Ostaggi degli opposti estremismi

Inquietanti segnali si stanno accumulando e rincorrendo. Le scorse settimane il barbaro pestaggio e omicidio di Verona; più recenti i raid contro esercizi commerciali di stranieri nel quartiere romano di Pigneto; da ultimo lo scontro/aggressione davanti l’università La Sapienza, sempre a Roma. Anche se tutti in qualche modo controversi e diversi tra loro per gravità, modalità, conseguenze, cause, questi fatti sembrano accomunati da un sottile filo rosso: torna pericolosamente la violenza politica in Italia.
Una violenza ancora relegata a piccole frange, e tuttavia sintomo di un clima culturale che si diffonde. E’ interessante notare come tali accadimenti siano assurti agli onori delle cronache, aperto le prime pagine di quotidiani, avuto trasmissioni televisive dedicate. È il sistema mediatico che compone l’agenda di discussione presso l’opinione pubblica, è la comunicazione che detta i tempi. Purtroppo non in modo neutrale. Fatti ricorrenti e spiacevoli sono sempre avvenuti (e non ci riferiamo ovviamente alla tragica morte di Verona, che merita un discorso a parte): intimidazioni di tipo politico (frequentemente nelle cronache locali vengono riportati atti di vandalismo contro questa o quella sede di partito) piuttosto che scontri o risse tra facinorosi esponenti di opposte fazioni, con il risultato, solitamente, di qualche escoriazione o punto di sutura, oppure aggressioni punitive verso barboni o extra-comunitari. Questi eventi (sociologicamente meritevoli di grande interesse) comunemente rimangono annegati nel mare dei fatti più o meno marginali. Magari un trafiletto in cronaca, magari una qualche risonanza su testate locali.
Se, dunque, questa concentrazione di interesse avviene in questo momento, ciò significa che il clima sta cambiando, o meglio si vuole che cambi, perché a noi pare evidente come il sistema della comunicazione non si limiti più a tastare il polso di una situazione ma concorra nel crearla.

L’attuale situazione sociale e politica italiana è estremamente interessante. C’è una forte disillusione verso le istituzioni; la razionalità delle scelte politiche è stata sostituita dalla logica degli interessi personali o di lobby o di poteri non democratici; i furbi la fanno franca, costantemente, mentre la gente comune è abbandonata alla fatica del vivere quotidiano: fatica economica, della paura del futuro.
In una situazione come questa solitamente nell’uomo medio si possono avere due diverse tentazioni, quasi opposte ma che in realtà albergano spesso e contemporaneamente dentro la stessa persona. Accodarsi al "potente" di turno, ad una casta, ad un interesse particolare, nella speranza che qualche briciola cada nel piatto. Oppure ribaltare il tavolo, cambiare il sistema, rompere il giocattolo. 
Le ultime elezioni hanno detto che questo sistema politico è all’ultima possibilità. Anche molti di coloro che potrebbero essere annoverati nell’anti-politica hanno finito per votare i grandi schieramenti di centro (centro-sinistra o centro-destra) ovvero lo status quo del potere, ma si è trattato di un voto condizionato come dimostrano le affermazioni di Lega e Italia dei Valori. Altro dato interessante è che i pensieri antagonisti, i critici del "pensiero unico", sono rimasti fuori dal Parlamento.
Ecco, dunque, che chi muove le fila del vero potere sta approntando la festa in maschera, la rappresentazione teatrale che imbrigli ogni possibilità di vero cambiamento nel caso che questo governo, come i precedenti, fallisca nei propri obiettivi. Ovvero che la falsa stabilizzazione promossa dai rivoluzionari di governo come Giulio Tremonti non sia più sufficiente ad accecare gli elettori, perché un conto è dichiarare che si faranno vedere i sorci verdi a banche e petrolieri, ed un conto è farlo veramente. Un conto è urlare "padroni a casa nostra", altro è varare una legge che governi davvero il reale e risolva i problemi (come del resto non ha fatto, negli ultimi sei anni la Bossi/Fini sull’immigrazione).
I nodi potrebbero venire al pettine, dunque, e magari avverarsi la profezia di Beppe Grillo di uno tsunami che travolga tutto e tutti. E allora si agisce sapientemente su ogni livello: da un lato il clima di "rinnovato dialogo" tra maggioranza e opposizione ci dice che, per il bene dell’Italia una maggioranza, ragionevole e con i nervi saldi, in ogni caso ci sarà; che i capi-popolo che si scorgono all’orizzonte (come lo stesso Grillo) in grado di convogliare istanze "ribelli" sono estremamente caustici ed impietosi nelle analisi, quanto timidi e marginali nelle proposte politiche (davvero si pensa che il ritorno alle preferenze ci salverà dalla "mala politica", o la cancellazione dell’ Ordine dei Giornalisti dalla "mala informazione"? E perché Grillo non propone invece la nazionalizzazione della Banca d’Italia e la fa diventare il tema culturale centrale della nostra epoca, con tutte le conseguenze che vi sono connesse?); infine, e torniamo al centro del nostro ragionamento, che i pensieri antagonisti rimangano sempre tali, non solo e non tanto verso il sistema ma soprattutto tra di loro.

Curioso è stato vedere durante la trasmissione Otto e mezzo su La7 di qualche sera fa, il confronto tra Franco Giordano, segretario uscente di Rifondazione Comunista e Francesco Storace, leader della formazione La Destra. Tra battutine e ammiccamenti con i conduttori (il neo-ferrariano – ed ex opposto estremista –  Lanfranco Pace, e la occhieggiante con gaudio Ritanna Armeni) i due si sono trovati perfettamente in sintonia su molti temi, ma, Dio ci salvi se non fosse così, nessuna commistione: i comunisti di qua e i fascisti di là.
Anche in campagna elettorale era andata in onda una situazione simile, con Marco Ferrando (Partito Comunista dei Lavoratori) e Roberto Fiore (Forza Nuova) ad auspicare all’unisono qualcosa di simile alla socializzazione di Alitalia, ma per carità, se i rispettivi militanti dovessero trovarsi di fronte, è necessario che si guardino in cagnesco… e se ci scappa qualche tafferuglio è pure meglio.

Non vogliamo qui proporre, sic et simpliciter, una comunanza delle opposizioni radicali (sinistra antagonista e destra rivoluzionaria) magari in nome dei comuni anticapitalismo e antiglobalizzazione (non basta essere anti-qualcosa, secondo noi, per un discorso politico comune); nemmeno vogliamo fare appello all’identico  riferimento al socialismo storico che è nel DNA delle due parti: occorrerebbero anni di analisi di massa (anche psicologiche e non solo socio-politiche) per superare i traumi di decenni di storia terribile alle spalle.
Ma che si inauguri una stagione di pensiero nuovo, non più dogmatico, non più schematico, scevro di preconcetti che guardi senza sentimentalismo ma con purezza anche al passato per capire fino in fondo gli orrori e gli errori di una parte e dell’altra, e al contempo e soprattutto osservi con rigore e accuratezza il presente… questo sì, lo chiediamo e lo auspichiamo. Perché ci serve. Perché è necessario per uscire dalla palude.

Nel dopoguerra l’Italia ha avuto almeno due decisivi momenti di rottura determinati dalle condizioni sociali e storiche in mutamento. Eppure le strutture di potere non sono mai sostanzialmente cambiate, anzi sono uscite da quei momenti travagliati ancora più forti e consolidate, giocando in modo raffinatissimo e spietato la loro partita sulla pelle degli italiani.
Negli anni ’60 il paese aveva visto una tumultuosa crescita. Le classi sociali (soprattutto popolari) che l’avevano determinata ora reclamavano un riconoscimento dei loro sforzi ed un ingresso a pieno titolo nei vari sistemi di controllo e governo della società. La scolarizzazione di massa aveva inoltre determinato generazioni giovanili che pretendevano di non essere più spettatrici ma protagoniste della scena pubblica: più libertà, più democrazia, maggiori diritti civili. Questo contesto all’interno di un modello sociale ancora legato a vecchie logiche, bloccato, rigido, paternalistico, rischiava di innescare una bomba sociale difficilmente controllabile, tanto più che l’opposizione politica era quasi ad esclusivo appannaggio del più forte (per consensi e strutture) partito comunista dell’Europa occidentale.
Dalla fine degli anni ’60 e per oltre un decennio si assistette così ad una serie di eventi "storici" che col senno di poi possono essere interpretati e visti con estrema chiarezza come concatenati all’interno della stessa logica. Da un lato un progressivo avvicinamento del PCI all’area di governo, senza mai giungervi in definitiva, ma risultando in alcuni momenti (come il sequestro Moro) l’elemento decisivo di maggiore stabilità per la tenuta delle "istituzioni democratiche". La definizione di un clima di paura generalizzato in ogni strato sociale cui contribuirono vari elementi: violenza criminale, diffusione delle droghe, violenza politica, terrorismo di varia matrice, stragismo. Dal punto di vista politico questo clima determinò la ricerca di un rifugio da parte delle grandi masse popolari (a destra come a sinistra) verso i tradizionali partiti "chiesa" su cui l’ordine sociale si reggeva. In questo modo i pensieri antagonisti non raggiunsero mai un livello di massa critica, e la deriva verso la violenza cieca e gruppuscolare poté facilmente determinarsi, scaricandosi con ferocia l’una contro l’altra secondo la logica degli "opposti estremismi".
Vi furono anche conquiste sociali, del resto non più rinviabili (statuto dei lavoratori; divorzio), ma le strutture fondamentali di potere risultarono inalterate. Ci pensò poi il cosiddetto "riflusso" negli anni ’80 a cristallizzare tutto.
La pacificazione durò circa un decennio. La caduta del Muro di Berlino liberò da certe logiche, ma in Italia fu soprattutto l’entrata in crisi della "partitocrazia" a determinare la necessità di un nuovo rivolgimento socio-politico in stile gattopardo. Il sistema della corruzione diffusa era divenuto un modello talmente penetrante da rischiare di soffocare l’economia. Un sistema clientelare ed in ampia parte parassitario (con un debito pubblico fuori controllo) stavano portando ad un effetto sudamericano, il sistema paese in bancarotta e la rivolta sociale in procinto di scoppiare. Nel sud Italia si verificò una storica saldatura tra movimento studentesco (La Pantera) e lotta anti-mafia. Al nord la Lega minacciava la secessione e stava acquistando rapidamente consensi.
La rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite fu perfetta per depurare il sistema dalle degenerazioni più macroscopiche, ma venne anche bloccata al momento opportuno, molto prima di "rivoltare l’Italia come un calzino". E d’altra parte l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino avevano già amputato definitivamente la possibilità che la legalità democratica nel sud potesse incontrarsi con quella del nord: oggi cominciamo a sapere con precisione quanto sarebbe riduttivo definire quelle stragi solo come "mafiose", così come fu riduttivo (se non fuorviante) chiamare quelle degli anni ’70 "stragi fasciste". Ma ciò che venne interrotto fu anche la possibilità di una svolta epocale, ovvero che sul terreno della ricerca della legalità (strumento per giungere ad una "verità storica" sul nostro paese) potessero incontrarsi visioni radicali da destra e sinistra. Invece un altro "riflusso", anche questo culturalmente berlusconiano (come del resto lo era stato quello degli anni ’80) arrivò a normalizzare il paese. La destra radicale finì per diventare "liberale" e la sinistra comunista (quella riformista aveva compiuto il suo percorso, svoltarella dopo svoltarella) si barcamenò tra entrismo governativo e pulsioni movimentiste.

Oggi, dunque, si presenta un’altra occasione storica. Le premesse sono quelle cicliche di sempre: crisi economica; crisi sociale; crisi politica. E gli anticorpi al cambiamento sono già presenti nel tessuto del paese, come le paure reali o strumentali che vengono agitate per determinare una ricerca di sicurezza che non è altro che stornare l’attenzione verso un falso nemico, poiché vittima esso stesso. Forse stavolta non ci sarà bisogno di una "strategia della tensione" particolarmente cruenta e nazionale. La partita di consolidamento del potere si giocherà anche a livello globale, e potrebbe essere catastrofica. Ma se ce ne fosse bisogno anche per lo scenario italiano, non dubitiamo che si farà ricorso ad ogni mezzo, com’è sempre accaduto. E la risorgenza degli opposti estremismi ci fa temere il peggio, un’altra sporca partita che molti sembrano disponibili e pronti a combattere, come se i quattro decenni trascorsi non ci avessero insegnato nulla.
C’è un unico antidoto contro le logiche che, come abbiamo molto sinteticamente cercato di illustrare, tengono imbrigliato il nostro paese dal dopoguerra. Che le due culture politiche profondamente italiane, finora contrapposte, trovino un linguaggio comune. Cultura profondamente italiana quella comunista, non la sovietica delle classi dirigenti del PCI, ma quella popolare e nazionale che viveva nell’idea di Gramsci e che è vissuta attraverso le lotte delle masse lavoratrici, delle feste dell’Unità, di alcuni governi locali. Cultura profondamente italiana quella fascista, non quella reazionaria ed autoritaria che in definitiva governò durante il ventennio, ma quella sociale e patriottica che ispirò il programma di San Sepolcro, e che portò personalità come quelle di Nicola Bombacci, già fondatore del Partito Comunista d’Italia nel ’23, ad essere impiccato dai suoi ex compagni a Piazzale Loreto, insieme a Mussolini, con un cartello che lo definiva "supertraditore".
Certo non si potrà fare affidamento sugli attuali dirigenti dei "partitini" che si richiamano ancora al comunismo o in maniera più pudica al neo-fascismo, che sembrano anzi i cani da guardia più attenti affinché un tale processo politico mai si realizzi. Certo si dovrà smettere di chiamarci "comunisti" e "fascisti", si dovrà cercare, trovare, inventare parole nuove che corrispondano a nuove idee, idee del reale e del presente. Certo ci si dovrà appellare esclusivamente agli uomini di buona volontà, soprattutto liberi nella mente e nel cuore, persone comuni che non hanno nessuna chiesa da difendere.
E se non si riuscirà, saremo i responsabili di aver visto il possibile per il nostro paese, per non essere più una neo-colonia ma finalmente una patria, ed avere di nuovo fallito, vittime, ostaggi, degli opposti estremismi.

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