicazioni fattuali a sostegno di questa ipotesi ci sono sembrate in realtà deboli. La prima sarebbe la irregolarità e la non corrispondenza dei rilevamenti effettuati da vari laboratori di geofisica: le prime indicazioni davano infatti l’epicentro in un punto diverso da quello poi ufficialmente indicato (con uno spostamento di 250 miglia) e la stessa magnitudo sarebbe stata successivamente modificata (passando dagli iniziali 6,4 gradi rilevati dall’Ufficio geofisico di Giakarta, ai 9 gradi dell’americano Noaa, National Oceanic and Atmosferic Administration). A questo si dovrebbe aggiungere (ma qui Vialls è piuttosto confuso) il rilevamento da parte dei sismografi di cosiddette onde P, cioè onde che indicano una esplosione sotterranea, e lo strano andamento delle cosiddette onde S, quelle proprie dei terremoti. Perché questa ipotesi possa essere plausibile, bisogna dunque ammettere che alla cospirazione devono aver partecipato praticamente tutti gli istituti geofisici mondiali, visto che un maremoto di quella portata ha avuto ripercussioni addirittura planetarie. Oppure, che è lo stesso, che i dubbi avanzati dai sismologi siano stati messi sistematicamente sotto silenzio, a parte quelli che hanno informato Vialls, ovvio. Ma, aldilà di questo, viene scontato chiedersi se lo scenario prospettato sia scientificamente attuabile. Può davvero un ordigno nucleare provocare lo spostamento di una faglia tettonica? E ammesso che sia possibile, perché farlo? Perché nell’Oceano Indiano? Una dimostrazione, un esperimento sfuggito al controllo, o cos’altro? Insomma, le domande a cui Vialls non dà risposta ci sembrano tante, e le sue indicazioni vaghe o improbabili.
Annotiamo piuttosto un aspetto secondario della vicenda, indicato dallo stesso analista a supporto della tesi principale. La marina americana sarebbe andata in aiuto delle popolazioni indonesiane con mezzi da guerra, uno spiegamento di forze impressionante, con tanto di portaerei (USS Abraham Lincoln, equipaggiata con elicotteri d’attacco Cobra), un’intera squadra navale appoggiata da sottomarini nucleari in assetto di combattimento, e un reggimento di marines. Capo della spedizione il generale Rusty Blackman, già capo dei marines nell’operazione “Iraqi Freedom”.

Da quanto esposto, ci sentiamo di trarre alcune considerazioni. La prima e più evidente, è che l’ipotesi di una cospirazione per spiegare il maremoto in Asia ci sembra, allo stato dei fatti, e fino a nuova prova contraria, del tutto priva di qualsiasi fondamento. Ci fornisce invece molti spunti interessanti per indagare (elemento che ci sembra ben più significativo) il binomio informazione/disinformazione.
Sono molti a pensare che una storia oscura dell’umanità coesista insieme a quella ufficiale, ma risolvere in cospirazione ogni mistero, può servire esattamente allo scopo contrario che si propongono i dietrologi, cioè servire la verità per operare una sorta di liberazione delle menti e dei cuori degli uomini. In realtà, spesso non c’è alcun bisogno di rivolgersi verso letture che vadano oltre la verità ufficiale per comprendere andamenti inquietanti della realtà contemporanea o storica.
Prendiamo gli esempi sopra riportati. È del tutto fuori luogo citare il fantomatico complotto del maremoto asiatico e metterlo in qualche relazione con un progetto serio e documentato come lo HAARP, così facendo si rischia anzi di tramutarlo in barzelletta, parificandolo ad una affascinante storia di fantasmi o Ufo. Dovrebbe invece far riflettere quello che abbiamo già palesemente sotto gli occhi, e cioè che una potenza mondiale come quella americana possa davvero pensare di modificare il clima a scopi militari. Questo corrisponde ad una mentalità perversa di egemonia, che antepone il desiderio di potere a qualsiasi altra pulsione umana. E tenta di farlo in maniera sottile, subdola. Gli Stati Uniti hanno già ampiamente dimostrare di poter sconfiggere militarmente ogni avversario, ma per fare questo hanno bisogno di mostrare muscoli e sacrificare soldati, inventarsi false prove o pretesti, fare la parte dei “cattivi” di fronte al mondo scardinando l’immagine di patria della libertà, della democrazia, e del “bene”. Una siccità fa certamente meno rumore di un bombardamento. Ma i suoi effetti possono essere ancora più devastanti, colpiscono indiscriminatamente la popolazione civile, anzi, offendono proprio i ceti più poveri, minano alla base le strutture civili, la capacità di autodeterminazione e coscienza di popoli e nazioni. Renderebbe ancora più emblematica l’espressione: “fare un deserto e chiamarlo pace”.
Allo stesso modo, nel secondo caso prospettato, l’idea che la maniera migliore per rispondere ad una emergenza umanitaria sia quella di mandare la marina militare con una spedizione che assomiglia tanto ad un corpo di invasione, appare davvero come simbolo dei tempi. La guerra e i suoi strumenti sono talmente introiettati nel nostro comune agire che appare normale, anzi, efficiente e funzionale, che siano i marines e gli elicotteri Cobra a correre in aiuti delle popolazioni colpite da un cataclisma. Tutte le comunità dovrebbe auspicare di vivere sotto il controllo del ferro americano, in caso di bisogno sarebbero ben lieti di aiutarle, salvarle, proteggerle. Ma questo meccanismo ce ne ricorda immediatamente un altro: anche la mafia offre la sicurezza in cambio della libertà.

La responsabilità dell’informazione, della controinformazione in particolare, diventa ancora più delicata. Indicare e mescolare in maniera superficiale fatti, supposizioni, ipotesi, può rivelarsi un boomerang pericoloso. Dalla morte di Kennedy all’11 settembre, tutto può finire nel calderone fumoso del verosimile e del dubbio, senza che questo aiuti minimamente a smuovere le coscienze o fornisca adeguate metodologie di azione. Tenere sempre desta l’attenzione per comprendere i percorsi invisibili che conducono agli eventi è fondamentale, ma non basta. Capire non significa necessariamente guardare dietro, a volte è nella realtà più visibile che si nasconde un nucleo rivelatore di verità. Basta saperlo cogliere.

Commento di G. Colonna

Le informazioni fornite dall’inquietante Ultima ora “La cospirazione è un venticello, anzi un terremoto” pubblicato su questo sito, sono certamente interessanti.
Per scrupolo dietrologico, ricordiamo anche lo “strano caso” della base di Diego Garcìa, fondamentale per il Central Command Usa, che gestisce tutte le operazioni militari in Medio Oriente: la base è stata toccata dallo tsunami, senza riportare danni.
Alla cosa ha dedicato un servizio persino l’autorevole BBC World e il fatto ha richiesto una precisazione da parte dello stesso comando della base.
Pare che la non comune fortuna dell’importante struttura strategica Usa (per inciso, merita guardare bene il sito www.dg.navy.mil per capire di cosa si tratta quando si parla di potenza aeronavale statunitense…!) sia dovuta alla struttura dei suoi fondali marini.
Ma vi è una considerazione ulteriore che ci permettiamo di suggerire: peggiore dello tsunami, osiamo dirlo, per quei lontani Paesi che ne sono stati investiti, potrebbe essere proprio l’arrivo di enormi risorse finanziarie e materiali, raccolte dall’opulento Occidente e trasferite con grande dispiego di mezzi e di pubblicità nelle retrovie del disastro.
Pochi hanno notato la singolarità della posizione politica assunta al riguardo dal governo dell’India che per prima ha rifiutato gli aiuti, dichiarando autarchicamente di pensare da sé a risolvere i propri problemi; successivamente anche il governo Indonesiano ha richiesto l’allontanamento del personale estero di soccorso.
Evidentemente questi Paesi hanno valutato la questione non solo, come potrebbe sembrare superficialmente, da un punto di vista della mera dignità nazionale e del timore di pericolose influenze politiche e ideologiche: hanno calcolato quanto di corruzione, mafie, e sommovimenti criminali e terroristici può comportare la gestione di un flusso di risorse di tali dimensioni, in tessuti socio-economici assai meno strutturati rispetto a quelli occidentali e culturalmente così diversi dai sistemi dei Paesi donatori, per altro non immuni da problemi ogni volta che si sono trovati ad amministrare interventi “umanitari” così consistenti.
Dalla Somalia ai Balcani, dall’Iraq all’America Latina, sono ampiamente documentati, anche per i Paesi occidentali, i problemi di corruzione, anche ad altissimo livello, nella conduzione di queste grandi operazioni le cui dimensioni finanziarie sono tali che finiscono per far gola ad ogni tipo di gruppo organizzato che, insieme al denaro, cerchi di accrescere la propria influenza in aree così duramente colpite da risultare come svuotate di una propria autonoma sovranità.
Per quanto queste osservazioni siano pericolosamente contro-corrente, ci sembra doveroso proporle qui a persone intellettualmente emancipate: sarebbe davvero drammatico per il futuro dei Paesi così detti “in via di sviluppo” che al pericoloso pregiudizio di quanti credono di poter imporre con le armi la democrazia, scavalcando secoli di evoluzione politica e culturale, si aggiungesse quello di credere che per aiutare davvero quest’umanità sofferente basti sommergerli di denaro e beni.
Queste riflessioni, del resto, ci conducono inevitabilmente ad altre, ancora più azzardate e politicamente rischiose su questo modo, tipico delle democrazie occidentali, di intervenire “umanitariamente”.
Per esempio: il Piano Marshall, con cui, come si sa, gli Stati Uniti d’America promossero la rinascita economica dell’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale – quanto ha influito sulla dipendenza dagli Usa delle classi dirigenti politico-economiche dell’Occidente europeo? Quanto sull’instaurarsi di sistemi di corruzione politica di cui ci si è resi conto quasi mezzo secolo dopo? Quanto ha approfondito il divario tra Europa occidentale e orientale? Quanto ha stravolto l’identità culturale dei popoli europei?
E da qui ad un interrogativo ancor più di fondo: è stata davvero, questa, un’azione umanitaria o un’intelligente, profonda e indolore operazione di “imperialismo compassionevole”?
Se lo tsunami spingesse gli Europei a ripensare anche da questo punto di vista la propria condizione storica attuale, allora veramente sarebbero le 300.000 vittime dell’Asia sud-orientale ad averci aiutato col loro sacrificio molto più di quanto noi potremo mai aiutare coi nostri soldi i sopravvissuti della catastrofe presente.

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