Cibo è potere 2021

Esattamente 20 anni fa, CLAR organizzò un ciclo di incontri pubblici intitolato “Cibo è potere”: erano i primi anni della diffusione degli OGM, e la nostra impostazione si concentrava non solo e non tanto sugli aspetti salutistici quanto su quelli economici: in primo luogo il dominio delle multinazionali dell’agroalimentare.

Il fatto che il cibo, così come oggi i vaccini, rappresenti un fattore strategico per gli assetti del potere economico mondiale trova conferme ogni giorno di più: quello che abbiamo detto venti anni fa è dunque pienamente dimostrato dai fatti.

Lo afferma anche un lungo e documentato reportage del Guardian, di cui riportiamo una sintesi, rimandando il lettore al testo integrale, che presenta anche dati e grafici statistici estremamente illuminanti.

Oligarchi del cibo

Come abbiamo documentato altrove 1, i centri finanziari mondiali che controllano le quote di comando delle aziende agro-alimentari transnazionali, sono gli stessi che controllano anche le principali borse merci, i mercati di capitali, l’accaparramento delle terre (land grabbing) a livello globale – dando vita ad una ristretta oligarchia che oggi è in grado di orientare i principali flussi economici mondiali.

Secondo l’indagine congiunta del Guardian e di Food and Water Watch, è un piccolo gruppo di potenti aziende a controllare la quota di mercato di quasi l’80%, di dozzine di prodotti alimentari acquistati regolarmente dai consumatori americani.

Poche potenti aziende transnazionali dominano quindi ogni anello della filiera alimentare: dalle sementi e dai fertilizzanti ai mattatoi, ai supermercati, ai cereali e alle birre. La scelta dei consumatori è quindi in gran parte illusoria, nonostante gli scaffali dei supermercati sembrino offrire tantissime marche diverse.

Le dimensioni e l’influenza di queste mega-aziende consentono anche a queste aziende di imporre ai 2 milioni di agricoltori americani cosa coltivare e a quale prezzo, ed ai consumatori quali generi alimentari mangiare e a quale costo.

Significa anche che chi raccoglie, confeziona e vende il nostro cibo ha meno potere: almeno metà dei 10 lavori meno pagati negli Usa sono nell’industria alimentare. Gli allevamenti e gli stabilimenti di lavorazione della carne, ad esempio, sono negli Usa tra i luoghi dove il lavoratore è maggiormente sfruttato e in condizioni di minore sicurezza.

Cifre impressionanti

Nel complesso, solo 15 centesimi di ogni dollaro speso dai consumatori americani al supermercato va ai produttori agricoli: il resto va alla trasformazione ed alla commercializzazione dei prodotti agro-alimentari.

L’indagine di Guardian e Food and Water Watch ha preso in esame 61 prodotti alimentari tra i più diffusi ed ha rivelato che le maggiori aziende controllano in media il 64% del mercato: nell’85% dei generi alimentari analizzati, 4 aziende o meno controllano più del 40% della quota di mercato.

È ampiamente documentato in letteratura che i consumatori, gli agricoltori, le piccole aziende alimentari ed il pianeta sono in svantaggio se le prime quattro aziende controllano il 40% o più delle vendite totali.

La concentrazione industriale è ancora più profonda: 4 aziende o meno controllano almeno il 50% del mercato nel 79% dei generi alimentari.

Per quasi un terzo degli articoli della spesa, le prime aziende controllano almeno il 75% della quota di mercato.

Ad esempio, PepsiCo controlla l’88% del mercato nella fascia di prezzo economica, poiché possiede cinque dei marchi più famosi, tra cui Tostitos, Lay’s e Fritos. Il 93% delle bibite negli Usa è di proprietà di solo 3 società. Lo stesso vale per il 73% dei cereali da colazione consumati negli Usa, nonostante gli scaffali siano pieni di scatole diverse.

Per i consumatori può sembrare che nei negozi vi sia una scelta diversificata, ma la maggior parte dei marchi sono in realtà di proprietà di una manciata di giganti alimentari, tra cui Kraft Heinz, General Mills, Conagra, Unilever e Delmonte.

Kraft Heinz, ad esempio, risultato di una mega-fusione da 63 miliardi di dollari avvenuta nel 2015, sostenuta da Warren Buffett e da una società di private equity brasiliana, compare 12 volte tra le prime 4 aziende di generi alimentari, con prodotti che vanno dalla pancetta alla panna acida, al caffè, a surrogati della carne congelata, ai succhi di frutta.

Ad esempio, mentre gli alternativi e gli appassionati di birra vecchio stile hanno contribuito a un boom delle birre artigianali locali, la società belga Anheuser-Busch InBev, tra il 2011 e il 2020, ha acquisito 17 birrifici artigianali prima indipendenti: cosa che non risulta chiara ai consumatori dalle etichette, ma l’azienda possiede più di 600 marchi, inclusi quelli maggiormente preferiti Budweiser, Michelob e Beck’s.

Un’altra fonte di confusione sono le etichette private – cioè i marchi propri dei supermercati, di cui si sa poco su chi sia il vero produttore – che si collocano tra le prime quattro nel 77% dei generi alimentari presi in esame dall’indagine. Per la frutta congelata, come i frutti di bosco utilizzati per frullati e dessert, le etichette private rappresentano il 66% della quota di mercato, così come per il 56% del latte intero refrigerato e per il 54% delle vendite di uova.

L’intreccio con la politica

Il potere economico delle multinazionali ha contribuito al loro crescente potere politico, che a sua volta ha portato a leggi che antepongono i profitti alla sicurezza alimentare e dei lavoratori, ai diritti dei consumatori ed alla sostenibilità.

Durante la tornata elettorale del 2020, l’industria alimentare ha speso 175 milioni di dollari in contributi ai politici, comprese le attività di lobbying da parte di gruppi di sostenitori, individui e altri tipi di attivismo.

Il denaro proviene da ogni settore della catena alimentare: latticini, uova, pollame, lavorazione della carne, aziende agricole, canna da zucchero, produzione agricola e supermercati.

Circa due terzi sono andati ai repubblicani.

Il totale del 2020 è paragonabile a soli 29 milioni di dollari spesi durante la campagna elettorale del 1992, il che significa che le pressioni esercitate dall’industria alimentare sono aumentate di 6 volte in meno di tre decenni con il boom delle concentrazioni lungo la filiera dei prodotti agroalimentari.

Chi controlla la distribuzione

Fino agli anni ’90, la maggior parte delle persone faceva acquisti nei negozi di alimentari locali o regionali. Ora solo 4 società – Walmart, Costco, Kroger e Ahold Delhaize – controllano il 65% del mercato al dettaglio.

«Le fusioni dei supermercati scacciano i piccoli negozi di alimentari a conduzione familiare e le catene regionali. Secondo l’ufficio del censimento degli Stati Uniti, oggi abbiamo circa un terzo in meno di negozi di alimentari rispetto a 25 anni fa».

Poiché innumerevoli negozi a conduzione familiare hanno faticato a rimanere a galla durante le chiusure della pandemia, le entrate di Walmart USA hanno raggiunto i 341 miliardi di dollari, quasi il 3% in più rispetto all’anno precedente.

Le catene di alimentari e dei supermercati sono anche i principali beneficiari degli aiuti del governo agli americani che lottano per sfamare le loro famiglie. Nel 2020, l’82% di tutti i buoni pasto è stato speso in supermercati e superstore come Krogers, Walmart, Costco e Sam’s Club, il che significa che i cittadini hanno contribuito con 64 miliardi di dollari alle loro entrate.

Un’ondata di mega-fusioni ha fatto sì che gli impianti di confezionamento della carne sono ora controllati da una manciata di multinazionali, tra cui Tyson, JBS, Cargill e Smithfield (ora di proprietà della multinazionale cinese WH Group).

I fautori del capitalismo affermano che fusioni e acquisizioni generano efficienze che riducono i costi per gli agricoltori e avvantaggiano i consumatori mantenendo bassi i prezzi. Ma la stretta presa che queste aziende hanno sul settore ha come conseguenza che gli agricoltori hanno poca scelta su a chi vendere e su come allevare i loro animali.

I consumatori pagano di più, mentre i profitti per i mega-trasformatori di carne sono in forte espansione: nel 2020, l’azienda brasiliana JBS ha registrato entrate per 51 miliardi di dollari, con un aumento del 32% rispetto all’anno precedente. La Cina sta guidando gran parte della crescita dell’azienda, e JBS ha costituito il 50% delle esportazioni di carne bovina dagli Stati Uniti lo scorso anno.

I produttori tra contributi e prezzi imposti

Gli agricoltori Usa hanno ricevuto 424,4 miliardi di dollari di sussidi tra il 1995 e il 2020, di cui il 49% per solo tre colture: mais, grano e soia, secondo l’Environmental Working Group. I sussidi al mais sono di gran lunga i più consistenti – 116,6 miliardi di dollari – rappresentando il 27% del totale: più del 99% del consumo di questo prodotto è destinato a mangimi per animali, additivi come lo sciroppo di mais usato nel cibo spazzatura zuccherato, e, sempre più, per l’etanolo, che produce inquinanti atmosferici tossici se bruciato con la benzina.

È un paradosso, poiché i sussidi incentivano gli agricoltori a coltivare solo un gruppo limitato di colture, in tal modo inondando il mercato, abbassando i prezzi e restando così dipendenti dagli aiuti statali.

I prezzi delle materie prime hanno raggiunto il picco a metà 2012 e sono crollati di circa il 50% entro la fine del 2019.

Questa è una buona notizia per le grandi aziende, come quelle dei trasformatori di carne, poiché riduce i loro costi, mentre è negativa per molti agricoltori: l’indebitamento complessivo degli agricoltori Usa ha raggiunto livelli che non si vedevano dalla crisi agricola degli anni ’80.

Meno di un terzo delle aziende agricole, per lo più grandi, beneficia dei sussidi agricoli statali, in parte perché il sistema ha una lunga storia di discriminazione nei confronti degli agricoltori di colore e delle piccole aziende agricole senza tempo, risorse o competenze da dedicare alle applicazioni online.

Sfruttamento e inquinamento

Almeno la metà dei 10 posti di lavoro meno pagati negli Stati Uniti sono nell’industria alimentare, e dipendono in modo sproporzionato dai sussidi federali. Walmart e McDonald’s sono tra i principali datori di lavoro dei beneficiari di buoni pasto e Medicaid, secondo uno studio del 2020 condotto da un organo di controllo governativo non di parte.

Circa la metà della terra del pianeta e il 70% dei prelievi di acqua dolce sono destinati all’agricoltura, sempre più industrializzata.

L’agricoltura industriale è focalizzata sull’estrazione dei massimi profitti per i costi minimi: un modello di sfruttamento con gravi conseguenze per il benessere degli animali, l’acqua, la terra e il riscaldamento globale.

L’agricoltura è responsabile di oltre un quarto delle emissioni globali di gas serra, rendendo la produzione alimentare uno dei principali responsabili della crisi climatica. In generale, l’impronta di carbonio per gli alimenti di origine animale – manzo, agnello, pollo, formaggio – è superiore a quella per gli alimenti di origine vegetale, il che è dovuto principalmente alle conseguenze della deforestazione per creare spazio per coltivare colture foraggere, fertilizzanti utilizzati per questi colture ed emissioni di metano.

Negli Stati Uniti, nel 2017 c’erano 1,6 miliardi di animali che vivevano in 25.000 allevamenti intensivi, un aumento del 14% in soli cinque anni. Insieme, questi animali hanno prodotto circa 885 miliardi di libbre di letame all’anno, equivalenti alle acque reflue umane generate dai residenti di 30 città di New York.

Incentivare gli agricoltori a coltivare le stesse colture ha ridotto la produttività di alcune delle terre più fertili del paese, poiché la monocoltura impoverisce il suolo di sostanze nutritive e può portare a una significativa erosione. La pratica richiede fertilizzanti sintetici per compensare i nutrienti persi e pesticidi per combattere funghi e insetti predatori che prosperano in queste condizioni. Tradizionalmente, gli agricoltori hanno sempre adottato la rotazione di più colture perché è il modo migliore per garantire un suolo sano e buoni raccolti.

L’inquinamento delle falde dovute alle tecniche agrarie che utilizzano massicci input chimici è ora responsabile dell’80% dei nutrienti eccessivi nelle nostre acque dolci e negli oceani, che causano una crescita densa della vita vegetale come le alghe che impediscono all’ossigeno di raggiungere i pesci e altri animali.

Secondo la Lista Rossa IUCN, nel 2019, l’agricoltura e l’acquacoltura sono state identificate come una minaccia per 24.000 delle quasi 28.000 specie minacciate di estinzione.

Un modello fallimentare

Se davvero l’impegno per la salvaguardia della Terra e della salute degli esseri viventi che l’abitano è qualcosa di più di una moda, è evidente che il modello del capitalismo finanziario, con il suo patologico intreccio fra oligarchie finanziarie, gruppi politici e grandi conglomerati industriali, deve essere messo radicalmente in discussione.

Non è più sufficiente, come si è predicato per anni, l’attenzione del consumatore alle proprie scelte di acquisto, per determinare un effettivo cambiamento, soprattutto quando la cosiddetta asimmetria informativa rende obiettivamente difficile all’uomo della strada conoscere chi è il proprietario del marchio impresso sul prodotto che sta comprando: ancor più in quanto il consumatore subisce un costante bombardamento pubblicitario che vuole rendere automatiche e inconsce le sue scelte – con strumenti mediatici nei quali prevale chi grida più forte.

Venti anni sono passati dalle conferenze di Cibo è Potere: le esigenze di cui abbiamo parlato allora, oggi sono ancora più ineludibili.

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Note
  1. G. Sinatti, “Agricoltura e Globalizzazione, Tendenze e Conseguenze”, Rivista di Studi Urbinati, 71, 3-4 (2020), Università degli Studi di Urbino, pp. 365-383.