Elezioni 2008: vincitori e sconfitti davanti a opportunità storiche

Le elezioni politiche italiane del 2008 rappresentano davvero un terremoto che preannuncia la nascita della Terza Repubblica? E’ possibile, ma non scontato. Certamente i risultati clamorosi, quanto meno per la loro ampiezza, determinano una serie di possibilità storiche e mutamenti tanto per i vincitori quanto, e forse ancor più, per i perdenti.
Due dati sono talmente macroscopici da non essere sfuggiti a nessun commentatore: il tracollo della sinistra cosiddetta "radicale", ampio e diffuso in tutta Italia, e la valanga della Lega su tutto il nord (con sfondamenti anche in Emilia) dove in alcune valli e comuni storici supera anche il 50% ed in ogni caso è il partito di riferimento.
Ora due scenari sono possibili per il prossimo futuro del governo italiano. Da un lato che la maggioranza uscita dalle urne tenga e duri cinque anni, ovvero che le due anime politico-culturali dello schieramento di centro-destra trovino una efficace sintesi. Nel precedente quinquennio berlusconiano (2001/2006) questo riuscì, anche se in maniera molto travagliata, e non è affatto sicuro che la mancata presenza dell’Udc attenui completamente le tensioni. L’asse Lega/Tremonti è sicuramente la spina dorsale della maggioranza. Bisognerà verificare se Gianfranco Fini, leader di AN, si accontenterà di una gestione del potere (come pare, visto che si vocifera già di una sua presidenza della Camera) che lo porterà ad essere il naturale erede di Berlusconi per la prossima legislatura, oppure il conservatorismo statalista e meridionalista finirà per entrare in collisione con l’anima settentrionalista e autonomista del governo.
Il primo banco di prova appare già evidente all’orizzonte. Il prossimo anno si terrà un referendum sulla riforma del sistema elettorale in senso ancora più bipolare dell’attuale. Se il referendum passasse, infatti, i partiti maggiori di centro-sinistra e centro-destra (PD e PDL) potrebbero anche evitare di imbarcare al loro interno le istanze più radicali (rappresentate attualmente da Italia dei Valori e appunto Lega) per essere autosufficienti. Alleanza Nazionale è promotrice del referendum, la Lega ha finora mostrato di avversarlo tenacemente. Cosa succederà?
Dentro questa possibile crepa potrebbero inserirsi poteri forti come l’alta borghesia industriale di Confindustria e l’aristocrazia finanziaria rappresentante del sistema bancario che hanno i piedi in entrambi gli schieramenti e non hanno mai accettato completamente Silvio Berlusconi nel salotto buono del potere italiano. Se il governo saltasse si aprirebbero le porte alle tanto annunciate (e da taluni agognate) larghe intese. Non mancano i nomi (da Montezemolo a Draghi, da Monti ad Amato) che potrebbero traghettare l’Italia verso il ricompattamento di quello che sarebbe in definitiva il blocco sociale del pentapartito della Prima Repubblica.
Ricordiamo il vertice tra Montezemolo, Casini e Fini di pochi mesi fa in vista di queste elezioni. Non trapelò nulla da quell’incontro, sarebbe molto interessante sapere cosa si dissero. Già allora si sussurrava della preparazione di un grande centro che aprisse le porte a larghe intese. Poi tutto sfumò, evidentemente i tempi erano troppo stretti e non ancora maturi, ma sotto traccia quel progetto potrebbe essere ben vivo e vegeto e solo in attesa del momento opportuno.
Non dimentichiamo che gravi crisi internazionali si profilano all’orizzonte: quella economico/finanziaria, venti di nuove possibili guerre in Medioriente, il riaccendersi dello scontro geopolitico a livello planetario (Stati Uniti, Russia, Cina). E come tutti questi scenari di crisi siano profondamente intrecciati tra loro. I guardiani dell’ "Impero" potrebbero vedere necessario per la "provincia" Italia una forte guida politica con un’ampia base popolare che controlli e congeli le istanze più recalcitranti alle scosse telluriche che il nuovo ordine mondiale, nella sua fase di assestamento finale (o terminale?), necessariamente provocherà.
Paradossalmente l’attuale governo fondato sul binomio Tremonti/Lega può apparire quello meno docile agli occhi dei poteri internazionali occidentalisti fra tutti i possibili governi che l’attuale panorama italiano potesse esprimere. Sicuramente sarebbe schierato su posizioni filo-atlantiche (se non addirittura filo-sioniste) nel caso che la situazione mediorientale (e ci riferiamo a Palestina, Libano, Siria e soprattutto Iran) sprofondasse nel baratro. Non altrettanto si può invece pensare sul terreno del contrasto alla globalizzazione e del sistema finanziario nazionale ed internazionale. La difesa delle identità e dell’autodeterminazione dei popoli, la difesa dallo strapotere finanziario, sono germinazioni vitali che è facile riscontrare nel popolo della Lega. E non pochi sono stati spiazzati a sinistra dal pamphlet no-global di Giulio Tremonti "La paura e la speranza". Un chiaro esempio dei limiti culturali della sinistra (di cui diremo più ampiamente subito) che ha lasciato alla destra pure il tema del contrasto alla globalizzazione dopo averlo perso, e non più ritrovato, nel 2001 a Genova.
Addirittura anche sul piano delle relazioni internazionali Berlusconi ha scavalcato a sinistra Veltroni. Il Cavaliere è stato l’unico a prendere decisamente le difese e mostrare sensibilità nei confronti dell’ "amico" Putin sostenendolo a fronte dell’accerchiamento della Nato nei confronti della Russia. Poco importa se queste posizioni sono dettate da sentimenti personali o questioni di business. Se l’Italia può essere un ponte di incontro tra Europa e Cremlino, questa carta deve essere portata fino in fondo perché qui si gioca gran parte nostro futuro.

Veniamo agli sconfitti. Diciamo subito che la sinistra radicale questo tracollo l’ha meritato tutto, e per intero. Certo, hanno influito caratteristiche contingenti di questa campagna elettorale e di questo sistema di voto, ma non spiegano l’essenza intima della questione. La verità è che (finalmente) i limiti storici e culturali della sinistra italiana sono venuti al pettine, tutti insieme e tutti in una volta.
I due temi che hanno segnato la vittoria della Lega e la sconfitta dell’Arcobaleno sono emblematici: immigrazione e federalismo. Ovvero i binomi sicurezza/povertà e autonomia/autodeterminazione. Insomma tematiche su cui la sinistra dovrebbe avere tutti gli strumenti, politici, etici, intellettuali, per districare matasse oggettivamente complicate. Invece le costruzioni salottiere e politicamente corrette su questi temi sono state spazzate via dal ruvido "padroni a casa nostra" di Bossi. E ben venga. Perché in quelle parole si respira l’odore di popolo che nelle parole dei "comunisti" non si sente più.
Quello dell’immigrazione è un tema complesso, è uno dei temi centrali della modernità. Dunque non lo si può affrontare facendo ricorso semplicemente all’ecumenismo dell’accoglienza o al pietismo verso i più deboli. Questi sentimenti, nobili, non risolvono il problema, non investono la questione, al massimo la contengono. Come nella sintassi, così nella politica, una frase non si regge solo con aggettivi se un verbo non le dà la direzione. E allora la sinistra dovrebbe ben interrogarsi su multiculturalismo e multietnicità. Il primo è una ricchezza, siamo sicuri che lo sia anche la seconda?
Storicamente l’emigrazione ha creato ghetti e sacche di povertà ovunque si sia verificata. L’America ne è l’esempio lampante. L’emigrazione è in sé un fenomeno deleterio, sia per chi è costretto a partire, sia per chi deve accogliere. Emigrazione, in sé, vuol dire sostanzialmente solo due cose: povertà e sfruttamento, a seconda della visuale. Questo è. E non si risolve con un "poverini" e una pacca sulle spalle. La sinistra ha visto in Italia in questi ultimi venti anni innescarsi un conflitto sociale di poveri contro poveri. Suo gravissimo limite è stato (non diciamo risolvere il problema, sarebbe ingeneroso, ma) non riuscire nemmeno ad elaborare una risposta credibile ed adeguata che servisse come strumento di lotta al suo popolo. Quel popolo invece è stato lasciato solo e non c’è quindi da stupirsi se poi la "destra" ha scippato alla "sinistra" questa tematica e l’ha cavalcata, declinandola con gli strumenti che possiede e che purtroppo possono facilmente scivolare in razzismo e xenofobia.
Altrettanto e a maggior ragione sul tema del federalismo: ma che fine ha fatto il regionalismo della sinistra? Un’altra occasione storica mancata. Quel movimento intellettuale che aveva capito, dentro uno stato bloccato dalla cappa democristiana, come creare gli strumenti giuridici che hanno permesso la formazione delle "regioni rosse" dentro cui abbozzare un diverso modello sociale, è stato progressivamente abbandonato negli anni ’80 anziché spingerlo fino alle estreme conseguenze. E nemmeno quando la Lega è nata si è riusciti a capire che il tema federalista era tutto dentro la sinistra, lo si è lasciato scappare via fino a diventare il cavallo di battaglia della borghesia padana. Responsabilità gravissima che grida vendetta.

La sinistra radicale deve ripartire da zero. Serve all’Italia prima di tutto, e poi anche al mondo. Ma i primi segnali non sono incoraggianti. Oliviero Diliberto vuole ripartire da falce e martello. Gli diciamo, molto semplicemente, che i simboli sono conseguenze delle idee, non il contrario.
Non dubitiamo che sotto la guida di Nichi Vendola, personalità sicuramente carismatica, questa sinistra ritroverà ben presto il suo "diritto di tribuna". Forse anche successi elettorali se il tragitto verso il centro del Partito Democratico (come tutto fa supporre) dovesse continuare. Ma la sinistra non ritroverà se stessa senza affrontare il problema centrale e immenso che mai è stato risolto: il rapporto tra valore del lavoro e sistema monetario. Da qui si riparte, da qui si deve. Altrimenti si rischia un altro scippo storico, che sia la destra, di nuovo, a concepire una risposta anticapitalista e lasciare la sinistra a balbettare di lotta di classe.
Il tema da affrontare è se il lavoro (tutto il lavoro, non solo quello dipendente) debba essere sottomesso al capitale oppure no. Se si vuole una società strutturata sul valore del lavoro o sulla rendita usuraia finanziaria.  Bertinotti e Veltroni si sono beccati in campagna elettorale sulla attualità della lotta di classe, ma nessuno dei due ha detto fino in fondo la verità. Certo, come dice Veltroni, anche l’imprenditore è un lavoratore. Certo, come dice Bertinotti, oggi c’è ancora un problema di sfruttamento sociale. Ma entrambi dicono male, o nascondono, che la loro è una riproposizione di guerra tra poveri, tra maggiordomi e camerieri, mentre i padroni di casa sono altri, sono i detentori del capitale finanziario mondiale, sono coloro che emettono moneta ed indebitano così stati, imprese, e famiglie. Solo coloro che vivono di rendita usuraia, non di lavoro, e su quella fondano il loro potere.
E allora diciamo a chi fosse interessato a ricostruire una storia di sinistra, che il tema è quello della sovranità monetaria, da cui forse non tutto, ma molto, discende. È questa la via maestra per ritrovare la simbiosi col popolo, far diventare il tema della sovranità monetaria la cartina di tornasole per cambiare la società, farlo diventare un tema culturale di massa così come la Lega è riuscita a fare col federalismo.
Lungo questo percorso si possono trovare compagni inaspettati, che oggi si riconoscono nel desiderio di legalità democratica dell’Italia dei Valori, nella difesa della identità di popolo della Lega, ovviamente nella ispirazione sociale della vera destra. Di questo non bisogna avere paura, anzi, bisogna accettare la sfida. Perché la sinistra, o diventa una sinistra popolare, gramsciana, noi diciamo una sinistra nazionale, oppure non sarà più, mai più, sinistra, se non negli slogan vuoti urlati dalle piazze.

Questo, a nostro avviso, ciò che si deve fare. Sarà quel che si farà? Ne dubitiamo fortemente.
Per i vincitori di queste elezioni le due alternative possibili sono lo scivolamento verso la palude del potere e il tradimento del proprio sistema di valori di riferimento, oppure, se proveranno a resistere, le manovre centriste che tenderanno ad estrometterli con grande gaudio della cosiddetta sinistra riformista che accorrerà a sostenere una grande coalizione "per il bene dell’Italia".
Per i perdenti vediamo una riscossa sulle parole d’ordine della "giustizia sociale" e dell’odio verso il "libero mercato" senza capire che il mercato è uno strumento del potere, non il potere. E magari nel giro di due o tre anni avranno di nuovo il loro 8 o 10% di consensi elettorali, senza saperci cosa fare. Ricordiamo una vecchia vignetta di Altan in cui l’operaio Cipputi esclamava: "Ah, bei tempi! Loro che di là rubavano e intrallazzavano. Noi di qua a urlare: Ladri! Intrallazzatori!". Questo sarà la sinistra radicale. Il cane da guardia del sistema, che al massimo abbaia e fa stare allegri, ma che mai morde.

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