Iran senza pace

Il ripetersi, alla fine del dicembre, di gravi tumulti in Iran, sia in occasione dei funerali dell’ayatollah Montazeri che per le celebrazioni della festa della Ashura, fanno pensare che il movimento di protesta, scatenatosi dopo le elezioni di giugno 2009, sia tutt’altro che riassorbito.
Si è riscontrata, anzi, una recrudescenza degli slogan di coloro che sono contrari all’attuale regime: se a giugno, infatti, si contestava l’esito delle elezioni, invocando "brogli" e chiedendo la ripetizione del voto, a dicembre la folla dei dimostranti ha gridato slogan ostili direttamente contro la figura di Ali Khamenei (la guida suprema), sia come persona che come istituzione, mettendo così in discussione l’ossatura stessa dello Stato iraniano.
Anche la pratica della manifestazione è cambiata: dai pacifici e (quasi) ordinati cortei di giugno si è passati, a dicembre, alla guerriglia urbana con decine e decine di moto della milizia basij date alle fiamme e tentativi di incendio di palazzi pubblici. Non a caso il regime (contrariamente a quanto fatto a giugno) ha dato il più ampio risalto televisivo alle devastazioni compiute dai dimostranti, sia facendo vedere gli scheletri delle motociclette bruciate che i palazzi con le finestre annerite dal fumo; si può comunque dire che lo stesso regime non ha perso in questa occasione il suo sangue freddo (come forse speravano gli oppositori), tant’è che i 15 morti dichiarati possono considerarsi "fisiologici", considerato il contesto politico iraniano e la violenza devastatrice dei dimostranti. Si è comunque avuta l’impressione che le opposizioni, chiunque ci fosse dietro, volessero dare la spallata finale sia al governo che al regime; alcuni siti internet di fuoriusciti iraniani in Olanda e negli USA hanno infatti pubblicata la bufala, subito gonfiata a dismisura dai nostri telegiornali, di un aereo pronto sulla pista di Teheran per portare in esilio, a Mosca, Ahmadinejad e Khamenei; una riproposizione non involontaria, insomma, della scenografia che aveva portato alla defenestrazione prima e all’omicidio poi di Ceausescu in Romania esattamente 20 anni prima. Tutto sembra ora tornato nella normalità ed il regime ha risposto nell’unico modo democratico che poteva tappare la bocca all’opposizione: mobitlitando, cioè, milioni di persone che hanno sfilato per le strade innegiando a Khamenei e ad Ahmadinejad; ma il fuoco cova sotto la cenere, il regime non pare per ora intenzionato (per fortuna) ad usare il pugno di ferro e quindi gravi disordini potrebbero ancora verificarsi.

A questo punto viene spontaneo farsi alcune domande:
Vi furono realmente brogli tali, a giugno 2009, da invalidare il risultato del voto?
Era stata già ordita una trama, prima delle elezioni, da parte di USA, Gran Bretagna e Israele per invalidarle e provocare un "regime changing"?
Come vogliono modificare politicamente il Paese, al di là degli slogan di "libertà e democrazia", gli oppositori e i loro eventuali mandanti?

Alla prima domanda si può rispondere che, se brogli vi furono, essi non modificarono significativamente il risultato a favore di Ahmadinejad.
Cominciamo con il ricordare che fino alla fine del 2008 il candidato naturale dell’opposizione "riformatrice" era Mahamud Khatami, già Presidente per 2 mandati dal 1997 al 2005. Improvvisamente, nei primi mesi del 2009, egli ritirò la propria prestigiosa candidatura a favore di un personaggio decisamente meno carismatico, che aveva ricoperto in anni lontani la carica di primo ministro; tale personaggio era Hossein Mousavi. Perché lo fece? La risposta più evidente è che riteneva la partita delle elezioni già chiusa in favore della rielezione di Ahmadinejad e non voleva perdere la faccia con una sconfitta.
Durante i mesi precedenti alle elezioni di giugno moltissimi furono i sondaggi demoscopici e quelli più indipendenti (cioè quelli non al servizio dei contendenti) davano tutti Mousavi (la cui campagna elettorale era, nel frattempo, finanziata dal suo padrino politico Hashemi Rafsanjani) largamente perdente su Ahmadinejad.
Il sondaggio di gran lunga più affidabile, per metodolgia e numero di intervistati, fu quello sponsorizzato dal "Tft centre for public opinion" di Washington (legato alla fondazione Rockefeller) che nel maggio 2009 realizzò 2 sondaggi in Iran con il plauso dell’ONU e (sic!) del Dipartimento di Stato. Ambedue gli esperimenti furono eseguiti adattando i pesi in base a variabili come età, sesso, reddito, occupazione, etnia (azera, balouch, curda, araba, persiana).
Ebbene, le percentuali ottenute, con un margine d’errore stimato del 3.1%, accreditavano Ahmadinejad di oltre il doppio delle intenzioni di voto rispetto a Mousavi, lasciando le briciole agli altri sfidanti, Karroubi e Rezai. Esattamente come si verificò, poi, nelle elezioni!

Alla seconda domanda non è facile dare una risposta definitiva. Il regime iraniano ha, nei mesi passati, varie volte additato come mandanti dei disordini "Potenze arroganti", riferendosi ovviamente agli USA, alla Gran Bretagna e ad Israele, ma, proprio per le ragioni dette prima, Barack Obama, nei primi mesi del 2009, si mosse con estrema prudenza, essendo quasi certo della rielezione di Ahmadinejad. Tutti ricordano il messaggio di "mano tesa al popolo iraniano" che lo stesso Obama pronunciò in marzo, guardandosi bene da emettere "endorsement" a favore dei rivali di Ahmadinejad, ben sapendo che tale comportamento, data la grave inimicizia nutrita dalla maggioranza dell’opinione pubblica iraniana verso gli Stati Uniti, avrebbe rappresentato "il bacio della morte" per i candidati di opposizione.
Oggi si può affermare, con buona approssimazione, che i moti antigovernativi, ancorché non organizzati a tavolino all’estero, furono comunque una manna caduta inaspettatamente dal cielo per la diplomazia statunitense, sempre pronta a favorire un "regime changing" in Iran; tant’è che, dopo un prima prudente fase d’attesa, i commenti pro opposizione da parte dei massimi dirigenti USA si sono fatti sempre più espliciti, sino a dare per certo (ovviamente sapendo di mentire) che le elezioni di giugno erano state"elezioni farsa" e che Mousavi era il vero vincitore del confronto. Attualmente la propaganda mediatica occidentale (perché di pura propaganda si tratta, priva com’è di qualsiasi analisi) ci propone un Mousavi "buono", pronto a morire per difendere i diritti democratici di tutti gli iraniani, contro le "canaglie" Ahmadinejad e Khamenei, che opprimono il popolo ed hanno "rubato" le elezioni di giugno. E’ un deja vu, quello di costruire il bozzolo di "canaglie" attorno ai loro avversari, molto usato dagli statunitensi (si pensi soltanto al caso di Milosevic, che sino alla fine del 1997 era "garante", assieme a Clinton, dei patti di Dayton per la Jugoslavia) e serve a togliere ossigeno diplomatico a chi si vuole annientare.

Alla terza domanda, poi, sembra impossibile rispondere con un minimo di verosimiglianza.
Cominciamo col dire che Mousavi (con il suo padrino politico Rafsanjani, che manovra nell’ombra) e Karroubi sono, al pari di Ahmadinejad e Khamenei, arnesi dello stesso sistema, mentre le proteste sembrano essere alimentate da una popolazione giovanile, ancorché minoritaria, istruita, che usa facebook piuttosto che twitter, che usa i videfonini e chiede, non senza ragione, una maggiore laicità ed apertura nei rigidi costumi, attualmente retti in Iran dalla legge islamica.
E’ quindi altamente improbabile che le visioni politiche dei leaders sconfitti alle elezioni e quella della piazza siano del tutto coincidenti; al massimo si può parlare di un reciproco "puntellamento": i leaders sconfitti usano la piazza per regolare i loro conti all’interno del regime, mentre la piazza li usa come grimaldello per scardinare i la Costituzione ed introdurre un nuovo modo di conscepire lo Stato. E’ anzi molto probabile che, ove Mousavi e Karroubi riuscissero a disarcionare Ahmadinejad, il giorno dopo si ritroverebbero contro la stessa piazza che ora finge di portarli sugli scudi.
Rimane poi la incompletezza delle dichiarazioni dei leaders sconfitti: a prescindere dagli slogan tipo "più democrazia e libertà", cosa ne pensano del ruolo internazionale dell’Iran? Come pensano di risolvere la questione della ricerca nucleare? Cosa pensano in merito alle azioni da compiere in favore di chi si oppone con i fatti, e non con le chiacchiere, alla intollerabile occupazione ultraquarantennale della Palestina da parte di Israele? Cosa pensano in merito all’istituzione (come caldeggiato da tempo da parte iraniana) di una unità monetaria di conto che sostituisca l’onnipotenza del dollaro negli scambi commerciali con Paesi non pregiudizialmente ostili?
Insomma, vogliono un Iran grande e stimato, potenza regionale indipendente dalla nefasta influenza americana, o vogliono tornare, mutatis mutandis, ai tempi dello Scià?
Tutto ciò non è dato di sapere. Mousavi, Karroubi e il convitato di pietra, senza il quale peraltro non si decide nulla, cioè Hashemi Rafsanjani tengono le bocche ben cucite. Ecco perché, anche per i più fini analisti, è quasi impossibile dire dove questa opposizione voglia portare l’Iran.

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