L’Europa nella terra di nessuno

La firma del Trattato costituzionale europeo avvenuta a Roma il 29 ottobre 2004, sembra aprire una nuova stagione storica nell’evoluzione e nell’integrazione dell’Unione europea. Oltre la comprensibile retorica degli interventi pubblici, è necessario osservare con attenzione ed obiettività le problematiche che l’Europa si trova ad affrontare e verificare se il nuovo Trattato sia in grado di fornire risposte soddisfacenti.
Prima di tutto riteniamo utile sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti. Il protocollo che è stato firmato non è, come si è invece detto comunemente, una Costituzione europea, ma un Trattato internazionale del tutto simile (nella forma giuridica) a quelli che la storia dell’integrazione europea ben conosce: dal primo Trattato di Roma del ’57 che istituiva la Comunità economica europea, al Trattato di Maastricht che istituiva l’Unione Europea nel 1992; non dissimile dai meno storici e più recenti trattati di Amsterdam o Nizza. Non è solo questione di nomi o distinzioni formali, spesso nella forma e nei nomi si nasconde la sostanza delle cose. Per costituzione, infatti, si dovrebbe intendere la carta fondante di una nuova entità politica e sociale, con istituzioni, forma di governo, rapporti tra cittadini e potere diversi dalla forma precedente. Nel nostro caso si sarebbe potuto parlare correttamente di costituzione nel caso in cui l’Europa avesse deciso di darsi, ad esempio, una forma statuale di tipo federale, mentre le modifiche attuate col nuovo Trattato si muovono, pur con tutte le innovazioni del caso, esattamente nello stesso solco politico/istituzionale/economico di Maastricht. Le istituzioni rimangono le stesse (con la triarchia Consiglio, Commissione, Parlamento), e malgrado sia stato ampliato il ruolo del Parlamento nel processo di formazione degli atti normativi, il nucleo centrale e pesante dell’attività legislativa rimane dentro il Consiglio, cioè in capo all’accordo dei vari governi nazionali. Non si è vista nemmeno un’apprezzabile modificazione delle materie su cui l’Europa può decidere, visto che sia la politica estera che la difesa rimangono sempre campo per politiche comuni e di collaborazione, senza un passaggio di sovranità. Del resto su queste materie (come ad esempio per il fisco) rimane fermo il paletto dell’unanimità, per cui la contrarietà di anche un solo paese può bloccare le decisioni a livello comunitario. La nascita del Ministro degli Esteri europeo rischia di essere, in questo quadro, vuota di significato, limitandosi a diventare una sorta di portavoce delle decisioni unanimi del Consiglio, o, nella migliore delle ipotesi, a creare un super diplomatico da spendere in occasione di mediazioni e controversie internazionali.

Tanto rumore per nulla dunque? Non si deve nemmeno essere troppo ingenerosi: il nuovo Trattato ha il pregio di fare chiarezza, andando a sostituire in maniera organica tutti i precedenti trattati che, in cinquanta anni di integrazioni e modifiche più o meno sostanziali, erano andati a sedimentarsi uno sull’altro; ha integrato, unica vera novità, dentro un unico quadro europeo che finora aveva carattere soprattutto economico, la Carta dei diritti fondamentali, che pur non presentando novità rispetto alla tradizione giuridica ed etica dei vari paesi europei, costituisce la necessaria base affinché la giurisprudenza della Corte di Giustizia possa cominciare a svolgere un’opera di lettura organica ed armonica anche nel campo dei diritti umani; non bisogna poi sottovalutare il fatto che ogni nuova statuizione ha sempre avuto, nel corso dell’integrazione europea, un carattere propulsivo di accelerazione, facendo venire a maturazione i bisogni latenti che la Comunità doveva affrontare.

A dire il vero, però, oltre questo c’è poco di più. È sufficiente ciò per rispondere alle sfide che l’Europa si trova ad affrontare nel nuovo millennio? A nostro avviso le sollecitazioni che si devono affrontare necessiterebbero di ben altre risposte. I terreni di scontro e confronto più problematici sono fondamentalmente due, tra l’altro intimamente connessi: da un lato la globalizzazione e dall’altro il rapporto di rispetto o superamento delle tradizioni e specificità dei popoli.

In questi anni, l’Europa vista essenzialmente come mercato comune senza un vero volto politico, è stata fondamentale per l’affermazione di una globalizzazione con precise caratteristiche: economicamente liberista e culturalmente anglosassone. L’Europa in questo modo non è stata una protagonista attiva della globalizzazione, indirizzandola e modellandola secondo le proprie prerogative, ma ha piuttosto subito, o si è adattata, al modello globale costruito da altre forze. La mancanza di un contro altare al potere egemonico americano ha anche bloccato lo sviluppo autonomo di vaste aree geografiche che dall’Europa dipendono per motivi storici e culturali, come l’America latina e il mondo islamico (Africa mediterranea e Medio Oriente). La nascita di una Europa unicamente come soggetto economico ha segnato in questi decenni la storia dell’umanità, e perdurando ancora la mancanza di un marcato cambiamento di direzione, vengono molti dubbi sulla possibilità di uno sviluppo diverso per il futuro. Questa situazione ha motivazioni storiche e politiche ben precise, basterà brevemente delineare come è nato il progetto della Comunità europea per rendersene conto.
L’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale aveva, come prima e impellente necessità, il bisogno di costituire una rete di rapporti ed istituzioni che impedissero il crearsi di presupposti per un nuovo conflitto intraeuropeo. Gli europei avevano ben chiaro che la tragedia svoltasi sul loro suolo non doveva più ripetersi. Uno dei primi tentativi fu quello di definire un organismo sopranazionale di difesa comune (Comunità europea di difesa, CED) che integrasse le forze armate dei paesi aderenti e che fungesse da primo nucleo per lo sviluppo di una comunità politica ed economica. Il tentativo naufragò per l’accendersi di preoccupazioni e ostilità, soprattutto tra Gran Bretagna e Francia, e l’accordo raggiunto nel ’52 rimase lettera morta per la mancata ratifica della Francia. Sul campo della collaborazione europea rimaneva attiva la CECA, istituita nel 1951, cioè la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, che metteva sotto tutela la produzione dei fattori fondamentali per lo sviluppo industriale del continente, concependo quel mercato senza ostacoli e barriere che sarà il motore per la nascita della CEE nel 1957. In qualche modo questo peccato originale segnerà le sorti di tutto il successivo sviluppo della integrazione europea, costringendolo alla sola urgenza economicistica di creare un mercato comune attraverso cui potessero liberamente transitare merci, capitali, servizi e persone. Solo quaranta anni dopo, con il trattato di Maastricht, si tornerà a parlare, timidamente, di Politica Estera e Sicurezza Comune con la creazione di un secondo pilastro (PESC) della comunità, in cui definire politiche di collaborazione in questi settori.

Oggi, sempre più, appare urgente la necessità di un salto in avanti sostanziale per l’Europa. La politica dei piccoli passi, che ha da sempre segnato l’integrazione europea, sembra oggi insufficiente: mentre nel vecchio continente si procede lentamente, assistiamo da un lato al consolidamento finale di un potere egemonico con carattere imperiale, dall’altro all’ascesa vertiginosa di aree economiche (essenzialmente asiatiche) che sono già, e potranno esserlo sempre più, in concorrenza diretta con l’aerea europea.

La risposta a queste sfide risiede, secondo noi, in una svolta epocale, quella che potremmo definire una autentica rivoluzione copernicana. Se finora è stato tenuto un basso profilo politico a tutto vantaggio di quello economico, è giunto il momento (e forse è già troppo tardi) di un ribaltamento totale di prospettive.
Non è più rinviabile il momento per l’Europa di dotarsi di una politica estera e di un sistema di sicurezza comune. Questo dovrebbe avvenire attraverso un trasferimento sostanziale di sovranità, magari con la nascita di una Commissione PESC che non rispondesse più ai governi e agli stati nazionali, ma avesse una capacità di decisione autonoma e indipendente nelle materie di sua competenza. Piuttosto questa nuova commissione dovrebbe trovare legittimità democratica nel Parlamento europeo (i cui rappresentanti potrebbero eleggerne i commissari) in un rapporto fiduciario simile a quello esistente nei sistemi parlamentari, per cui solo il Parlamento potrebbe far decadere la Commissione prima dello scadere del mandato. In una prima fase, al fine di controbilanciare i poteri della Commissione PESC, si potrebbe prevedere che le decisioni più gravi (come partecipare o avallare un conflitto bellico, inviare forze armate per missioni extra-europee) debbano avere anche la ratifica vincolante da parte del Consiglio europeo. Allo stesso modo si assisterebbe alla nascita di un esercito europeo integrato, a cui ogni nazione affiderebbe i propri reparti di élite, con uno stato maggiore europeo e sotto il controllo politico della Commissione PESC. Il nuovo esercito determinerebbe la crisi del sistema delle vecchie alleanze e ne promuoverebbe di nuove: la Nato sarebbe superata nei fatti, tra Stati Uniti ed Europa si avrebbe una nuova e più reale alleanza, basata su rapporti di forza equivalenti e non di subordinazione; allo stesso livello potrebbero nascere altri sistemi di alleanze, pensiamo alla Russia e alla Cina; il vecchio sistema dell’Onu, basato sul Consiglio di Sicurezza in cui siedono i rappresentanti degli stati vincitori nella seconda guerra mondiale, andrebbe definitivamente in crisi e sarebbe superato.
Anche sul piano economico sarebbe necessaria una inversione di rotta. Che l’Europa di Maastricht, docile adepta delle regole del libero mercato, del profitto e della tecnocrazia finanziaria, sia stata l’alleata più utile per una globalizzazione invasiva e uniformante, è facilmente intuibile. L’uomo comune europeo sente sempre più che i propri modelli di vita vengono influenzati e determinati da decisioni su cui non ha arbitrio: che si tratti di un regolamento di Bruxelles, o di accordi derivanti dal WTO e dal Fondo monetario, in ogni caso ci si rende conto che ormai le decisioni fondamentali passano sopra le teste dei cittadini. Come rispondere a questa minaccia ricostituendo allo stesso tempo una economia europea?
La strada più naturale, a nostro avviso, è quella di andare verso una autosufficienza europea. Il Vecchio Continente non ha bisogno, e dunque non deve, porsi sul piano del profitto senza limite e della competizione con altre aree mondiali. L’Europa ha tutte le risorse, economiche, demografiche, tecnologiche, per essere sufficiente a se stessa. Per fare questo si potrebbe aprire la strada ad una sorta di interdipendenza autarchica, in cui ogni Paese dell’Unione, in accordo con gli altri, dovrebbe scegliere i propri settori vocazionali su cui indirizzare politiche nazionali, investimenti, ricerca. Un semplice esempio potrebbe chiarire il concetto: è evidente che l’Italia, nell’ambito europeo, potrebbe assolvere un ruolo trainante nel settore agroalimentare, nella ricezione turistica largamente intesa, nell’artigianato di qualità. E’ nella storia italiana, nella sua tradizione e specificità, assolvere a questa funzione. Allo stesso tempo, un paese come la Germania ha una forte tradizione nell’industria pesante, metallurgica e siderurgica. Non ha senso quindi che la Germania faccia concorrenza all’Italia nel produrre parmigiano o borsette, o che l’Italia la faccia alla Germania nella lavorazione di acciaio e alluminio. Considerando l’Europa nel suo insieme, e con i futuri allargamenti, alle istituzioni comunitarie non spetterebbe più il compito di regolare comportamenti e fattispecie come se queste fossero identiche dall’Atlantico fino al Baltico, passando per Mediterraneo e Scandinavia: compito delle istituzioni sarà piuttosto quello di regolare e rendere armoniche le produzioni e le singole economie, in modo da renderle una necessaria all’altra ma ognuna rispettosa delle proprie caratteristiche e specificità. Per fare questo si dovrà tenere conto delle vocazioni economiche dei popoli, dei distretti industriali, di taluni prodotti caratteristici e irrinunciabili. Una volta determinati questi settori, questi dovrebbero uscire dalla libera competizione, anzi, su di loro le autorità nazionali potrebbero tornare a fare politiche di sostegno attualmente vietate in Europa (come gli aiuti di stato), e tornare a forme di protezione che non sarebbero però di chiusura dei mercati e di contrapposizione, al contrario, visto che l’interdipendenza costringerà ogni area territoriale ad appoggiarsi alle altre per poter sopravvivere. L’integrazione sarebbe perfettamente raggiunta e ognuno vedrebbe salva la propria identità economica di popolo e nazione. Certo, il processo sarà necessariamente lungo e probabilmente non indolore, alcune nazioni dovranno rinunciare a vantaggio di altre a talune produzioni, ma ciò dovrebbe avvenire in tempi lunghi e in modo armonico, in modo tale che le produzioni dismesse possano via via riconvertirsi nei propri settori vocazionali. Allo stesso tempo il consumatore non si troverà più dieci modelli di automobili tra le quali scegliere, ma magari cinque, però il risultato finale sarà quello di una tendenziale autarchia d’insieme e di una stretta interdipendenza al suo interno: questo significherebbe una pace duratura e un equilibrio armonioso per l’Europa, la fine di politiche di sfruttamento e oppressione per le altre parti del mondo (almeno da parte nostra).

È possibile che lo scenario prospettato possa realizzarsi? Siamo i primi a ritenerlo irrealistico, auspicabile e funzionale, ma irrealistico. Le forze pronte a sabotare un progetto del genere sarebbero immani e determinate, le stesse forze che hanno agito in ogni momento della storia moderna perché una ipotesi del genere non raggiungesse mai le condizioni per realizzarsi. Questo non significa che non ci si debba comunque provare, del resto basterebbe crederci e la maggior parte del lavoro sarebbe già compiuto.
C’è oggi però un particolare che ci deprime e demoralizza, cioè che il recente Trattato europeo, già così inadeguato, ammesso che venga ratificato da tutti i venticinque paesi aderenti, cominci ad entrare in vigore solo dal 2009. Questo significa che per i prossimi quattro anni, i quattro anni della seconda amministrazione Bush, in cui si dispiegherà compiutamente l’ideologia imperiale neo-conservatrice, in cui assisteremo alla definitiva sistemazione degli assetti mediorientali, così decisivi dunque per le sorti del mondo, l’Europa continuerà ad avere una flebile voce, a parlare con balbettii, si troverà cioè in una terra di nessuno da cui forse non uscirà mai più.

3 novembre 2004

Print Friendly, PDF & Email