Israele potrebbe attaccare l’Iran, nonostante i disordini in Medio Oriente

Questo articolo, di uno dei più autorevoli redattori del giornale israeliano Haaretz, ci sembra molto importante da far conoscere al pubblico italiano in quanto rappresenta una chiara illustrazione dell’attuale posizione israeliana rispetto al problema iraniano che rimane al centro della visione strategica dello Stato ebraico.
La lucida analisi delle diverse posizioni nell’ambito della classe dirigente israeliana, dei rapporti con gli Usa e delle prospettive temporali, rappresentano una testimonianza assai rilevante, insieme alla esplicita rivendicazione di azioni clandestine come la diffusione del virus informatico Stuxnet e dell’uccisione degli scienziati iraniani.
Molto significativo il fatto che l’attuale situazione di agitazione in Medio Oriente sembri rappresentare un contesto per nulla in grado di modificare la percezione israeliana dei rischi e delle opportunità del momento.
Difficile immaginare le conseguenze, sicuramente gravissime, che un attacco militare diretto israeliano all’Iran potrebbe avere sul quadro già denso di gravi pericoli per la pace mondiale del Medio Oriente allargato.

(trad. it. e commento a cura di A.T.)

Le insurrezioni in Tunisia, Egitto e Libia hanno focalizzato l’attenzione di Israele sull’occidente ed hanno ridotto l’attenzione sulle gravi notizie che provengono da est: l’Iran è stato in grado di riparare il suo impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, il cui funzionamento era stato interrotto dal virus Stuxnet. Le 1000 centrifughe che erano state distrutte (circa un decimo di quelle presenti nell’impianto) sono state sostituite da altre nuove. Gli iraniani stanno mantenendo il loro livello di produzione e continuano ad accumulare uranio arricchito.
Le informazioni sul successo di Stuxnet, gli attacchi agli scienziati atomici nel cuore di Teheran, la valutazione del direttore del Mossad, Meir Dagan, secondo il quale l’Iran non potrà produrre una bomba nucleare prima del 2015, hanno creato l’impressione che alcune attività recenti, insieme alle sanzioni economiche contro Tehran, hanno avuto successo nell’arrestare la minaccia iraniana o almeno rinviarla di alcuni anni. L’idea che Israele possa imbarcarsi in una guerra e bombardare gli impianti atomici in Iran appare priva di senso.
Questa impressione è ingannevole e l’ottimismo è senza fondamento. Non abbiamo "vinto" ancora e l’opzione militare nei confronti di Tehran non è stata abbandonata. I suoi sostenitori spiegano che un Iran nucleare cambierebbe il volto del Medio Oriente per sempre. Dopo l’Iran arriverebbero la Turchia, l’Egitto e l’Arabia Saudita e le identità politiche dei regimi che governeranno questi paesi è meno importante della loro collocazione geopolitica: nessuno di loro accetterebbe la posizione dominante consentita all’Iran dal possesso della bomba atomica e aspirerebbero tutti ad acquisirla anch’essi. Qualora le bombe atomiche proliferassero, il pericolo che cadano in mano di terroristi aumenterebbe anch’essa.
Un attacco israeliano non cancellerebbe la conoscenza detenuta da scienziati e tecnici iraniani. L’esperienza insegna tuttavia che è difficile riattivare le installazioni atomiche una volta distrutte. Iraq e Siria, i cui reattori nucleari sono stati bombardati da Israele, avrebbero potuto essere ricostruiti, ma non lo sono stati, nonostante progetti e calcoli fossero a disposizione. Le strutture secondarie scoperte in Siria questa settimana sono state edificate nel periodo in cui il reattore veniva originariamente costruito. L’Iraq ha cercato un canale segreto per arricchire l’uranio, che però non giunse ad attivarsi in tempo prima dello scoppio della guerra del Golfo del 1991.
Secondo la stessa logica, un bombardamento dell’Iran che, secondo il parere degli esperti, ritarderebbe il programma nucleare di tre o quattro anni, potrebbe significare invece la sua fine, come nel caso appunto di Iraq e Siria. Le preoccupazioni di Israele in merito ad un attacco contro l’Iran riguardano meno le possibilità di successo di un raid a lungo raggio e molto di più quello che potrebbe accadere sul fronte interno: migliaia di missili lanciati da Hezbollah, Iran e forse anche dalla Siria, martellerebbero i centri economici e residenziali del paese, le basi aeree e l’aeroporto Ben Gurion. L’economia israeliana sarebbe paralizzata, ci sarebbero molti feriti e la guerra potrebbe durare anni.
I sostenitori dell’attacco non discutono questa valutazione. Ma sottolineano che in ogni caso Hezbollah è in grado di colpire Tel Aviv in qualsiasi momento, in risposta ad un incidente spontaneo lungo la frontiera nord di Israele o con qualsiasi altro pretesto: a quel punto Israele subirebbe dei danni per nulla, senza avere neanche distrutto Natanz.
La discussione su come Israele dovrebbe regolarsi con l’Iran ha spaccato la classe dirigente politica e militare israeliana. Il primo ministro Benjamin Netanyhau e il ministro della difesa Ehud Brak sono i più favorevoli all’azione. Sul versante opposto, troviamo il vice primo ministro Dan Meridor e i vice ministri Moshe Ya’alon e Silvan Shalom e, almeno in apparenza, il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, che vengono considerati moderati su questo argomento in quanto manifestano opinioni vicine a quella della coalizione che comprende Dagan, l’ex capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi e il capo dell’intelligence militare Amos Yadlin. I moderati preferiscono una combinazione di pressioni diplomatiche, sanzioni e attività clandestine, piuttosto che attaccare battaglia.
Quello che accomuna tutti i moderati, inclusi l’ex-capo di stato maggiore delle forze armate ed il Mossad, è che questi personaggi rivestono ruoli di consulenti. Ma la responsabilità di decidere sta ai politici e la storia li giudicherà se Israele non fa nulla e l’Iran diventerà una potenza nucleare. La decisione se entrare o meno in guerra sarà attuata da Netanyahu e da Barak, non dai loro colleghi nel consiglio ministeriale a sette o in quello dei capi dell’intelligence.
Dagan ha pubblicamente ammonito di non attaccare l’Iran e ha offerto una messe di argomenti a supporto della sua tesi. Tuttavia, quel che ha detto ha anche una possibile diversa lettura: con tutti i risultati che si è aggiudicato in otto anni al suo posto, Israele non è stato capace di fermare il programma nucleare di Tehran. I nostri servizi di sicurezza possono contribuire al raggiungimento di questo risultato, ma le operazioni clandestine non sono in grado di vincere una guerra e non posso sostituire un attacco militare. Al massimo, possono ritardarlo.
Un attacco capace di successo richiede una corretta combinazione di capacità, legittimazione internazionale e scelta dei tempi. Le capacità di Israele non sono conosciute. Inoltre, non vi sarebbe alcuna legittimazione formale di un’azione, ma il "mondo" non necessariamente metterà Israele al bando se bombarderà l’Iran. Con ogni probabilità, le condanne saranno inversamente proporzionali al successo dell’operazione.
L’amministrazione Usa, che si oppone all’attacco, è però attenta a non dire un "no" esplicito. In conversazioni con funzionari israeliani di alto livello, gli americani danno valutazioni della situazione e sostengono l’uso di sanzioni economiche, mentre i loro interlocutori parlano del loro diritto all’auto-difesa. Entrambi mantengono un’atmosfera di ambiguità. L’amministrazione americana non vuole venire a sapere nulla in anticipo delle intenzioni di Israele, e, per parte sua, Netanyahu non solleva interrogativi del tipo: "Abbiamo luce verde per agire?". I messaggi sono impliciti e possono essere smentiti in caso di complicazioni. E la tempistica? In inverno non si inizia una guerra, secondo copione, perché le nubi potrebbero creare problemi all’aviazione.
Ma la primavera arriverà fra poco e poi l’estate, con incombente all’orizzonte una competizione elettorale per la Knesset. Menachem Begin ha bombardato l’Iraq subito prima delle elezioni del 1981, quando i sondaggi di opinione lo davano per sconfitto e quando il suo rivale Shimon Peres si opponeva a quell’intervento (oggi, dalla poltrona di presidente, si oppone anche all’attacco contro l’Iran). Il reattore iracheno venne distrutto e Begin vinse le elezioni. Adesso, dato che il loro attivismo politico si attenua, Netanyahu e Barak potrebbero facilmente concludere che il leader dell’opposizione Tzipi Livni non deciderà di bombardare e che un attacco coronato dal successo aiuterebbe il Likud-Atzmaut a conservare il potere.
Nonostante tutto questo, oggi non ci sono segnali che Netanyahu, che fino ad oggi si è attenuto ad una politica "a rischio zero", avrà il coraggio di imbarcarsi in un’avventura del genere.

Haaretz, 25 febbraio 2011

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