Palestina: sangue e menzogne

Sale ogni ora il bilancio dei pesanti attacchi che Israele, in spregio al diritto internazionale ed al diritto di guerra, sta conducendo contro la Striscia di Gaza: territorio da essa occupato, del quale, quindi, in quanto potenza occupante, dovrebbe garantire la sicurezza e la sopravvivenza civile ed economica.

Colpire periodicamente la Striscia di Gaza con forze enormemente preponderanti è invece divenuto il ricorrente strumento con il quale lo Stato ebraico nasconde i propri gravissimi problemi di stabilità politica interna e riafferma che la propria posizione di potenza egemone del Medio Oriente è basata su puri rapporti di forza – fin tanto almeno che essi potranno essere mantenuti, grazie al supporto politico degli Stati Uniti d’America ed all’ipocrisia dell’Unione Europea.

Ma riteniamo se possibile ancora più grave il fatto che, di anno in anno, i media internazionali, compresi in prima linea quelli italiani, si allineano costantemente al punto di vista israeliano, con metodica distorsione dei fatti, contando sulle oggettive difficoltà di acquisire informazioni non condizionate sulla situazione della Terra Santa.

Si tratta di una ben costruita alternanza di informazioni taciute e di notizie false: una tecnica che dimostra come i principali propalatori di fake news (menzogne, in buon italiano) siano oggi le grandi catene mediatiche internazionali, acriticamente seguite da tv, radio e giornali nelle province del grande impero occidentale, tra cui l’Italia, che riesce a distinguersi da qualche anno per la particolare faziosità – probabilmente a causa della crescente capacità di Israele di condizionare la posizione internazionale del nostro Paese.

Vogliamo pertanto limitarci qui di seguito a fornire una ricostruzione dei nudi fatti, nel momento in cui le cifre danno un bilancio di 56 vittime palestinesi (fra cui 14 bambini, compresi neonati), a fronte di 4 vittime civili e 1 militare israeliani, 1 cittadino di nazionalità indiana.

Come premessa, occorre ricordare che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanhyau, ha come prima cosa ripetutamente affermato il diritto dello Stato d’Israele di fare di Gerusalemme, in quanto proclamata «capitale eterna dello Stato ebraico», una città interamente ebraica, dando così un fondamento politico al proposito di vera e propria pulizia etnica della città, della quale si incaricano operativamente i coloni israeliani appartenenti alle fazioni religiose integraliste e dell’estrema destra, cui Netanhyau strizza da sempre l’occhio, strumentalizzandone utilmente il fanatismo.

Lunedì 12 aprile, la polizia israeliana ha bloccato la cosiddetta “scalinata di Damasco”, i gradini che circondano la Porta di Damasco, ingresso principale della Città Vecchia di Gerusalemme, centro nevralgico della vita pubblica palestinese, luogo dal valore simbolico sul piano religioso, ma anche fondamentale e indispensabile per la vita sociale della comunità palestinese – sopratutto, si noti, in questi giorni di inizio del Ramadan.

Giovedì 22 aprile, il movimento di estrema destra israeliano Lahava, che da tempo il premier Netanhyau sostiene apertamente, marcia alle porte della Città Vecchia di Gerusalemme, intonando inni che ripetono come ritornello “morte agli Arabi”: una manifestazione evidentemente orchestrata come aperta provocazione contro i Palestinesi, che non si sarebbe potuta realizzare senza il consenso, quanto meno tacito, del governo israeliano.
I Palestinesi a questo punto organizzano una contro-manifestazione, con la presenza di membri dell’Autorità Palestinese, che dovrebbe controllarne il regolare svolgimento. Le due manifestazioni, al momento dell’uscita dei fedeli musulmani dalla Spianata delle Moschee, luogo sacro islamico, dopo la preghiera notturna del Ramadan, si scontrano, dando vita a durissimi incidenti fra gli uomini di Lahava ed i Palestinesi.
Gli scontri vanno avanti tutta la notte, e portano, secondo i dati resi noti dalla Mezzaluna Rossa l’indomani, a 105 feriti, di cui 20 trasferiti in ospedale, ed all’arresto di 44 persone.

Lunedì 3 maggio, scoppiano altri scontri nel quartiere di Sheik Jarrah [nostro approfondimento] vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme: qui si sta svolgendo una manifestazione di solidarietà con le ultime famiglie palestinesi rimaste in questo quartiere, delle quali i coloni ebrei hanno chiesto l’allontanamento, ottenendo lo scorso gennaio una pronuncia favorevole da parte della Corte Distrettuale di Gerusalemme, contro la quale i Palestinesi hanno fatto ricorso – del quale si attende l’esito, da parte della Suprema Corte israeliana, proprio in quelle ore: esito che sarà più volte rinviato.

Giovedì 6 maggio, sono numerose le prese di posizione internazionali, che invitano Israele a «porre fine alla sua politica di estensione degli insediamenti nei territori palestinesi occupati», in quanto illegale, e di conseguenza a fermare gli sgomberi delle famiglie palestinesi residenti a Gerusalemme Est. Invece, un membro dell’estrema destra della Knesset israeliana, Itamar Ben Gvir, visita il quartiere di Sheik Jarrah per manifestare il proprio pieno sostegno ai coloni israeliani, di cui ha sempre sostenuto le posizioni, incluse quelle più violente.
I Palestinesi reagiscono colpendo la tensiostruttura destinata ad essere il nuovo ufficio parlamentare di Ben Gvir.

Venerdì 7 maggio, in occasione dell’ultima grande preghiera del venerdì del mese di Ramadan, decine di migliaia di Palestinesi si riuniscono nella Spianata delle Moschee, per protestare contro l’allontanamento delle famiglie palestinesi da Sheik Jarrah. Mentre ancora la preghiera non è terminata, alcuni Palestinesi lanciano sassi e bottiglie dal tetto della Moschea di al-Aqsa contro le ingenti forze della polizia israeliana lì schierata. L’intervento di quest’ultima, con gas lacrimogeni e proiettili di gomma, porta all’occupazione della moschea ed all’evacuazione violenta dei fedeli, fatto questo che accresce ulteriormente la rabbia dei Palestinesi.
In questa occasione, il presidente della cosiddetta Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, afferma la responsabilità d’Israele per quanto sta avvenendo nella Città Vecchia di Gerusalemme, solidarizzando con i manifestanti palestinesi. Il bilancio è di 205 palestinesi e 17 israeliani feriti.

Lunedì 10 maggio, dopo ulteriori scontri, la situazione a Gerusalemme si infiamma ancor di più quando si apprende che l’annuale marcia dell’estrema destra israeliana, celebrativa del “giorno di Gerusalemme”, cioè della conquista della città nella Guerra dei Sei Giorni, questa volta attraverserà la Città Vecchia.
La polizia israeliana interviene in mattinata con un improvviso raid preventivo, arrivando a sparare gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti anche all’interno delle moschee di Qibly e di al-Aqsa: i feriti palestinesi sono 180.
A questo punto, Hamas da Gaza lancia un ultimatum allo Stato di Israele, minacciando di rompere la tregua in atto se entro le 6 del mattino seguente le forze israeliane non si ritireranno dall’area di al Aqsa e da Sheik Jarrah.

Martedì 11 maggio, Hamas inizia il lancio di circa 200 razzi dalla Striscia di Gaza contro Israele, che, come detto sopra, provocano due vittime civili israeliane. Il sistema di difesa anti-missile israeliano Iron Dome intercetta un numero imprecisato di questi razzi.
Israele, per parte sua, inizia a colpire con attacchi aerei la Striscia di Gaza, provocando le prime 26 vittime fra i Palestinesi: un bilancio destinato, come si è visto, a crescere rapidamente.
Il premier Netanhyau afferma che «l’intensità e la frequenza degli attacchi [israeliani] su Gaza aumenterà». Il leader di Hamas, Ismail Haniya, comunica che l’organizzazione è pronta a resistere all’escalation israeliana: se viceversa Israele vorrà fermarsi, Hamas è pronta a farlo anch’essa.

Mercoledì 12 maggio, il fatto nuovo è costituito dallo stato di emergenza istituito dalle autorità israeliane nella città di Lod, dove risiede la maggiore comunità di Palestinesi cittadini dello Stato ebraico, oltre 70mila: un Palestinese è stato colpito a morte, mentre veicoli israeliani sono stati dati alle fiamme.
Il sindaco della città parla apertamente del rischio concreto di una «guerra civile». Si tratta di un aspetto assai grave della crisi attuale, in quanto è la prima volta da 66 anni a questa parte che viene adottato un provvedimento del genere nella città israeliana. Se ciò dovesse indicare che la resistenza palestinese potrebbe assumere forme violente anche nelle città dello Stato ebraico dove sono ancora presenti comunità miste, ci troveremmo dinanzi ad una situazione ancora più pericolosa.
L’uccisione “mirata” di un ufficiale di grado elevato di Hamas a Gaza, Bassem Issa, avvenuta nella mattinata, insieme ad altri non precisati comandanti del movimento di resistenza palestinese nella Striscia, non è certamente destinata a pacificare la situazione. Il corrispondente di Al Jazeera, Harry Fawcett, ha infatti affermato che l’uccisione di diversi responsabili militari di alto livello di Hamas durante questi attacchi aerei è un «colpo importante», e che il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha assicurato che molti altri seguiranno.

Questi, in forma estremamente sintetica, i fatti. Lasciamo ovviamente al lettore crearsi una sua opinione in merito.

Per parte nostra, rileviamo con vivo interesse le roboanti prese di posizione dei vari Matteo Salvini e Matteo Renzi a favore dello Stato di Israele, nel momento in cui esso sta commettendo delle palesi violazioni del diritto delle genti.

Consigliamo ai due esponenti politici, che davvero ben rappresentano la classe dirigente del nostro Paese, di recarsi quanto prima nella Striscia di Gaza, approfittando delle nuove regole sulle riaperture e sugli spostamenti all’estero: potrebbe darsi che un breve soggiorno in queste ore in quell’area schiarisca loro le idee, più di quanto possa loro avvenire continuando meritatamente a sedere negli scranni di Montecitorio.

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