L’Occidente, venti anni dopo

Ricorrono per il mondo occidentale i venti anni dall’attacco alle Twin Towers: in questi giorni, quindi, sentiremo ripetere all’infinito la versione corrente di quei drammatici eventi – versione per altro ancora tutta da discutere.

È un ventennale questo che cade in un momento molto particolare per l’Occidente atlantico, dopo la storica sconfitta che l’interventismo cosiddetto democratico subisce in Afghanistan, quasi mezzo secolo dopo un’altra fondamentale sconfitta, quella del Vietnam.

Clarissa preferisce celebrare un suo ventennale, giacché il 1° settembre 2001, CLAR organizzava a Fano (PU) uno dei suoi primi eventi, un incontro pubblico sul tema “Cento anni di Globalizzazione – Storia e Origini” in collaborazione con L’Associazione La Scala Segreta.

Crediamo possa essere interessante rileggere oggi l’intervento di apertura di quell’incontro. Buona lettura.

Cento Anni di Globalizzazione

Noi abbiamo parlato di “100 anni di globalizzazione”, ma io credo si possa parlare, senza timore di essere smentiti, di 250 anni di globalizzazione.

Vi sembrerà strano, curioso, ma se ci si riflette un attimo ci si accorge che è così, e non è solo un fatto ozioso sapere che secondo noi la globalizzazione nasce anche in una data precisa, il 1763 (così potrete dire di avere imparato in questa serata la data in cui nasce la globalizzazione), ma per il fatto che è solo se capiamo cosa è successo in questi 250 anni che capiamo la globalizzazione, che capiamo anche quali sono i limiti, che ci sono e sono grossi, dei movimenti no-global, e quindi possiamo anche minimamente capire cosa si può fare, non dico per opporsi, ma per comprendere gli interessi che ci sono, e quindi sapere quando sarà anche il momento di dire no, e il come dire no, e il perché dire no a queste cose.

1763, perché il 1763? Lo trovate in tutti i manuali scolastici di storia: la pace di Parigi. Un episodio, la Guerra dei Sette Anni, che normalmente si studia perché rappresenta la nascita della potenza militare prussiana. Ma noi la guardiamo dal punto di vista europeo… Se la guardiamo dal punto di vista mondiale, la Guerra dei Sette Anni è stata la prima guerra mondiale. Perché mentre Prussia, con i soldi inglesi (badate bene), Russia, Spagna, Francia, Impero Absburgico combattono in Europa centrale – l’Inghilterra gioca la partita mondiale, cioè la partita che crea l’Impero Britannico. La partita viene giocata sul teatro nordamericano (quindi Canada e futuri Stati Uniti) e Centroamericano, in Senegal (quindi Africa occidentale) e nelle Indie. Sono i tre nuclei su cui si fonda la potenza imperiale inglese. La prima guerra mondiale, che significa il primo fenomeno di globalizzazione economica e militare, che nasce sotto il segno dell’espansione anglosassone.

Il primo punto che vorrei fissare è dunque questo: la globalizzazione non è un fenomeno di tutta l’umanità; la globalizzazione è la globalizzazione del mondo anglosassone, cioè un tipo di civiltà che si sta imponendo a tutta l’umanità, ed è la civiltà anglosassone, che è nata con l’Impero coloniale britannico. L’Impero coloniale britannico vince nel 1763. Quali sono le conseguenze? Le conseguenze sono l’affermazione del dominio militare e commerciale sui mari da parte della Gran Bretagna, sono la capacità di controllare attraverso una potenza terrestre le potenze europee (in questo caso, notate bene, è la Prussia che serve alla Gran Bretagna), è anche il creare un rapporto privilegiato fra le due sponde dell’Atlantico; perché ne nascerà il commercio anglo-americano – c’è un cambiamento nei flussi commerciali tale per cui le esportazioni inglesi fuori dell’Europa passano dall’11% al 53% del totale, quindi una economia che si mondializza nelle esportazioni, ma che si mondializza anche nelle importazioni, dal 37% al 60% del totale: questo è l’inizio della globalizzazione, queste sono cifre, fatti obiettivi.

E questa è la forza della Gran Bretagna, perché le produzioni tradizionali, per dirne una, la lana, erano merci ormai “mature”, con cui non c’erano più grosse prospettive di affari. Con la nascita di nuove merci ad alto valore aggiunto, potremmo dire oggi, come i prodotti tropicali (pensate anche al fenomeno del consumismo oggi), nasce un mercato di nuovi prodotti che viene gestito completamente dalla nuova forza commerciale e finanziaria britannica. Altra conseguenza immediata: per la prima volta dopo questa guerra l’Inghilterra, la Banca d’Inghilterra, Londra, supera Amsterdam e diventa il nuovo centro finanziario europeo.

Quindi, notate bene, dominio militare sui mari, controllo della politica europea, rapporto privilegiato fra le due sponde dell’Atlantico, dominio dei centri finanziari: la globalizzazione nasce così, nasce nel 1763.

Su questa linea ci si è mossi, perché se noi ripensiamo per un attimo alle altre guerre mondiali, che convenzionalmente chiamiamo prima e seconda, ma che dopo questa notizia noi dovremmo chiamare seconda e terza, cioè la prima guerra mondiale, ‘14-‘18, la seconda che datiamo ‘39, ma che sarebbe corretto far partire dal ‘36, perché la guerra mondiale inizia nel ’36 in Asia, prima che in Europa, con l’invasione giapponese in Cina – si persegue la medesima strategia. Se noi andiamo a vedere cosa succede, succede la stessa cosa, cioè si allargano dei mercati, si potenziano delle linee commerciali marittime a cui si aggiunge la forza aerea, che, come si è visto nell’esperienza della guerra in Irak, diviene fondamentale: di fatto le forze alleate hanno vinto l’Irak prima di impegnarsi in un conflitto terrestre, e lo hanno vinto perché lo strapotere tecnologico aereo ha permesso di arrivare a questo.

Non è un caso che la terza dimensione della globalizzazione sia spaziale, come punta di lancia strategica dello sviluppo militare nord-americano, e che l’ufficiale americano che ha diretto le operazioni aeree durante la guerra del Golfo nel 1991 (che ha scritto un libro tradotto in italiano molto interessante) sia divenuto il comandante in capo del neo-costituito U.S. Space Command. Non è un caso che Bush intenda creare un sistema di difesa anti-missile che mette a repentaglio il controllo degli armamenti, perché viola clamorosamente il trattato contro i missili balistici: quindi in realtà pone le premesse per un ripartire della corsa agli armamenti, ma lo fa perché il mondo anglosassone ha acquisito, durante 250 anni di storia, il dominio totale della dimensione spaziale, prima sui mari, poi nell’aria, adesso nello spazio extraterrestre.

Questa è la caratterizzazione specifica della forza, del dominio anglosassone: nasce sui mari, nasce con la forza commerciale, nasce utilizzando forze terrestri degli altri: si preferisce in genere infatti che vada a morire qualcun altro. Non sono affermazioni polemiche, perché posso fare delle cifre: alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, che rappresentavano all’inizio il 5,7% della popolazione mondiale, nel ’45 mietevano un terzo del frumento di tutto il mondo, raccoglievano metà del cotone di tutto il mondo, fondevano il 55% dell’acciaio e dei metalli fondamentali, estraevano il 70% del petrolio, usavano il 50% del caucciù, generavano il 45% di energia elettrica, producevano il 60% dei manufatti, possedevano l’81% delle automobili, movimentavano l’83% degli aerei civili, e godevano del 45% del reddito annuo complessivo di tutto il mondo: il 5,7% della popolazione mondiale.

Quel fenomeno, che inizia nel 1763, nello spazio di due secoli porta l’erede, porta gli Stati Uniti come eredi della potenza anglosassone, a questo tipo di rapporti. Le due guerre mondiali insieme sono costate agli Stati Uniti un terzo dei caduti della Guerra Civile americana; infatti, mentre i loro alleati hanno avuto cinque milioni di morti nella prima e quaranta milioni di morti nella seconda guerra mondiale, gli statunitensi hanno avuto 133.000 caduti nella prima e 296.000 nella seconda.

Quindi la guerra l’hanno fatta fare agli altri, per capirsi bene; la guerra terrestre l’hanno fatta fare agli altri, hanno riservato a sé la forza strategica, che è forza economica; non è un caso che l’impegno fondamentale degli alleati, e in particolare degli Stati Uniti, nei confronti del mondo britannico, fu di tipo economico-finanziario. Così, alla fine della guerra l’americano medio mangiava il doppio di un non americano, il reddito nazionale in termini di beni superava del 57% quello di prima della guerra, e, al netto degli ammortamenti, i profitti delle società erano due volte e mezzo più alti degli altri. Questo per dire che la globalizzazione nasce come un fenomeno di penetrazione e di egemonia, se vogliamo.

Una egemonia che parte dalla capacità e dalla forza economica, finanziaria e commerciale: nasce nel segno economico, esattamente il segno economico di cui stiamo parlando oggi. Cioè, se ci fate caso, di globalizzazione si parla soltanto da un punto di vista economico, o per meglio dire, prima di tutto da un punto di vista economico. Quindi, se vogliamo, questa civiltà ha scelto il proprio metro di misura dell’egemonia. I romani l’hanno costruita in un certo modo, il mondo anglosassone crea una globalizzazione a propria misura: io su questo voglio insistere, perché vorrei che questo concetto fosse fissato, che la globalizzazione non è un fenomeno a beneficio di tutta l’umanità, la globalizzazione è l’affermazione di un certo tipo di civiltà e cultura, che è la civiltà e la cultura anglosassone, non è quella di tutti, e non è quella di altri.

E questo è un punto che io credo sia abbastanza interessante. Abbiamo visto anche che, di conseguenza, in questo senso, tutto quello che è sviluppo scientifico e tecnologico è stato in qualche modo piegato, è stato in qualche modo asservito a questa logica. In questo periodo si sta parlando molto della globalizzazione dal punto di vista delle questioni monetarie, della gestione del lavoro, però, appunto, come ho detto poco fa, si parla molto meno e questo è abbastanza significativo, appunto, di questa linea di sviluppo nello spazio che può avere conseguenze enormi sul piano militare, sul piano economico, sul piano commerciale. Quindi la tecnica segue le necessità strategiche dello sviluppo dell’egemonia del mondo anglosassone.

Ma pensiamo anche a tutto quello che riguarda le biotecnologie, noi come CLAR di Fano, insieme ad un’associazione di agricoltori di Urbino (Associazione Terre dell’Adriatico), abbiamo fatto nel corso dell’ultimo anno una serie di conferenze per sensibilizzare la gente sulla questione delle biotecnologie: delle biotecnologie non diamo una lettura, per capirsi, “verde”, o quantomeno non solo una lettura “verde”, ne diamo una lettura in termine di perdita di sovranità dei popoli rispetto alle proprie fonti alimentari, perché, se la biotecnologia ha dei rischi oggettivi sul piano ambientale (i semi transgenici hanno tutta una serie di rischi per la salute che hanno già dato degli effetti), vi è un rischio a nostro avviso ancora superiore, giacché diventano in realtà uno strumento di dominio sulla fonte di base dell’umanità, l’alimentazione.

E non è un caso che gli ambienti del Council of Foreign Relations spingono in questa direzione, e fanno in maniera molto semplice il seguente ragionamento: perché l’Italia deve produrre materia prima agricola che gli costa 10 a ettaro quando a noi in America costa 1 (teoria del cosiddetto vantaggio comparativo)? Noi siamo molto più bravi, comparativamente, a produrre: quindi smettete di produrre, produciamo noi e voi comprate da noi, comprate da noi a 1, vi avanza nove, e con quei nove cosa potete fare? Potete compare beni americani! – televisioni, elettrodomestici, automobili. Questo viene scritto. Vi posso esibire le pubblicazioni della Cargill, che è una delle più grosse multinazionali dell’agricoltura, tra l’altro anche del settore sementiero, (ora la parte sementiera l’ha ceduta a Monsanto). Nei suoi bollettini lucidissimi si dice: perché gli stati nazionali si preoccupano ancora, nel terzo mondo, di avere l’autosufficienza alimentare, ma che senso ha? Ma che smettessero di buttar via i soldi, comprate da noi che ve lo facciamo pagare poco, e con quello che vi avanza comprerete i nostri beni di consumo!

Attenzione signori, questa è la linea della mondializzazione anglosassone. È la linea con cui in nome di una presunta libertà di commercio, si tagliano alla radice le possibilità di autonomia, di sovranità e libertà politica, economica e culturale dei popoli: io non temo a dirlo, perché è storicamente dimostrabile. E non è un caso che Tony Blair, in un articolo pubblicato su Repubblica, dice, a proposito delle biotecnologie: la Gran Bretagna e il mondo anglosassone devono essere tecnicamente e scientificamente all’avanguardia delle biotecnologie, perché esse rappresentano il futuro dello sviluppo scientifico e del potere scientifico dell’umanità.

Allora attenzione, soffermiamoci su un punto: significa che non si sta più parlando di un’economia che serve per far mangiare la gente, che potrebbe anche andar bene, si sta parlando di una economia come strumento di potere, che è tutt’altra questione. Il libero commercio ha un senso, l’economia autonoma dalla politica avrebbe un senso, se fosse realmente autonoma dalla politica; ma nel momento in cui ci dovremmo accorgere, dopo 250 anni di storia, che in realtà un’economia siffatta serve come strumento per la creazione di un potere mondiale – allora diciamo no! Allora questo è un inganno, un inganno che gioca sulla libertà dei popoli.

E qui credo che sia oggi il momento anche di cominciare, per una questione di pari opportunità, si direbbe con linguaggio moderno, ad affrontare la questione di fondo, prendere il toro per le corna, giacché esiste culturalmente una ideologia della superiorità anglosassone! A noi hanno sempre parlato e continuano a parlarci, e c’è stata, di un’ideologia razzista in ambito tedesco, germanico, ma esiste una ideologia razzista che ha preso il nome più dolce di darwinismo sociale, in America.

«Mi sembra che Dio con infinita saggezza ed intelligenza prepari la razza anglosassone per un’ora che sicuramente verrà nel futuro del mondo. (…) Sta per giungere il momento in cui la pressione della popolazione sui mezzi di sussistenza sarà sentita qui come ora è avvertita in Europa e in Asia. Poi il mondo entrerà in una nuova fase storica: la competizione finale delle razze per cui è stata preparata la razza anglosassone. Molto prima che i milioni di uomini siano qui, la potente tendenza centrifuga propria di questa stirpe, e rafforzata negli Stati Uniti, si affermerà. Allora questa razza di energia incomparabile, con tutta la maestà del numero e la potenza della ricchezza – la rappresentante, speriamo, della maggiore libertà, del più puro cristianesimo, della civiltà più elevata – avendo sviluppato caratteristiche particolarmente aggressive destinate ad imporre le sue istituzioni sul genere umano, si diffonderà sulla terra. Se non leggo malamente, questa razza potente si diffonderà nel Messico, nell’America Centrale e Meridionale, nelle isole, in Africa e oltre. E può qualcuno dubitare che il risultato finale di questa competizione non debba essere infine la sopravvivenza della razza più adatta?»

Non lo scriveva Adolf Hitler, lo scriveva il reverendo Joshua Strong, nel 1885, in Our Country, un testo la cui edizione del 1891 negli Stati Uniti vendette 158.000 copie, quindi un best-seller, e questo testo è un testo di cui si è alimentata la classe dirigente nordamericana a partire dal presidente Theodore Roosevelt, che è uno dei sostenitori pubblici della cosiddetta teoria del “destino manifesto”, di cui questa è una fra le molte fonti, e che giustificò in realtà l’alleanza con la Gran Bretagna e la difesa degli interessi britannici: una difesa molto acuta, molto da investitori, perché in realtà in due guerre, tutta la forza britannica è stata risucchiata dagli Stati Uniti, perché comunque commercianti erano e quindi hanno saputo fare un buon affare.

Ma l’idea di fondo era questa, e cioè che in realtà il mondo anglosassone aveva una missione, un’investitura divina, cioè una concezione da popolo eletto, signori miei. Ma questa è un’idea, voi mi direte, che è del passato. No. Se noi andiamo a leggere quello che scriveva il presidente Bush senior (per inciso: chi si è posto la domanda di una dinastia di presidenti nella prima democrazia occidentale?, non ho visto un commentatore che all’elezione di Bush jr. si sia fatto questa domanda.); bene, dicevo, Bush sr., quando parla alla fine della guerra in Irak del New World Order (il nuovo ordine mondiale), signori, sta facendo un discorso di questo genere.

Cos’è cambiato? Che alla fine dell’800 gli Stati Uniti erano là, oggi gli Stati Uniti sono la potenza egemone mondiale. Ma anche su questo avevano fin da allora le idee estremamente chiare, come vediamo se andiamo a leggere cosa scriveva il già citato presidente Theodore Roosevelt nel 1904, nel suo messaggio annuale al Congresso degli Stati Uniti:

«In caso di una cattiva condotta cronica, o di un’impotenza che produca in generale un allentamento dei legami della società civile, si dovrà alla fine, in America come altrove, richiedere l’intervento da parte di qualche nazione civilizzata, e nell’Emisfero Occidentale l’aderenza degli Stati Uniti alla dottrina Monroe obbligherà gli USA, benché riluttanti, in casi flagranti di questa cattiva condotta o impotenza, all’esercizio di un potere di polizia internazionale».

Questo per dire che quello che ha fatto Bush nel ’91 era quello che diceva di fare Roosevelt nel 1904, e Roosevelt lo diceva alimentato da questa concezione per cui «noi abbiamo agito nei nostri propri interessi, e nello stesso tempo nell’interesse più ampio dell’umanità».

Vivaddio, ci mancherebbe! Noi interveniamo, ma non interveniamo solo per noi, lo facciamo in nome dell’umanità. E qui arriviamo ad un punto che è molto interessante, e cioè il fatto che la creazione di un potere mondiale in mano a questa civiltà richieda obbligatoriamente due aspetti per essere in qualche modo giustificabile, per essere in qualche modo legittimato. Dovendosi riconoscere, e penso che obiettivamente lo si debba riconoscere, che questa linea di potere non è comunque democraticamente giustificata, e mi si deve dimostrare il contrario, perché le élite che hanno creato queste strategie, sono élite miste, dove voi trovate, e sarebbe uno studio da fare, e mi meraviglia che anche tutto un certo ambiente culturale che si è molto dilettato di anti-americanismo non abbia fatto il primo, direi unico, lavoro che si deve fare: prendersi le carriere e le biografie di, direi, mille autorevoli personaggi americani, dal 1901 ad oggi, e scopriremmo che realmente la politica americana è stata in mano nei momenti critici a 200 forse 250 persone, persone che noi prima troviamo a capo di un’industria, poi a capo di forze militari, poi a capo, come per Eisenhower, addirittura della presidenza degli Stati Uniti.

Questa capacità di svolgere ruoli su tre piani: cultura, economia e politica. Il cursus honorum, il corso di carriera del dirigente anglosassone continuamente incrocia interessi privati, interessi culturali, ed interessi economici. Altro che conflitto di interessi! E le élite americanizzate che il mondo anglosassone ha sempre costituito nei paesi che hanno dominato, e di conseguenza dobbiamo dire anche in Italia, élite filo-americane che badate bene, che passano trasversalmente a tutti gli schieramenti politici: voi in Italia trovate oggi un Veltroni ultra-appassionato, devoto della figura di J.F. Kennedy, figura di grande esponente dell’egemonia anglosassone a livello mondiale, investito di un’aureola di uomo pacifico che non corrisponde affatto a quello che lui è stato, oltre che essere stato un valoroso ufficiale della marina americana (e questo ovviamente è solo un merito, come uomo…), ma non si può dire che sia stato un pacifista. E li troviamo trasversalmente al centro, a sinistra, fino a destra. Ecco, sarebbe da fare uno studio di questo genere: quante delle nostre classi dirigenti europee sono in realtà classi dirigenti filo-anglosassoni, prima ancora che filo-atlantiche, perché ormai filo-atlantici sono tutti, compreso il presidente Putin!, tra un po’, tra qualche mese, qualche anno, non fosse che per salvarsi.

Ma certo è che queste classi dirigenti, cosa condividono del mondo anglosassone? Facciamoci questa domanda. Condividono due cose: una legittimazione di tipo giuridico (vedremo poi quale) e una legittimazione di tipo culturale. Questi sono i due pilastri su cui regge, diciamo così, tutto l’inganno. Io parlo di inganno, ma è un inganno per chi vuol farsi ingannare, perché basterebbe che nelle nostre scuole si studiasse la storia come Dio comanda, e queste cose che non sono sfuggite a me, non sfuggirebbero a nessun altro; basterebbe che nelle nostre scuole si studiasse la storia come deve essere studiata, senza cioè dei pregiudizi, si dicesse che esiste un razzismo anglosassone, e che addirittura, la dico grossa e me ne prendo la responsabilità, probabilmente ad una attenta indagine storica, si scoprirebbe che il razzismo tedesco ha origine proprio nel razzismo anglosassone. Badate bene, in questi autori si fa riferimento continuamente alle origini teutoniche della razza anglosassone! Quindi primi esaltatori del mondo teutonico sono stati i britannici, e ci sarebbe da capire poi strada facendo perché, chiudiamo la parentesi.

Cultura e legittimazione giuridica: ecco a cosa servono i G8! Ecco a cosa servono i WTO, ecco a cosa servono i Fondi Monetari Internazionali…, non servono assolutamente a niente. Ecco a cosa serve un tribunale come quello dell’Aja, lo dico, andremo controcorrente, non mi interessa, povero Milosevic, il quale sta dicendo «scusate, ma io quando mi avete incriminato era sessanta giorni che mi bombardavano, cosa dovevo fare? sparavo sui mie oppositori! L’avrà fatto più o meno legalmente, ma voi sparavate su di me».

Lo dico paradossalmente, è chiaro che la questione non è così semplice: però chiaramente un tribunale internazionale serve a dare una legittimazione giuridica ad un rapporto di forza, che può essere giustificato da un punto di vista geo-politico, può essere giustificato dal mantenimento di un ordine più generale, resta il fatto che è una legittimazione giuridica e legale di una vittoria militare. Ed è la prima volta che avviene nella storia, cioè la prima volta è stato Norimberga, si è sempre su quella linea, ci si tentò anche nel 1919 a Versailles, ma non ci si riuscì perché ancora c’era una diplomazia europea che non ragionava in termini anglosassoni, ragionava in termini forse del sano machiavellismo italico, per cui i rapporti di forza erano rapporti di forza, non ci si poteva ammantare della toga del giudice.

Quindi rapporti giuridici, e dall’altro, cultura. Sulla cultura bisogna che ci leggiamo un altro di questi sostenitori del Destino Manifesto. John Fiske, studioso, storico, divulgatore americano, nel 1885, sull’Harper’s New Monthly Magazine, una rivista abbastanza popolare americana, sentite cosa scrive, solo a mo’ di riflessione, l’articolo è intitolato Destino Manifesto, qui non ci sbagliamo, destino manifesto è quello della razza anglosassone, attraverso un esame molto più sofisticato, direi anche interessante:

«Le lingue parlate da queste grandi comunità (lui ha un’idea del popolo americano come punto di riferimento intorno a cui rimarranno gli altri popoli, però in questi termini) non saranno circondate da dialetti come le lingue dell’antica Roma, ma la continua intercomunicazione, e l’abitudine universale di leggere e scrivere, perpetuerà la loro integrità, e gli affari del mondo saranno trattati da persone che parlano Inglese con tale ampiezza che alla fine, qualunque linguaggio uno abbia imparato nella sua infanzia, troverà necessario prima o poi esprimere i propri pensieri in inglese».

1885. E noi abbiamo oggi dei governi che ci dicono: “inglese, internet e… impresa”, le tre “i”; cioè voglio dire, nel 1885 il destino manifesto era che il mondo per fare affari avrebbe dovuto esprimere i propri pensieri, attenzione, è una cosa seria, esprimere i propri pensieri in inglese. A questo stiamo arrivando, questo è il senso ultimo della globalizzazione. Lo vogliamo capire o non lo vogliamo capire, resta il fatto che è questo, secondo me.

Non vorrei tirarla molto per le lunghe, però qualche altra cosa occorre dirla. Voi mi direte, è semplice… queste forze in 250 anni sono passate dalla pace di Parigi fino al dominio mondiale, dai mari dell’oceano indiano fino allo spazio, e allora che si può fare? E qui secondo me viene fuori un punto molto delicato perché si rischia da un lato di passare per dei reazionari o peggio, dall’altro però si rischia di non vedere il punto della questione.

Allora io giorni fa, mi sono imbattuto in una singolare intervista che una figura piuttosto nota della cronaca degli anni ’70, cioè il professor Toni Negri, ha rilasciato al Corriere della Sera, presentando un singolare testo intitolato Empire, pubblicato, notate bene, in lingua inglese, negli Stati Uniti (a proposito di destino manifesto!), in cui in sostanza questo signore che qui viene definito il “cattivo maestro” da parte del Corriere della Sera, perché è alle origini (molti di voi sono giovani, magari non sanno), la famosa “autonomia operaia” di Padova, considerato uno degli incubatori del terrorismo di sinistra degli anni ’70: ecco questo signore che io mi aspettavo, viste le sue origini, che considerasse la globalizzazione un fatto negativo.

Premesso che questo testo, Empire, poi ho appreso da un articolo di Repubblica che sarebbe uno dei testi di riferimento degli anti-global, almeno di alcuni italiani, si citava espressamente da alcune delle figure eminenti delle tute bianche. In questo testo il nostro Toni Negri dice: ben venga l’impero. «La globalizzazione offre delle occasioni enormi per la moltitudine». L’intervistatore gli chiede: insomma, qual è il vostro referente? Toni Negri dice: la creazione di questo impero sopranazionale, creerà una moltitudine. L’intervistatore gli dice, «questo un tempo si chiamava popolo».

«La moltitudine è un insieme di singolarità, risponde Negri, il popolo è un concetto creato dallo stato capitalista, un concetto che abbiamo sottoposto ad una critica feroce: la moltitudine ridotta a partecipare a quello Stato. E il nome di nazione è una sua estensione melmosa e schifosa. La patria poi è aborrita nel nostro libro: milioni di persone sono morte in suo nome: le lotte operaie per fortuna ci hanno liberato dalla patria e dalla nazione. Si spera che non compaiano mai più. Per questo l’impero è benvenuto».

E questo mi ha fatto riflettere, perché se un anti-globalizzatore radicale, come si presenta e dovrebbe essere Toni Negri, che alimenta di queste idee pubblicate in lingua inglese le persone che poi, fisicamente, come sempre, vanno a rischiare in piazza (perché una delle caratteristiche di Toni Negri, così come degli americani, è di aver mandato sempre gli altri a rischiare, e quando è finito in galera poi ha trovato anche chi è riuscito a farlo uscire con mezzi perfettamente legali, mentre altra gente ci ha rimesso le penne… – e chiudo l’inciso), ecco questo signore ci dice «benvenuto l’impero», in nome di che cosa? In nome della distruzione dell’idea di popolo, primo, di patria, secondo, e di nazione, terzo.

Cioè i tre livelli che la storia moderna conosce come livelli di crescita della coscienza delle persone sull’idea di una collettività. Con tutti i loro difetti, con tutti i loro morti, con tutto quello che è successo, l’idea di popolo, leggete Michelet; l’idea di Nazione, leggete – anzi, leggeremo alla fine Mazzini, e l’idea di Patria, leggete chi vi pare – rappresentano comunque dei passaggi attraverso i quali l’individuo prende coscienza, attraverso la condivisione di una storia, attraverso la condivisione di un dovere, attraverso la condivisione di una cultura, attraverso la condivisione di una dignità di un popolo, dell’esistenza di una collettività: cose che non sono solo giuridiche, ma sono terra, carne e sangue, quindi sono cose vere, sono cose esistite, sono cose reali. Ed è su queste basi che si crea una continuità, che una storia si alimenta e che l’esistenza individuale assume un valore ultra-individuale.

Ecco perché io continuo a ritenere (a rischio di diventare passatista, o peggio) che in realtà non sia ancora compiuto il destino della Nazione, ma non in senso nazionalistico, sarebbe ridicolo oggi parlare di nazionalismo, non avrebbe più senso: però l’unica via attraverso la quale i popoli possono sperare di difendere la propria dignità, la propria libertà, la propria autonomia economica, per fare solo dei casi, passa necessariamente attraverso il senso di appartenenza ad una comunità, la vogliamo chiamare patria, chiamiamola patria; la vogliamo chiamare popolo, chiamiamolo popolo: non ho problemi, oltre tutto abbiamo una cultura europea sterminata su questo, che ci dà infinite chiavi di lettura, in senso tutt’affatto non reazionario dell’idea di patria: ecco, allora io dico, la direzione è questa, e noi abbiamo davanti un’occasione chiarissima: l’Europa, di cui parliamo e straparliamo, che verrà fuori adesso, notate bene, nel segno di una concezione di potere anche anglosassone, attraverso una moneta.

L’Europa è in realtà il banco di prova per una globalizzazione, o per la libertà dei popoli: se l’Europa riusciamo a interpretarla come Europa delle patrie, riusciremo a sottrarci a un dominio mondiale; se l’Europa la interpreteremo come un centro economico che ovviamente è già ampiamente colonizzato dal potere economico-finanziario multinazionale, cioè anglosassone, sicuramente non sarà che una delle componenti dell’impero.

E su questo io chiudo, per non annoiarvi e per lasciare spazio alle domande, con una citazione, poi dirò di chi è, un attimo di suspense:

«Senza patria voi non avete nome, né segno né voto né diritti né battesimo né fratelli fra i popoli. Bastardi dell’umanità, soldati senza bandiera, israeliti delle nazioni, voi non otterrete fede né protezione. Non vi illudete a compiere, se prima non vi conquistate una patria, la vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale, dove non è patria non è un patto comune al quale possiate richiamarvi, regna solo l’egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serva giacché non vi è tutela comune a propria tutela».

Questo è Giuseppe Mazzini.

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