Se Teheran chiude l’ombello: perchè l’Italia ha voluto l’Iran alla conferenza sull’Afghanistan

La Conferenza di Roma ha visto la partecipazione di un delegato iraniano, a conferma del ruolo svolto dalla Repubblica Islamica nei delicati equilibri dello scacchiere mediorientale. Il regime degli ayatollah muove parecchi fili, soprattutto dove la situazione interna è affetta da cronica instabilità come l’Afghanistan. E le sorti dei nostri militari a Kabul non sono immuni dalle trame orchestrate da Teheran.

Mentre continua la polemica "bombe si, bombe no" sugli aerei italiani d’istanza in Afghanistan, lunedì 18 ottobre ha preso il via a Roma la Conferenza degli inviati speciali per l’Afghanistan e il Pakistan (Srap). Tra i protagonisti del summit romano – appuntamento preparatorio del vertice Nato di Lisbona del 19-20 novembre – ci sono il ministro degli Esteri di Kabul, Zalmai Rassoul, il comandante di Isaf, Generale David Petraeus, l’inviato del presidente Obama, Richard Holbrooke, il rappresentante del segretario generale dell’Onu, Staffan De Mistura. A tenere gli onori di casa c’era il Ministro degli Esteri Frattini.
La vera novità rispetto ai precedenti incontri tenutisi sulla questione afghana è la presenza di un delegato iraniano, Mohammad Ali Qanezadeh, che durante la sua visita ha partecipato anche un briefing con il generale Petraeus sulla strategia di sicurezza della transizione alle forze afghane.
La scelta di invitare un esponente della Repubblica Islamica, peraltro caldeggiata proprio dal Ministro Frattini, è dettata dalla consapevolezza che il problema afghano debba essere affrontato non isolatamente, ma alla luce del contesto regionale. In altre parole, l’Occidente ha preso coscienza che senza Teheran non c’è possibilità di stabilizzare un territorio che solo con molta fantasia potrà considerarsi stabilizzato entro il luglio 2011 (quando inizierà il ritiro del contingente Nato), per dirla in un linguaggio (poco) diplomatico.
La riunione di Roma si apre proprio nel giorno in cui l’ex (e forse futuro) premier iracheno Al-Maliki e il presidente iraniano Ahmadi-Nejad, pochi giorni dalla visita di quest’ultimo in Libano. E proprio in Libano, secondo il Guardian, sarebbe avvenuto l’incontro decisivo tra Moqtada Al-Sadr, che nel 2007 aveva rotto l’alleanza con il partito Al Dawa di Al-Maliki. Dietro gli accordi per la coalizione che formerà il nuovo governo in Iraq, dunque, ci sarebbero gli iraniani. Il Guardian precisa che negoziati sono iniziati già da settembre a Qom, residenza di Sadr, e hanno coinvolto gli Hezbollah libanesi e le più alte autorità sciite, come l’ayatollah Kazem al-Haeri, l’ayatollah Ali Kamenei e il leader degli stessi Hezbollah, Hassan Nasrallah.
E sempre lunedì 18, a Herat, è avvenuto il passaggio di consegne tra la brigata Taurinense e la brigata Julia ,alla presenza del sottosegretario della difesa Guido Crosetto, dell’ambasciatore d’Italia A Kabul, Claudio Glaentzer, e del comandante dell’Isaf Joyce Commandant. La brigata agli ordini del generale Marcello Bellacicco guiderà il comando Nato nella regione dell’ovest per i prossimi sei mesi. L’avvicendamento avviene a pochi giorni dalla morte dei quattro alpini nel distretto del Gulistan, sciagura che ha portato a dieci il numero delle vittime italiane dall’inizio dell’anno e a trentaquattro quello complessivo.

Tornando all’incontro di Roma, la presenza di un inviato di Teheran non rappresenta l’esordio assoluto della diplomazia iraniana nella questione Afghanistan. Basti ricordare che, in seguito alla Conferenza internazionale di Bonn del 2001, la mediazione dell’allora presidente Mohammad Khatami fu decisiva nella scelta di Hamid Karzai come capo provvisorio del nuovo governo afghano. Khatami era stato tra i primi leader del mondo islamico a condannare l’attentato alle Torri Gemelle "in nome del popolo e del governo della Repubblica Islamica", dichiarandosi disposto a qualsiasi forma di collaborazione. Difficile dire se tali gesti furono dettati dalla volontà di riallacciare gradualmente i rapporti con Washington, o non riflettessero piuttosto il timore di essere attaccati di lì a breve. Certo è che il governo di Teheran ha sempre rimarcato la propria estraneità rispetto alla tragedia che aveva messo in ginocchio il suo nemico storico. D’altra parte, negli ambienti a stelle e strisce i sostenitori di un intervento armato in terra iranica non sono mai mancati. E la pur buona volontà mostrata da Khatami non è bastata a convincere la Casa Bianca ad escludere l’Iran dal cosiddetto "asse del male."

Ma quanto pesa davvero il ruolo di Teheran sulla situazione afghana, e di riflesso sulla missione italiana nel martoriato paese asiatico? Per dirla con Aristotele, partiamo da due premesse per dimostrare una conclusione. E le due premesse, in questo caso, sono l’influenza iraniana nel conflitto afghano e la presenza italiana nel comando Nato dell’ovest, proprio al confine con l’Iran.

La premessa maggiore.
Kabul condivide con Teheran una frontiera lunga oltre novecento chilometri, e molti afghani sono sciiti. In particolare lo sono gli Hazara, un’etnia che vive nella zona centrale del paese, a cui il regime iraniano ha offerto supporto materiale e finanziario negli anni del potere dei taliban. Quando questi ultimi erano al potere, molti dissidenti hanno trovato rifugio a Teheran. Oggi molti di quei dissidenti sono funzionari di spicco dell’amministrazione Karzai, e sono punti di riferimento a Kabul del regime degli ayatollah. Oppure dirigono compagnie legate ad enti che gestiscono importanti fette della debole economia afghana, specialmente nei settori dell’agricoltura e delle costruzioni. E la rete costituita da tali enti si distende su tutto il territorio afghano, a cominciare dalle grandi città. Secondo Dolat Nouruzi, responsabile degli Affari Esteri del CNRI, dietro tante di quelle compagnie, se non tutte, si celano in realtà i servizi segreti iraniani. Le conseguenze, se ciò fosse vero, sarebbero facilmente immaginabili. La Nouruzi, in particolare, prende ad esempio la compagnia edile Abadgaran, che ha sede proprio ad Herat.
In generale, non sono poche le istituzioni a Teheran che seguono da vicino gli affari interni del proprio martoriato vicino.
Nella capitale iraniana le questioni afghane sono seguite da Said Jalili, segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale e fedelissimo di Khamenei. Nel Ministero degli Esteri c’è addirittura una "divisione Afghanistan", con a capo Mohammed Ebrahim Taherian, in passato ambasciatore a Kabul. Nelle Forze Qods, gli affari afghani sono coordinati da Mousavi Tabrizi, generale nel corpo dei pasdaran.
La presenza iraniana in Afghanistan, dunque, si sta facendo sempre più significativa, sia attraverso i suddetti canali ufficiali che sotto mentite spoglie.
Tale propaganda è funzionale ad un duplice scopo. Oltre a ritagliarsi un posto al sole in Asia centrale, la Repubblica Islamica può giocare una partita a distanza col suo nemico storico, gli Stati Uniti. Una partita che Washington sembra ormai rassegnata a non poter vincere.
E la zona di Herat, dove è dispiegato il contingente italiano, è il corridoio privilegiato per il passaggio di uomini e armi verso le più calde province del sudest (Helmand e Kandahar, principale teatro dell’insorgenza) perché a sud i transiti sono ostacolati dalla minoranza Baluci, da sempre ostile al regime di Teheran.

Arriviamo alla premessa minore.
Il contingente italiano in Afghanistan è a capo del Regional Command West, il comando Nato responsabile per la regione occidentale dell’Afghanistan, composta da oltre 7000 militari di 11 nazioni, tra cui 3600 italiani (diventeranno 4000 entro l’anno, di cui oltre 600 addestratori), metà dei quali del corpo degli alpini. L’area sottoposta al comando Nato dell’ovest abbraccia quattro province e ha un’estensione pari all’Italia del nord
A margine del passaggio di consegne tra la brigata Taurinense e la Julia, è stato reso noto che negli ultimi sei mesi i militari italiani hanno subito oltre 200 attacchi. Mai prima d’ora i nostri militari erano stati bersaglio di un così elevato numero di aggressioni. Ufficialmente, gli episodi di minaccia nemica sono classificati come "eventi", termine che ricomprende attacchi con ordigni esplosivi, veri e propri scontri a fuoco ma anche semplici dimostrazioni di forza. Nel dettaglio, per quanto riguarda i congegni esplosivi improvvisati (Ied), che mietono vittime in tutto l’Afghanistan, negli ultimi sei mesi nostri i militari hanno disinnescato 61 ordigni; mentre sono stati cinque, invece, gli attacchi subiti con gli Ied (in due casi con morti). In più di venti occasioni hanno fatto ricorso all’uso dei mortai per respingere gli assalti dei taliban, in particolare nella turbolenta area di Bala Murghab, situata a nord di Herat.
Completano questa triste la contabilità gli episodi denominati come "troops in contact", ovvero gli scontri a fuoco, come quello che il 17 settembre e’ costato la vita al capitano Alessandro Romani.
Ma torniamo indietro di alcuni mesi.
Lo scorso 2 febbraio il premier Silvio Berlusconi, in visita in Israele, ha sferrato un attacco verbale all’Iran senza precedenti. In un discorso tenuto al parlamento israeliano non si è limitato a ribadire la necessità di porre sotto controllo il nucleare iraniano (parole che a Teheran non fanno né caldo né freddo), ma ha rimarcato a necessità di sostenere l’opposizione popolare in Iran.
Forse il Cavaliere sarebbe stato più avveduto se avesse tenuto in mente alcune considerazioni.
L’offensiva verbale di Berlusconi ha generato stupore nell’opinione pubblica internazionale.
Dagli eventi successivi alla rielezione di Ahmadi-Nejad, nessun leader occidentale si era mai spinto al punto di sostenere apertamente l’azione dell’Onda verde in Iran. Le ragioni di convenienza prevalgono sempre su quelle umanitarie. È ciò è tanto più vero quanto più un paese è legato ad un altro da sostanziosi vincoli economici e commerciali. Anche il Presidente Obama ha evitato di prendere posizione nel merito sui fatti del 12 giugno, limitandosi a lanciare un appello affinché la situazione tornasse nella normalità; una sensibilità che l’amministrazione precedente, forse, non avrebbe avuto.
Peraltro, non era la prima volta che una dichiarazione (ufficiale, e non rubata con videofonini o altro) di Berlusconi urtava la suscettibilità delle istituzioni iraniane. In un discorso pronunciato a Montecitorio il 12 settembre del 2001, parlando delle leadership "non democratiche" in Medio Oriente, il premier fece un fugace riferimento a quella iraniana. L’allora ministro degli Esteri della Repubblica Islamica Kamal Kharrazi convocò immediatamente l’ambasciatore italiano a Teheran, Riccardo Sessa, chiedendo spiegazioni. La vicenda venne rapidamente chiusa, ma si sfiorò comunque l’incidente diplomatico. E a distanza di nove anni c’è da credere che non tutti, nelle gerarchie iraniane e nei mezzi d’informazione da loro controllati, abbiano dimenticato l’accaduto.
Il rapporto annuale redatto dall’istituto per il Commercio con l’estero afferma che in Europa l’Italia è il secondo partner commerciale dell’Iran dopo la Germania, con un interscambio che tra import ed export sfiora miliardi di euro.
Più di una volta, in maniera informale, Washington ci ha fatto capire che sarebbe meglio ridurre la nostra esposizione commerciale con l’Iran. Specialmente ogni volta che si torna a discutere sulla effettiva persuasività delle sanzioni approvate con la risoluzione ONU. I prossimi mesi saranno decisivi in tal senso. E nel caso le misure prese dal Palazzo di vetro dovessero rivelarsi inefficaci, tornerà ad alzare la voce quel partito dell’attacco preventivo come unica alternativa alla bomba iraniana. Partito che la Casa Bianca sta cercando di calmierare, ma che nelle gerarchie di Israele, per il quale la prospettiva di un Iran nucleare è una minaccia esistenziale, ha già preso piede da tempo. Al centro di questa contesa tra i due paesi (forse ex-) alleati storici, che ruolo potrà avere il Bel paese? Praticamente nessuno.
Nel palcoscenico internazionale, in particolare in sede Nato e nei nostri rapporti con Washington, saremo valutati per ciò che in concreto sapremo e vorremo fare riguardo la questione afghana, non per le belle parole. E tale argomento si intreccia inevitabilmente con quello iraniano. L’imponente volume commerciale con il paese degli ayatollah è un fattore che limiterà fortemente un’eventuale azione del governo italiano, in qualunque direzione essa sia rivolta. L’efficacia di ogni iniziativa sarà inversamente proporzionale alla nostra disponibilità a sacrificare i corposi interessi che ci legano al paese dei tappeti.
Nei giorni delle infuocate parole di Berlusconi, Obama ha provveduto a rafforzare la presenza navale americana nel Golfo Persico, quasi a voler fare le prove generali di quell’accerchiamento che l’Iran sente stringersi da tempo, ma che solo ora si sta rivelando una concreta possibilità. E in tutto ciò l’opinione del nostro premier avrà ben poco peso.

Arriviamo alla conclusione.
Non è difficile notare la coincidenza tra l’anniversario della Rivoluzione e l’acuirsi delle tensione con i paesi occidentali. Alla vigilia delle celebrazioni il regime ha più che mai bisogno di allargare lo spazio nemico per includervi un nuovo bersaglio. Questo per fare nuovamente appello allo spirito nazionalistico delle masse e rafforzare la traballante leadership delle gerarchie teocratiche. In un clima così teso il regime ha bisogno di canalizzare le tensioni interne all’esterno, arrivando ad esasperare i conflitti (tali o presunti) con i i paesi al ponente del mondo. Israele e Stati Uniti non bastano più, c’è bisogno di un nuovo nemico.
Nel contesto così ricostruito, le parole di Berlusconi pronunciate in febbraio sono state un autentico assist a porta vuota. Allora, la replica di Khamenei non si era fatta attendere: la Guida Suprema ha bollato subito il premier come "servo degli israeliani", facendo salire la tensione nei confronti del nostro paese. Risultato? Pochi giorni dopo un gruppo di persone (rectius: basiji, il corpo paramilitare del regime) ha assaltato l’ambasciata italiana a Teheran. È stato un fuoco di paglia, ma per le esigenze tattiche di un regime ormai lacerato al suo interno andava bene così.
Le vere conseguenze della presa di posizione di Berlusconi si sarebbero viste a distanza di tempo e i 200 attacchi subiti in appena sei mesi dai nostri soldati sono un indizio non trascurabile.
Alla luce di quanto esposto, la circostanza che il delegato iraniano alla conferenza di Roma sia stata fortemente voluta proprio dal nostro Ministro degli Esteri ci appare sotto una diversa chiave di lettura: un gesto non soltanto di apertura e di buona volontà verso Teheran, ma dettato innanzitutto dalla cautela.
La provincia Herat è praticamente sotto il controllo iraniano. Non è azzardato sostenere che i nostri uomini sono (erano?) di fatto sotto l’ombrello protettivo di Teheran, che probabilmente li ripara da azioni ostili molto più di quanto non facciano i mezzi che il Ministro La Russa invia loro. Se il vento ha davvero cambiato direzione, c’è da credere che le rappresaglie nei confronti dei nostri uomini si inaspriranno. E a poco serviranno le bombe con cui il governo vorrebbe (o non vorrebbe?) equipaggiare i nostri aerei.
Già in passato abbiamo avuto prova di quanto la zona in cui operiamo sia tutt’altro che stabilizzata. A Valsoali, nella provincia di Herat, nell’autunno 2008 era stata completata la ricostruzione una scuola col contributo materiale ed economico del contingente italiano. Il 13 ottobre, pochi giorni dopo la sua inaugurazione, un attentato l’ha interamente distrutta. Difficile pensare che a Teheran non ne sapessero nulla.

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