Guerra preventiva e diritto internazionale: possibile una coesistenza?

La questione della guerra preventiva e della sua liceità dal punto di vista del diritto internazionale è venuta alla luce in modo imperioso da pochi anni, a seguito della politica adottata dall’Amministrazione americana dopo gli attentati terroristici dell’11 Settembre 2001.
Prima di addentrarsi nella questione della liceità o meno dell’autodifesa preventiva, è opportuno un breve excursus sulla definizione di “terrorismo”. Dal punto di vista del diritto internazionale, ancora oggi, non esiste una definizione universalmente accolta del termine, a seguito dei disaccordi esistenti tra i Paesi occidentali ed i Paesi cosiddetti “non allineati”, disaccordo che non si è mai riusciti a comporre nelle sedi internazionali opportune. La mancanza di una definizione universale può generare (e ha effettivamente generato) confusione, come dimostra un discorso dell’ex Presidente americano Ronald Reagan tenuto al Congresso nel 1985, in cui richiedeva finanziamenti per appoggiare la guerriglia dei Contras in Nicaragua contro la dittatura sandinista, che, stando a quanto affermato da Reagan, «non solo perseguita la popolazione, la chiesa e nega la libertà di stampa, ma arma e fornisce le basi per i terroristi comunisti che attaccano gli Stati vicini» [traduzione a cura dell’autore]. Sicuramente, tale affermazione contribuì a far sì che con il termine “terrorismo” venisse identificato qualsiasi movimento contrario agli interessi americani, contribuendo così a generare ulteriore confusione.
E sarà proprio la constatazione di tale confusione terminologica a spingere le Nazioni Unite a creare nel 1972 un apposito Comitato ad hoc con il compito di arginare l’ormai dilagante fenomeno del terrorismo. Il Comitato terminò i suoi lavori nel 1979, con un rapporto considerato da tutti deludente, in quanto, viste le forti contrapposizioni esistenti tra i diversi blocchi di Paesi membri, si preferì non toccare l’argomento relativo alla definizione del termine, che rimase quindi non regolamentato (fatto paradossale nonché indicativo del clima che si respirava al palazzo di vetro a New York, visto che il Comitato fu creato proprio con quell’intento).
Fu successivamente la Commissione di Diritto Internazionale a cercare una soluzione al problema, proponendo nel 1995 tale definizione: «[…] costituisce un atto di terrorismo internazionale il fatto di intraprendere, organizzare, ordinare, aiutare, finanziare, incoraggiare, tollerare atti di violenza contro persone o beni di un altro Stato, provocando il terrore fra la popolazione, allo scopo di costringere il suddetto Stato a concedere dei vantaggi o ad agire in un determinato senso» [traduzione a cura dell’autore]. Tale definizione fu però esclusa per lo scarso consenso ottenuto da parte dei Membri.
Un’intraprendenza maggiore è stata invece dimostrata dalle organizzazioni a carattere regionale, come ad esempio la Lega Araba, l’Organizzazione degli Stati Americani, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per l’Unità Africana, che hanno concluso Convenzioni per la prevenzione e la repressione del fenomeno, includendo, al loro interno, vere e proprie definizioni del terrorismo. Va però rilevata la scarsa applicabilità operativa di tali Convenzioni, in quanto tali documenti non trovano applicazione nell’ambito delle guerre di liberazione nazionale.
Il terrorismo, comunque, costituisce senza ombra di dubbio il fulcro attorno a cui ruota l’ultimo rapporto sulla strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America (United States National Security Strategy – USNSS, liberamente consultabile nella versione originale come in quella tradotta interamente in italiano all’indirizzo http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=70&tema=Documenti). Ad un attento esame del rapporto, esso si presenta estremamente frammentato e non omogeneo, in quanto consiste in una raccolta di interventi e discorsi del Presidente Bush nel lasso di tempo che va dal Settembre 2001 al Settembre 2002. Leggendo comunque il documento, si delinea l’orientamento politico-militare degli USA dopo i tragici eventi dell’11 Settembre, orientamento teso a combattere con ogni mezzo l’attività terroristica. In buona sostanza, nell’USNSS si sostiene la legittimità di un attacco preventivo americano e viene data grande enfasi al concetto in base al quale «If you are not with us, you are against us» («Se non sei con noi, sei contro di noi», dove il termine “us” va tradotto con il significato di “noi” o indica l’acronimo di United States?). C’è però un problema che pare non sia stato preso in considerazione, o comunque sottovalutato: una dichiarazione di tale portata, soprattutto se resa pubblica dal Presidente degli Stati Uniti, unita ad altre come “Unitevi a noi nella nostra crociata o affrontate la prospettiva certa di morte e distruzione” pone gli Stati di fronte ad un bivio: o con gli Stati Uniti, o contro di loro. O dalla parte dell’Impero del Bene, o da quella dell’Impero del Male. Viene allora da chiedersi come, e soprattutto dove, si deve schierare quella (considerevole) fetta dell’opinione pubblica internazionale che non nutre simpatie per la politica di Bush ma non per questo approva atti terroristici.
La principale novità della strategia di sicurezza è certamente la previsione di azioni militari preventive rivolte contro Stati stranieri per debellare una situazione potenzialmente pericolosa per la sicurezza nazionale. Stando a quanto si legge nel rapporto, costituisce una minaccia alla sicurezza nazionale sia una politica di sostegno a gruppi terroristici da parte di uno Stato, sia una politica tesa all’acquisizione di armi di distruzione di massa, suscettibili di essere impiegati in attacchi terroristici. Pur essendo sufficiente uno solo dei due elementi a mettere in pericolo la sicurezza nazionale, è soprattutto la loro combinazione che concretizza una seria minaccia agli Stati, tale da fondare e rendere indispensabile un’azione militare a carattere preventivo.
La nuova, drammatica, problematica che si configura all’orizzonte della lotta al terrorismo internazionale intrapresa dagli Stati Uniti consiste nella natura del nemico: non si tratta più necessariamente di uno Stato, di una Nazione con precisi confini territoriali e politici, bensì di gruppi organizzati, cellule dislocate praticamente in ogni parte del mondo, ivi compresi Paesi amici degli USA, per non dire gli stessi Stati Uniti. Alcuni esempi: gli attentatori dell’11 Settembre 2001 avevano preso lezioni di volo in Paesi quali la Gran Bretagna, gli esecutori dei recenti attentati di Londra abitavano in quel Paese da anni. Tale problematica, che si evince dall’analisi dell’USNSS è in forte contraddizione con quanto affermato dalla stessa amministrazione Bush, all’indomani degli attentati dell’11 Settembre 2001, considerati la Pearl Harbour del XXI secolo. Il problema è: chi sono, in questo caso, i Giapponesi?
A prescindere da ciò, comunque, il rapporto americano sulla sicurezza nazionale ammette la possibilità di intraprendere azioni militari non solo contro i gruppi terroristici, ma anche contro Stati che possono costituire una minaccia per la sicurezza americana, per la presenza, al loro interno, di gruppi terroristici o perché possiedono armi di distruzione di massa.
In qualche modo, la posizione dell’Amministrazione Bush costituisce una novità solo in parte. Esaminando infatti la strategia per la sicurezza nazionale elaborata nel 1998 dall’Amministrazione Clinton, a proposito del bombardamento in Sudan della base “Al Shifa” e in Afghanistan di basi terroristiche legate ad Al Qaeda, si legge: «Gli attacchi costituivano una risposta necessaria e proporzionata alla minaccia imminente di ulteriori attacchi terroristici contro personale e strutture americane. L’Afghanistan e il Sudan erano stati avvertiti da anni di cessare di proteggere e supportare questi gruppi terroristici. I Paesi che perseverano nell’ospitare terroristi non costituiscono dei rifugi sicuri» [traduzione a cura dell’autore]. L’attacco preventivo viene quindi giudicato come una risposta necessaria e proporzionata all’imminente minaccia terroristica. Interessante, da questo punto di vista, è lo stralcio di un articolo comparso su “Il Foglio”, quotidiano diretto da Giuliano Ferrara: «Gli Stati Uniti scatenano un attacco missilistico su un’altra nazione, sostenendo che lo fanno per rispondere a un attacco terroristico di Osama bin Laden e per evitare che in quello Stato si costruiscano armi di distruzione di massa che qualcuno potrebbe usare contro l’America. Dopo l’attacco, si scopre che i servizi si erano sbagliati, non c’erano laboratori né armi di distruzione di massa. Bush 2003 in Iraq? No, Bill Clinton 1998 in Sudan». Tale stralcio consente di confermare quanto già affermato in precedenza, in merito alla “predisposizione” americana all’uso della forza. E sempre di predisposizione, ma in senso opposto, si parla in un interessante articolo de “La Civiltà Cattolica”. In modo particolare, si parla di vocazione quasi messianica degli Stati Uniti a combattere nel mondo non tanto per difendersi da una minaccia più o meno incombente, quanto piuttosto con il nobile obiettivo di esportare la democrazia, di permettere a Paesi che di democratico hanno ben poco (o quasi niente) di assaporare il gusto della libertà.
Una lacuna individuabile all’interno del rapporto sulla sicurezza nazionale del 2002 consiste sicuramente nell’assenza di un richiamo agli organismi sovranazionali, Nazioni Unite in primis, oltre alle organizzazioni internazionali, quali ad esempio la NATO, per finire con le coalizioni ad hoc: «Mentre gli Stati Uniti si muovono costantemente alla ricerca del sostegno della comunità internazionale, noi non esiteremo ad agire da soli, se necessario, per esercitare il nostro diritto all’autodifesa agendo in modo preventivo contro i terroristi, per impedire loro di arrecare danni alla nostra popolazione e al nostro Paese (…)» [traduzione a cura dell’autore]. È inoltre necessario capire se il concetto di minaccia imminente, di cui parla il Presidente Bush, sia tale da giustificare un’azione preventiva, considerandola come legittima difesa. In tal senso è di aiuto la terminologia adottata nell’United States National Security Strategy: mentre il termine “preemption” sottintende una minaccia concreta, nonché imminente, il termine “prevention” indica una minaccia più remota, quindi meno certa e meno urgente. E non è un caso che la “preemptive war” venga definita anche “anticipatory self-defense”, “autodifesa preventiva”. Il concetto andrebbe inoltre adattato al nuovo status quo: «Per secoli, il diritto internazionale ha riconosciuto il principio in base al quale gli Stati non devono subire un attacco prima che essi possano legittimamente difendersi da situazioni che presentino un imminente pericolo di attacco. Avvocati e giuristi internazionali spesso hanno subordinato la legittimità della prevenzione all’esistenza di una minaccia imminente, ed ancora più spesso ad una visibile mobilitazione di eserciti, forze navali e forze aeree in preparazione di un attacco. Noi dobbiamo adattare il concetto di minaccia imminente alle capacità e agli obiettivi degli avversari di oggi» [traduzione a cura dell’autore]. Ecco che, allora, stando a quanto si legge nel documento, la legittima difesa contro una minaccia remota (“prevention”) è considerata illegale, mentre la difesa contro una minaccia imminente (“preemption”) è del tutto legittima.
Tali conclusioni si allineano ad una parte della dottrina, che considera il problema della guerra preventiva e della sua legittimazione dal punto di vista del diritto internazionale imperniato su due livelli normativi: da una parte, quello derivante dalla Carta delle Nazioni Unite, e quindi della legittimazione istituzionale, e dall’altra, quello derivante da origini consuetudinarie, la cui tendenza sembra essere prevalente, in quanto volto a sostituirsi al primo, vista l’incapacità di garantire degli standard adeguati di sicurezza e garanzia.
E, a ben vedere, l’articolo 2, paragrafo 4, della Carta dell’ONU («I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite») costituisce un caposaldo della questione relativa all’uso della forza. Il diritto internazionale, però, che affonda le sue radici ben prima del periodo in cui è stata redatta la Carta dell’ONU, annovera tra i suoi casi (sempre in tema di legittimità di un attacco preventivo) il Caroline, un vapore americano affondato dalla Marina inglese nel 1837, durante la rivoluzione canadese, perché vi era il sospetto che trasportasse armi alle fazioni ribelli. E, in quell’occasione, fu l’allora Segretario di Stato statunitense, Daniel Webster, a sollevare la questione della legittimità di tale azione, sostenendo la necessità che «(…) l’autodifesa è immediata, travolgente e non lascia alcuna possibilità di scelta né il tempo per effettuarla» [traduzione a cura dell’autore]. In sostanza, affinché il ricorso all’autodifesa sia legittimo, l’attacco deve essere già in corso, o comunque i preparativi per lo stesso devono essere chiari ed inequivocabili.
La disciplina internazionale generale proibisce l’uso della forza e la minaccia dell’uso della forza, con l’importante eccezione della legittima difesa. Quest’ultima è infatti ammessa dall’art. 51 della Carta dell’ONU («Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale»). Il problema, a questo punto, è quindi quello di verificare se l’azione preventiva rientri nell’ambito della legittima difesa. A tal proposito, può risultare utile esaminare il caso Osiraq, reattore nucleare irakeno bombardato da aerei israeliani il 7 giugno 1981. Israele si difese dalle accuse che le venivano mosse affermando che il bombardamento era motivato dal rischio che il reattore di Osiraq potesse essere utilizzato per la costruzione di armi atomiche che avrebbero potuto essere lanciate contro Israele. Si è trattato quindi, a tutti gli effetti, di un attacco preventivo da parte israeliana, in quanto un attacco irakeno contro Israele non era mai stato sferrato, né sembrava imminente. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, investito della questione, e forte dell’appoggio anglo-americano, approvò una risoluzione, la n. 487, in cui condannò Israele al risarcimento all’Iraq dei danni subiti a seguito del bombardamento. In linea generale, è quindi evidente che il diritto internazionale rigetta l’ipotesi della legittima difesa preventiva.
In periodi storici a noi più recenti, la legittimità della difesa preventiva è stata sostenuta dal governo israeliano nel 1967 in occasione della guerra dei Sei Giorni (caso in cui Israele attaccò i Paesi arabi a fronte di un’evidente mobilitazione degli stessi, nonché a fronte di dichiarazioni che minacciavano la sopravvivenza dello stato di Israele), dall’Iraq per giustificare l’attacco all’Iran nel 1980 e contro l’Iraq da Israele, per giustificare la distruzione del reattore nucleare ad Osiraq nel 1981.
Un qualche spiraglio di legittimazione potrebbe venire dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: tali risoluzioni, infatti, avallerebbero la possibilità di un intervento preventivo contro l’Iraq. Gli USA hanno giustificato il loro intervento a seguito del mancato rispetto dei contenuti delle Risoluzioni di cui sopra. A voler, però, fare una dettagliata analisi della produzione normativa elaborata in questa direzione dal Consiglio di Sicurezza, si evince facilmente come vi siano dei precedenti particolarmente importanti. Israele, ad esempio, ha violato le Risoluzioni che la riguardavano direttamente numerose volte, senza che fossero state adottate misure coercitive volte a costringerla a rispettare quanto stabilito in sede ONU.
Da non dimenticare anche la posizione, nel sistema internazionale, di Stati quali, ad esempio, l’India e il Pakistan, i quali non nascondono di possedere armi di distruzione di massa. Contro questi due Paesi non sono state prese misure preventive di alcun genere, senza contare il fatto che il Pakistan, soprattutto negli ultimi anni, ha assunto un ruolo di primo piano per il problema terroristico, andando a svolgere quasi la funzione di “trampolino di lancio” per la politica americana in quella regione. Dimostrazione di ciò è l’ultimatum lanciato dagli Stati Uniti il 20 Settembre 2001 contro l’Afghanistan attraverso il governo pakistano, vista l’impossibilità di comunicare direttamente con il regime talebano, poiché gli USA non lo avevano mai riconosciuto.
Quindi, il motivo di fondo che avrebbe spinto gli USA ad attaccare l’Iraq sembrerebbe essere stato quello geopolitico, poiché il Medioriente (Iraq, Iran e Arabia Saudita in testa) costituisce un’area di vitale importanza per le economie occidentali, Stati Uniti in primis, vista la presenza nel sottosuolo di risorse energetiche quali petrolio e gas naturale. E Saddam Hussein si configura in modo palese come un leader anti-occidentale, che impedisce l’accesso alle risorse energetiche irakene. Da qui, la volontà americana di rovesciare il leader irakeno mascherandosi dietro intenti nobili, quali l’esportazione della democrazia e l’accesso ai diritti civili e alle libertà per la popolazione, considerando poi che il caso Iraq potrebbe costituire un esempio per gli altri Paesi del mondo arabo, andando così ad innescare un “effetto domino”.
C’è da chiedersi, in conclusione, cosa accadrebbe al sistema internazionale, che già si regge su un equilibrio estremamente precario, se un Paese si dovesse sentire minacciato da un altro Stato: potrebbe ricorrere all’uso della forza senza preoccuparsi delle reazioni della comunità internazionale, e senza preoccuparsi di dover sottostare a norme di diritto internazionale che faticosamente sono state adottate dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi.
E c’è da chiedersi anche: se la Corea del Nord, l’Iran (soprattutto a fronte della recente elezione dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad), il Pakistan o l’India, dovessero sentirsi minacciati da un altro Paese, considerando le loro capacità nucleari, a cosa potrebbe portare tale stato di cose?

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