Vertice a Mosca per rafforzare l’asse Russia-Cina

Sempre più legate dagli scambi economici e da principi comuni in politica estera, lo scorso 28 marzo Russia e Cina hanno concluso un vertice che va interpretato come un ulteriore rafforzamento dell’asse Mosca-Pechino.
Il presidente cinese Hu Jintao si è recato a Mosca per un incontro dal forte valore simbolico e per rendere ancora più stabile l’alleanza con Vladimir Putin. Gli argomenti discussi durante il vertice sono stati i dossier nucleari iraniani e della Corea del Nord, il potenziamento dei rifornimenti energetici e una nuova partnership in settori economici strategici.
Le politiche estere dei due paesi non sono mai state così vicine. Da tempo si muovono in sincronia sul fronte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, soprattutto nella gestione di quella che ormai è una escalation nucleare. Anche se hanno votato a favore della risoluzione 1747 che prevede nuove sanzioni economiche per l’Iran (in particolare l’embargo sull’ esportazioni di armi e il congelamento di beni e finanziamenti di entità coinvolte nel programma missilistico nucleare), Pechino e Mosca continuano a minacciare di esercitare il diritto di veto  contro  sanzioni troppo pesanti. Durante l’ultimo giorno del vertice una dichiarazione congiunta di Putin e Hu  ha ribadito che la questione del nucleare iraniano dovrà essere risolta con "mezzi esclusivamente politici". Inoltre, la Cina è il solo interlocutore capace di tenere sotto controllo le velleità nucleari del dittatore nordcoreano Kim Jong Il.
I sorrisi e gli abbracci tra Vadimir Putin e Hu Jintao suscitano non poche inquietudine agli Stati Uniti. Washington si è vista ripetutamente bocciare dalle due potenze asiatiche le iniziative più dure contro il regime di Ahmadinejad. Ma non è solo il piano diplomatico a preoccupare il presidente Gorge W. Bush; la carta energetica russa, se accoppiata  a quella della produzione cinese, potrebbe spostare verso l’ Oriente la bilancia economica mondiale. E’ già in atto la costruzione di un oleodotto che dal 2015 porterà 1,6 milioni di barili di petrolio dalla Siberia orientale fino al porto russo di Nakhodka sull’Oceano Pacifico, davanti al Giappone e vicino alla Corea del Sud. Pechino, spinta dalla costante fame di idrocarburi necessaria alla sua vertiginosa crescita economica, insiste perché l’oleodotto arrivi fino in Cina ed è disposta ad investire nel progetto. La Russia esporta  più di 5 milioni di barili di greggio al giorno, ma solo 320 sono destinati alla Cina attraverso la rete ferroviaria. Pechino riceve molto più petrolio da Arabia Saudita, Angola, Iran, nonostante abbia 4.200 chilometri di confine con Mosca.
L’asse Mosca-Pechino non vuole limitarsi ad essere il pilastro di un nuovo ordine multipolare da contrapporre all’unilateraliasmo di Washington (sia in campo politico che in quello degli approvvigionamenti energetici), i due paesi vogliono rinsaldare il loro interscambio commerciale. La delegazione cinese, con in testa il ministro per il Commercio Bo Xilai, ha portato al Cremlino un pacchetto di accordi da sottoscrivere nei settori, energetici, dell’acciaio, immobiliare navale e del trasporto pubblico per un valore fra i 2 e i 4 milioni di dollari. Qualche ombra permane sull’equilibrio dell’interscambio, per la Russia troppo spostato sul versante energetico (56% del totale). Mosca vorrebbe esportare anche macchinari e prodotti elettronici.    
A ben guardare c’è anche un fattore che potrebbe ostacolare questo idillio. Negli ultimi anni, decine di migliaia di imprenditori e commercianti cinesi emigrano e lavorano in Siberia. Hanno fatto crescere l’economia locale, ma Mosca non vuole che questi giungano a controllarla. Tuttavia non sembra che l’argomento abbia trovato spazio tra i discorsi sugli accordi commerciali e sulla compravendita di petrolio.

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