La morte di Yasser Arafat e gli sviluppi della politica mediorentale

La morte del leader palestinese Yasser Arafat, ufficializzata alle ore 3,30 di giovedì 11 Novembre 2004, apre nuovi sviluppi alla realizzazione di uno Stato palestinese in Medioriente.
Nato nel 1929 (stando all’anagrafe egiziana, il 24 agosto, ma lui ha sempre sostenuto di essere nato il 4 agosto a Gerusalemme e alcune biografie ne attribuiscono i natali a Gaza o in altre località), la figura di Arafat è sempre stata fortemente controversa. La sua adesione alla causa palestinese risale ai primi anni Cinquanta, al 1956 precisamente, quando partecipò alla guerra di Suez nelle fila dell’esercito egiziano. Fondamentale è la data dell’ottobre 1959, quando, in Kuwait, fondò Al Fatah, un movimento di liberazione che, dopo la creazione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), avvenuta nel 1964, ne diventerà la principale componente. Riapparve, dopo la guerra del 1967, con il nome di battaglia di Abu Ammar. Superò indenne il settembre nero del 1970, quando re Hussein scatenò una repressione militare contro i feddayn e lo cacciò dalla Giordania: il quartier generale dell’OLP si trasferì a Beirut prima e a Tunisi poi, a seguito dell’invasione israeliana del Libano nel 1982.
Nel settembre 1993, dopo trattative segrete tra l’OLP e Israele mediate dalla Norvegia, riuscì ad arrivare alla storica firma della "Dichiarazione di principi" comune e all’indimenticabile stretta di mano con il premier israeliano Yitzhak Rabin a Washington, che gli valse l’anno successivo il premio Nobel per la pace. Nel 1994, dopo 27 anni di esilio, Arafat tornò nei territori palestinesi alla guida dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), nata in seguito agli accordi di Oslo. Nel 1996 fu eletto presidente dell’ANP.
Dopo il fallimento degli accordi di pace di Wye Plantation, la leadership di Arafat venne fortemente messa in discussione da Israele e dagli Stati Uniti, che lo accusarono di incoraggiare il terrorismo, nonché da alcuni settori palestinesi: quelli radicali che lo consideravano troppo “morbido” e quelli che denunciavano la corruzione della sua gestione politica e chiedevano una riforma dell’ANP.
Dal dicembre del 2001 fino a maggio 2002, confinato nel suo quartier generale di Ramallah, venne assediato dai carri armati israeliani per rappresaglia contro i crescenti attentati esplosivi che Israele gli rimproverava di non fermare.
Sotto la nuova pressione americana dell’amministrazione di George W. Bush, ideatore, insieme al Segretario di Stato Colin Powell, della Road map per la pace in Medio Oriente, nel marzo 2003 Abu Mazen (Mahmoud Abbas), considerato un interlocutore più credibile per i negoziati, fu nominato alla guida del governo palestinese. Tra Arafat e il premier si crearono però da subito dei contrasti sulla condotta da seguire, interpretati dagli osservatori come la dimostrazione che il vecchio rais non aveva nessuna intenzione di vedere scavalcata la propria leadership. Il 6 settembre dello stesso anno Abu Mazen si dimise e il rais lo sostituì subito con Abu Ala, presidente del parlamento palestinese nonché principale artefice degli accordi di Oslo sull’autonomia della Palestina. Pochi giorni dopo, il governo israeliano decise di espellere il presidente dell’ANP dai Territori, provocando manifestazioni di protesta da parte dei suoi sostenitori.
Il 29 ottobre del 2004, indebolito dalla malattia, smessa la divisa militare che indossava e la kefiah che sempre gli cingeva la testa, in tuta, è partito su un elicottero per Amman, da dove un aereo lo ha portato in Francia, all’ospedale militare “Percy” di Clamart, nell’hinterland parigino, dove morirà l’11 novembre.

Come raramente è avvenuto nella storia, tutto il mondo finiva ormai con l’identificare l’intero popolo palestinese nella sua persona, grazie al suo carisma che gli ha consentito di assumere un ruolo chiave in Medioriente e alla sua lotta a favore dell’autodeterminazione e della creazione di uno Stato palestinese.
Vi sono alcuni eventi da cui si evince chiaramente che la gestione del potere all’interno dell’OLP era fortemente autoritaria: non a caso, a seguito dell’aggravamento delle condizioni di salute di Arafat alla fine del 2003, alti funzionari palestinesi vicini al leader non seppero come gestire la situazione. Lo stesso Ahmad Dudin, ex leader di al-Fatah nella regione di Hebron, si è così espresso in occasione di un’intervista rilasciata alla televisione al-Jazeera: «The Palestinian Authority has always been a one-man operation. Arafat never really agreed to share power. That is the problem» (Citato in Rubin, B., After Arafat, in The Middle East Quarterly, Spring 2004, Volume XI, Number 2, http://www.meforum.org/article/606). Ma un problema forse ancora più serio è la mancanza di una figura che possa sostituire in toto Arafat: egli, con la sua personalità autoritaria, non ha lasciato la possibilità a nessuno di esprimere le proprie potenzialità. Un alto funzionario palestinese, in occasione di un’intervista, si è così espresso: «Egyptian politics is like the pyramid: President Husni Mubarak is at the top, and there’s a very wide base. Syrian politics is like the Eiffel Tower: President Hafez al-Assad is at the top, and there are a few people on each level. Palestinian politics is the shape of Yasir Arafat: Yasir Arafat is Palestinian politics and that’s all there is to it» (Citato in Rubin, B., op. cit., in The Middle East Quarterly, Spring 2004, Volume XI, Number 2).
Arafat si muoveva su un binario che risultava sempre ambiguo: le azioni spesso più significative venivano condotte e attuate da organizzazioni che agivano in modo autonomo. Pur formalmente dichiarandosi non responsabile, egli tuttavia ha svolto la sua attività in modo da far sì che venisse ritenuto tale proprio in virtù di questa identificazione con il popolo palestinese.
La parola d’ordine, semplice ed efficace lanciata da Al-Fatah, di cui Arafat fu il fondatore, divenne: lotta di liberazione su tutto il territorio occupato.
Quando, nel 1967, anche la Cisgiordania e Gaza furono occupate dall’esercito israeliano, insieme a Gerusalemme Est e alle alture siriane del Golan a seguito della guerra dei Sei Giorni, la direzione dell’OLP si dichiarò pronta ad accettare la sconfitta. Fu in questo frangente che Arafat, alla direzione di al-Fatah, comprese che i palestinesi potevano e quindi dovevano «contare solo su se stessi per liberare la Palestina» (Nachira C., I Palestinesi dopo Yasser Arafat, http://www.piazzaliberazione.it/pagine/palestina/nachira2.htm). Fu in quel momento che venne presa la decisione di assumere la lotta armata come unico modo per liberare la patria occupata. Negli ultimi mesi del 1967 furono lanciate azioni di guerriglia sul territorio israeliano attraverso il confine giordano.
Le azioni di resistenza culminarono, nel marzo del 1968, nella battaglia di Karameh che, pur provocando 128 morti fra i palestinesi, lasciò sul terreno 38 soldati israeliani, ma soprattutto costrinse Israele a ritirare le truppe dalla città. Questa battaglia determinò la reazione: il nemico non appariva più invincibile. Grazie a ciò, Arafat riuscì a prendere il controllo dell’OLP.
Il buon esito politico della battaglia di Karameh consentirà alla politica di Arafat nel periodo 1968-1974 di porsi come obiettivo la liberazione di tutta la Palestina. In questa fase, il settembre del 1970 costituisce un momento di svolta. Scoppierà infatti, in quella data, una crisi imprevista. In Giordania la presenza di organizzazioni militari palestinesi condizionava già da tempo la libertà d’azione e la stessa sopravvivenza del regime monarchico di Re Hussein. Nel settembre del 1970, egli lanciava l’ordine di bombardare la capitale Amman. In alcune settimane di furiosi combattimenti, oltre 3.000 palestinesi e giordani morirono per mano araba: molti palestinesi trovarono rifugio in Libano, ma la loro organizzazione politica e sociale seppur gravemente colpita, non fu distrutta.

Nel Libano l’OLP fra il 1974 ed il 1982 creò uno “Stato nello Stato”. Nelle principali città libanesi, Beirut, Tripoli e Sidone, l’OLP si organizzò politicamente, socialmente, economicamente e militarmente. Fin dal 1974 l’OLP, pur non riconoscendo Israele, accettava, di fatto, che il futuro Stato palestinese venisse edificato su una parte della Palestina: Cisgiordania e Gaza. Si assistette quindi ad un “ammorbidimento” della politica dell’OLP, in quanto, anche se non fu abbandonata la lotta armata, essa però non venne più indicata come l’unico mezzo per il raggiungimento della liberazione. Infine, si dichiarava che i palestinesi non avrebbero più effettuato alcuna ingerenza negli affari dei Paesi arabi che li ospitavano.

Con queste credenziali, Arafat è riuscito, primo ed ultimo leader di un movimento di liberazione nazionale, a salire sulla tribuna dell’ONU. Famoso è divenuto il discorso fatto da “Mr. Palestine”, come spesso è stato definito, davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 novembre del 1974. Quel giorno, storico, in cui egli si presentò al consesso internazionale con un’arma in una mano e nell’altra un ramoscello di ulivo, chiedendo a gran voce di aiutarlo a non lasciar cadere quest’ultimo («Today I have come bearing an olive branch and a freedom fighter’s gun. Do not let the olive branch fall from my hand. I repeat: do not let the olive branch fall from my hand» Arafat Y., United Nations General Assembly, New York 13 november 1974, http://www.larivistadelmanifesto.it/en/originale/56A20041219e.html), segnò un’altra svolta. La carta diplomatica a partire da quel momento, sarà quella prevalente nella politica dell’OLP. Questa svolta provocò aspri dibattiti interni: temporaneamente il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo abbandonò mentre esponenti del Fronte democratico per la liberazione della Palestina criticarono aspramente Arafat pur restando nell’organizzazione.
Israele deciderà comunque di optare per l’eliminazione dell’OLP. Il 6 giugno del 1982, infatti, l’esercito israeliano entrerà in forze nel Libano con l’intento principale di liberarsi del problema delle organizzazioni militari dei palestinesi, e in pochi giorni avanzerà fino alla capitale, Beirut. In quel caso, Arafat si vedrà costretto ad accettare l’uscita da Beirut dei guerriglieri palestinesi, affidando i civili dei campi ad una forza multinazionale di pace, composta da uomini americani, francesi e italiani.
Gli anni fra il 1982 ed il 1987 sono stati anni di disperazione. Ancora una volta l’OLP fu data per liquidata. Con la direzione in esilio a Tunisi, assai lontana dalla Palestina, i Palestinesi non potranno che arrendersi. Ma ciò non avverrà.

Allo scoppio della prima guerra del Golfo, nel 1991, Arafat, pur condannando l’invasione irachena del Kuwait, si chiedeva per quale motivo il Kuwait valesse una guerra mentre Israele, che occupava, oltre alla Palestina, anche Siria, Egitto e Libano, non aveva avuto neanche una simbolica sanzione economica da parte delle Nazioni Unite. L’esternazione di questo ragionamento gli costerà caro: egli verrà infatti indicato come alleato di Saddam Hussein.
Nonostante ciò, tuttavia, il presidente americano Clinton convocò una conferenza internazionale per dirimere il conflitto israelo-palestinese. Il governo israeliano pose il veto, accettato da tutti, alla presenza dell’OLP. La delegazione palestinese venne associata a quella giordana. Ma c’era in serbo una sorpresa. I portavoce della delegazione tolsero la scena e la parola a tutti indirizzando il loro discorso alla popolazione israeliana. Shimon Peres a Madrid e Abu Mazen ad Oslo avviavano colloqui segreti.
Nel settembre 1992, sul prato della Casa Bianca a Washington, Arafat, Peres e Rabin siglavano gli accordi di pace. Circa un anno dopo, Arafat rientrava a Gaza. In questo quadro, venivano a più riprese (1995, 1996 e 1998) firmati altri accordi, comunque in un contesto negoziale al ribasso.

Le parole pronunciate dal Segretario di Stato americano Colin Powell la settimana successiva alla morte di Arafat dimostrano quanto la figura del leader palestinese fosse percepita come un ostacolo al processo di pace: «Grazie al nuovo contesto venutosi a creare in seguito alla scomparsa del Presidente Arafat, riusciremo a compiere passi avanti per il processo di pace in Medio Oriente» (Ambasciata degli Stati Uniti d’America in Italia, Powell Sees Hope for "Moving Forward" on Middle East Peace, November 17, 2004, http://www.usembassy.it/file2004_11/alia/a4111803.htm). Il Segretario Powell ha inoltre auspicato che le elezioni relative alla nomina del nuovo Presidente dell’Autorità palestinese avessero un buon esito.

Il nuovo presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, dovrà svolgere un lavoro diplomatico molto delicato per una serie di motivi: innanzitutto perché su di lui confluiscono aspettative molto elevate da parte dell’opinione pubblica mondiale, in quanto è opinione diffusa che, come anche il Segretario di Stato americano Colin Powell ha pubblicamente affermato, il processo di pace in Medioriente dovrebbe compiere importanti passi avanti proprio a seguito della scomparsa del leader palestinese. La prima difficoltà che Abu Mazen potrebbe incontrare risiede nel fatto che Arafat, in oltre quarant’anni al vertice della scena politica mediorientale, ha indotto nella popolazione palestinese l’idea che solo una vittoria “totale” può essere accolta positivamente; ciò significa che i palestinesi hanno, nei confronti di Abu Mazen, delle aspettative che, probabilmente, egli non sarà in grado di rispettare (Rubin, B., After Arafat, in The Middle East Quarterly, Spring 2004, Volume XI, Number 2, http://www.meforum.org/article/606).
Il neo presidente palestinese, Abu Mazen, gode però di molta credibilità a livello internazionale, nonché di una notevole abilità diplomatica e politica, che potrebbe essere spesa, ad esempio, per abbattere il muro fortemente voluto dal premier israeliano Sharon, la cui costruzione è stata condannata da America ed Europa.
Le prime iniziative politiche di Abu Mazen sono tese a migliorare le relazioni diplomatiche, riuscendo a concludere un accordo che dovrebbe permettere lo spiegamento di forze di polizia palestinesi nel centro e nel sud di Gaza, come quello già attuato al nord. È un passo importante, mirante ad impedire gli attacchi palestinesi nei riguardi degli israeliani e dei coloni di Gaza. Con la collaborazione degli israeliani e le trattative di Abu Mazen, con i gruppi radicali palestinesi si potrebbe giungere ad un cessate il fuoco, anche se le condizioni sembrano dovute al posto che Hamas chiede nelle istituzioni palestinesi. E allora si può parlare di tregua o di fase riorganizzativa del terrorismo islamico o ancora, ed è auspicabile, dell’instaurarsi di un equilibrio definitivo che dia infine vita ad un rapporto duraturo tra Israeliani e Palestinesi?

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