Due mondi si sfidano sul nucleare iraniano

L’improvvisa accelerazione, e conseguente polarizzazione, sulla questione del dossier nucleare iraniano dell’ultimo mese ha aperto nuove prospettive diplomatiche e visto l’ingresso di nuovi protagonisti. Lunedì 17 maggio è arrivata a sorpresa la notizia di un accordo trilaterale tra Iran Turchia e Brasile che scavalca il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ottiene i risultati invece falliti dalle potenze occidentali.
Teheran ha accettato di trasferire all’estero (in Turchia) gran parte della propria riserva di uranio bassamente arricchito, in cambio di 120 kg (il 10% di quanto inviato) di combustibile nucleare mediamente arricchito utile a fini medico/civili ma ben lontano dal livello di arricchimento necessario per una bomba atomica (una differenza di arricchimento che va dal 20% al 90%).
Secondo l’accordo, firmato dai ministri degli Esteri dei tre paesi alla presenza dei rispettivi leaders, Mahmoud Ahmadinejad, Lula da Silva, Recep Erdogan, lo scambio avverrebbe su territorio iraniano. Nel termine di un mese gli iraniani sono pronti a consegnare il proprio uranio ai turchi per ricevere la contropartita nel termine di un anno, ma, in caso di problemi, la Turchia si impegna formalmente a restituire l’uranio bassamente arricchito ricevuto. Contestualmente il portavoce governativo di Teheran fa sapere che l’Iran intende continuare autonomamente l’arricchimento dell’uranio rimanente in suo possesso fino alla soglia del 20%.
Su questa base Iran e Turchia hanno sostenuto ormai cessata la necessità di approntare ulteriori sanzioni contro Teheran e Ahmadinejad ha dichiarato che "a seguito della firma dell’intesa sullo scambio di combustibile nucleare, è tempo che le nazioni del 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gb e la Germania) aprano colloqui con l’Iran basati sull’onestà, la giustizia e il rispetto reciproco".
La risposta occidentale è stata dapprima interlocutoria. Mentre la notizia era pressoché oscurata nel mainstream mediatico, il ministro degli Esteri della Ue Catherine Ashton giudicava l’accordo "nella giusta direzione" ma insufficiente in quanto "non risponde a tutte le inquietudini", mentre dalla Casa Bianca il portavoce Robert Gibbs faceva notare come l’Iran continuasse a "mostrarsi vago" circa le sue intenzioni pacifiche, e da Tel Aviv arrivava una secca nota governativa per cui, molto semplicemente, Ankara e Brasilia si erano fatti "raggirare" da Teheran.
Nei giorni successivi il quadro diplomatico si semplificava drasticamente. Fonti dell’Amministrazione americana facevano sapere di considerare l’accordo trilaterale come indirizzato esclusivamente a "guadagnare tempo" e soprattutto, il giorno successivo all’intesa di Teheran, ovvero il 18 maggio, il segretario di Stato Hillary Clinton annunciava raggiunto l’accordo di massima con Russia e Cina sulla bozza da presentare verso la metà di giugno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per l’approvazione di un nuovo pacchetto di sanzioni contro l’Iran. "Abbiamo lavorato strettamente con i partner del gruppo 5+1 e sono felice di dichiarare che oggi abbiamo un accordo su un progetto forte con la cooperazione di Russia e Cina. Una risoluzione forte sulle sanzioni che è anche un chiaro messaggio all’Iran, senza equivoci, su ciò che gli aspetta. Il progetto costituisce la risposta più convincente che potessimo fornire ai tentativi iraniani di questi ultimi giorni" ha proclamato fieramente la Clinton, e successivamente ha rimarcato come l’accordo trilaterale rappresentasse "un tentativo di fermare l’azione del Consiglio di Sicurezza senza arrivare a prendere misure per arginare le preoccupazioni internazionali sul programma nucleare iraniano".
La risoluzione prevede un aggravio dell’embargo sugli armamenti verso il paese degli ayatollah e una "vigilanza globale" sulle attività dei Pasdaran, considerati spina dorsale del regime, con particolare attenzione per le transazioni finanziarie ed assicurative e la messa al bando delle licenze all’estero degli istituti bancari iraniani sospettati di aver legami col programma di proliferazione nucleare. Al contempo si prevede la possibilità di severi controlli ed ispezioni per i mercantili iraniani sia in mare aperto che nei porti, elemento di straordinaria pericolosità potendo facilmente sfociare in incidenti e provocazioni.
Con la bozza di accordo gli americani bruciavano nel giro di ventiquattro ore quello che poteva essere considerato un accordo storico per la diplomazia internazionale, in cui per la prima volta tre paesi facenti parte del sud del mondo emergente giocavano in maniera indipendente una partita che riguardava gli equilibri dell’intero pianeta. Era questa, evidentemente, la risposta della superpotenza globale che si era sentita scavalcata da paesi amici o addirittura alleati (la Turchia è un membro effettivo della Nato). Tuttavia alcune circostanze risultavano per nulla chiare.
Il presidente del Parlamento iraniano, Ali Larijani, in un discorso davanti l’assemblea, si mostrava sorpreso per la tempistica dell’annuncio della signora Clinton, chiaramente diretto ad affossare l’accordo con Turchia e Brasile. "La Turchia, prima di intraprendere l’intermediazione, si era consultata con la Casa Bianca" ha sostenuto l’esponente iraniano. E successivamente il premier turco Erdogan confermava: "Avevo chiesto agli Stati Uniti se fossero d’accordo con la nostra intermediazione e avevo chiesto garanzie di sostengo nel caso di accettazione" (1). Dunque, a che gioco stava giocando la diplomazia statunitense?
L’interpretazione più plausibile è che gli americani abbiano dato semaforo verde alla mediazione ben sapendo che sarebbe rimasta lettera morta. Anzi, volendo ribadire in tal modo che senza il consensus washingtoniano (e l’approvazione di Tel Aviv) nulla si può muovere in Medio Oriente. Ma il gioco potrebbe essere stato ancora più sottile.
Brasile e Turchia hanno vivacemente risposto all’azione americana. Il premier Erdogan si è speso in prima persona per far sopravvivere l’accordo con Teheran: "Faccio appello alla comunità internazionale affinché sostenga la dichiarazione finale in nome della pace mondiale. Abbiamo dimostrato che, con la diplomazia, l’Iran può sedersi attorno a un tavolo e negoziare […] dobbiamo smetterla di parlare di sanzioni". Entrambi i paesi sono attualmente membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’organo che dovrà ratificare il nuovo pacchetto punitivo contro l’Iran, ed immediatamente hanno dichiarato la loro indisponibilità per un voto in tal senso. Il ministro degli Esteri russo Lavrov, in quei giorni in visita a Roma, si era mostrato preoccupato poiché la Russia appare pronta ad appoggiare la bozza americana in seno al Consiglio solo se si raggiungesse "il consenso di tutti".
Il quadro appare dunque rimescolato e le stesse sanzioni non avranno vita facile all’Onu, il rischio evidente è che possano nascere zoppe ed essere destinate al fallimento. E se pubblicamente le potenze occidentali mostrano di agire con veemenza per colpire l’Iran con azioni dure ma diplomatiche ed economiche, quindi non militari, sotterraneamente sembra si faccia di tutto per piegare il corso degli avvenimenti verso una china molto più pericolosa.

Tuttavia, da tale contesto, sta nascendo una polarizzazione che appare come una eclatante novità nel mondo globalizzato e nella regione mediorentale nella fattispecie. Sempre più i paesi emergenti del sud si pongono quali protagonisti sulla ribalta internazionale e tendono a costituire un asse pronto a sfidare le superpotenze.
In una recente intervista a La Repubblica, che consigliamo di leggere integralmente (2), il presidente siriano Bashar al Assad ha ben illustrato questi scenari regionali: "Non possiamo più aspettare. L’ America di Obama aveva suscitato speranze riguardo a una nuova politica mediorientale. Però, adesso è scoccata una nuova ora. Un’intesa fra le potenze del Medio Oriente sta ridisegnando l’assetto della regione. Questa non è una inversione di rotta: noi vogliamo buoni rapporti con Washington. È, piuttosto, la presa di coscienza di una realtà: del fallimento di America ed Europa nel risolvere i problemi del mondo, nella nostra regione […] La Siria, l’Iran, la Turchia. Ma anche la Russia. Sono tutti Paesi che stanno collegandosi l’un l’altro, anche fisicamente, attraverso gasdotti e oleodotti, ferrovie, reti stradali, sistemi per la conduzione dell’energia elettrica. Un unico, grande perimetro unisce cinque mari: il Mediterraneo, il Mar Caspio, il Mar Nero, il Golfo Arabo e il Mar Rosso. Stiamo parlando del centro del mondo. Da Sud a Nord, da Est a Ovest, chiunque si muova, deve percorrere questa regione […] Tra di noi, Paesi confinanti, debbono esserci buoni rapporti. Ce lo insegna il passato: a cosa sono serviti, infatti, 80 anni di conflitti con la Turchia? A niente. E invece, guardate i risultati: senza l’intesa fra Siria, Iran e Turchia, quale sarebbe oggi la situazione in Iraq, e più in generale nella regione? Molto peggiore, ve lo assicuro".
Lo stesso Ahmadinejad, nel suo discorso all’Onu del 3 maggio scorso per la Conferenza di revisione sul Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP), cui l’Iran aderisce, ha voluto porre il suo paese come una cerniera determinante per questo nuovo asse mondiale, attaccando da un lato l’occidente e blandendo il nuovo mondo che avanza (3): "Il possesso di bombe nucleari non è motivo di orgoglio; è piuttosto qualcosa di disgustoso e di vergognoso. E ancora più vergognoso è minacciare l’uso di tali armi o utilizzarle effettivamente; qualcosa di neppure paragonabile all’intera mole dei reati commessi dall’umanità in tutta la sua storia. Coloro che hanno condotto a termine il primo bombardamento atomico [gli Stati Uniti] andrebbero messi tra i più odiati della storia […] Il regime sionista [Israele] ha stoccato centinaia di ogive nucleari, ha condotto numerose guerre nella regione e continua a minacciarne altre beneficiando del consenso incondizionato degli Stati Uniti e dei suoi alleati […] E’ appropriato concedere una straordinaria autorità presso la AIEA a paesi che sono dotati di armi nucleari, ed affidare loro il critico compito del disarmo nucleare? Sarebbe ingenuo e irrazionale attendersi da loro una efficace iniziativa volontaria verso il disarmo e la non proliferazione per il semplice motivo che questi paesi [ovvero Stati Uniti e Israele] considerano le armi nucleari come un elemento di superiorità. Esiste un proverbio iraniano che afferma: Un coltello non taglia mai il proprio manico".
Quindi Ahmadinejad si è rivolto a quelli che lui chiama "paesi indipendenti": "Tutti i popoli amano la pace, la fratellanza, e il monoteismo e soffrono a causa della discriminazione e dell’ingiustizia. Molti dei miei colleghi capi di Stato, e molti dignitari e commentatori che si trovano nello stesso ordine di idee e che sono cercatori di giustizia, nei loro colloqui con me hanno condiviso il punto di vista secondo il quale vi è urgente bisogno di un disarmo globale e dell’espansione di un impiego pacifico di energia nucleare pulita, rompendo il monopolio imposto in questi campi, secondo quanto affermato nelle proposte da noi avanzate. Questa è la richiesta più sentita da tutti gli stati indipendenti e da tutte le nazioni: "Energia nucleare per tutti, armi nucleari per nessuno". Di conseguenza, la mia presenza e l’essenza del mio intervento qui, in questa importante conferenza, è solo una presentazione della loro presenza e delle loro richieste".
Ed è probabilmente in questo contesto politico regionale che vanno inseriti i tragici fatti di fine maggio con l’assalto delle forze speciali israeliane al convoglio umanitario Freedom Flottilla che cercava di superare l’embargo decretato su Gaza e che ha coinvolto due protagonisti mediorentali, Turchia ed Israele, che, se finora alleati, ora sembrano delinearsi come parte integrante di opposti schieramenti.
Come è stato acutamente rilevato: "Nell’attacco alla motonave Mavi Marmara sono stati bene inseriti tutti gli elementi necessari ad ammonire seriamente la Turchia, in primo luogo il governo Erdogan e gli assai influenti ambienti militari, ma la stessa Nato, sulle molteplici implicazioni di una politica turca non più allineata con Israele. Se questa, come crediamo, è la ragione vera dell’altrimenti inspiegabile, sanguinoso, attacco israeliano, sorge per noi europei una domanda assai più inquietante: perché Israele ha l’esigenza di censire ora e tanto duramente potenziali alleati o eventuali possibili avversari? Come abbiamo più volte ripetuto, riteniamo che Israele abbia deciso di chiudere i conti con l’Iran, ritenendo che la finestra di opportunità che si è aperta a partire dal 2001-2003 non possa durare all’infinito e che sia questo il migliore momento possibile per consolidare in modo definitivo la propria posizione nel Medio Oriente, affermando la propria egemonia completa nell’area ed eliminando l’ultimo avversario in campo, l’Iran. Per questo è decisivo per lo Stato ebraico comprendere se la Turchia abbia o meno l’intenzione di sostenere il suo prioritario nemico, perché si avvicina ogni giorno di più il confronto decisivo per l’assetto futuro di tutto il Medio Oriente" (4).

 

(1) Il discorso di Larijani su: http://www.fararu.com/vdcirra5.t1avp2bcct.html
L’intervento di Erdogan su: http://www.tabnak.ir/fa/pages/?cid=99708
La traduzione dei virgolettati è a cura di Reza Zardoshtian.

(2) http://www.repubblica.it/esteri/2010/05/24/news/assad_24_maggio-4290367/

(3) Il discorso integrale è reperibile su:
http://italian.irib.ir/analisi/articoli/item/75930-discorso-di-ahmadinejad-a-new-york-3-maggio-2010?tmpl=component&print=1

(4) Turchia nel mirino di Israele: colpire uno per educarne cento, Alfatau, Clarissa.it
http://www.clarissa.it/ultimora_nuovo_int.php?id=125

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