I Trenta Draghi

Una delle domande centrali sull’attuale situazione italiana riguarda le ragioni vere della collocazione come capo del governo italiano di Mario Draghi. Il mainstreaming, per giustificare il fatto che egli non sia stato eletto dal popolo, ne ha celebrato le qualità di banchiere, presentandolo come il salvatore del Paese.

Complotti palesi

La realtà è assai più prosaica. La documentiamo in questo articolo, premettendo che non ci allineiamo alle teorie complottiste, per la semplice ragione che il dominio strategico dell’alta finanza nella storia contemporanea, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, è da tempo un dato di fatto: tanto evidente e documentato che parlare al riguardo di complotti è possibile solo per quanti non hanno mai aperto un libro di storia.

Un’autorevole e indiscutibile conferma di quanto stiamo dicendo viene da un gruppo di autorevolissimi esponenti di quella classe dirigente finanziaria mondializzata che, a partire dagli accordi di Bretton Woods del 1944, ha disegnato le linee di sviluppo economico e finanziario del mondo contemporaneo.

Il Gruppo dei Trenta

Parliamo del Gruppo dei Trenta, che opera alla luce del sole, tra l’altro pubblicando interessanti studi e analisi. Facciamo alcuni dei loro nomi, ricavabili dal sito web ufficiale dell’organismo:

  • Jacob A. Frenkel, presidente del gruppo, ex governatore di JPMorgan Chase International, ex governatore della Banca centrale di Israele.
  • Jean-Claude Trichet, presidente onorario del gruppo ed ex-presidente dalla Banca Centrale Europea, governatore onorario della Banca di Francia.
  • Mark Carney, inviato special delle NU per le questioni climatiche e finanziarie, ex governatore della Banca di Inghilterra e della Banca del Canada.
  • Timothy F. Geithner, presidente di Warburg Pincus, ex Segretario di Stato del Tesoro USA e della Federal Reserve Bank of New York.
  • Philipp Hildebrand, vicepresidente di BlackRock, ex presidente del consiglio direttivo della Banca Nazionale Svizzera.
  • Paul Krugman, professore emerito, membro del Consiglio dei consulenti economici del governo USA.
  • Lawrence H. Summers, professore della Charles W. Eliot University, Harvard University, ex direttore del National Economic Council sotto la presidenza di Barack Obama, ex Segretario del Tesoro USA.
  • Masaaki Shirakawa, professore, ex-governatore della Banca del Giappone.
  • Axel A. Weber, presidente UBS, ex-presidente della Deutsche Bundesbank.
  • Yi Gang, governatore della People’s Bank of China.
  • Domingo Cavallo, ex ministro dell’Economia, Argentina.
  • Leszek Balcerowicz, ex presidente della Banca Nazionale di Polonia.
  • Abdlatif Al-Hamad, ex presidente dell’Arab Fund for Economic and Social Development, nonché ex ministro delle Finanze e della Pianificazione del Kuwait.
  • Richard A. Debs, membro del Bretton Woods Committee, ex presidente di Morgan Stanley International.
  • Jacques de Larosière, ex presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), direttore operativo del Fondo Monetario Internazionale ex governatore della Banca di Francia.
  • Stanley Fischer, consigliere anziano per BlackRock, vicepresidente del consiglio dei governatori della Federal Reserve, ex governatore della Banca di Israele.

A questa lunga lista (non completa per amore di brevità), aggiungiamo appunto il nostro Mario Draghi, presentato sul sito del Gruppo dei Trenta come ex presidente della Banca Centrale Europea, del consiglio direttivo della Banca per i Regolamenti Internazionali (BRI), ex governatore della Banca d’Italia ed ex vicepresidente di Goldman Sachs International.

Un documento strategico

Balza agli occhi infatti che nel Gruppo dei Trenta sono presenti al massimo livello personaggi che provengono da tutti i continenti, da tutti i regimi, Cina inclusa – ma con la sola, significativa assenza, della Russia di Vladimir Putin: hanno in comune il fatto di essere stati o essere al vertice delle più grandi organizzazioni finanziarie del mondo, avere avuto incarichi politici ai massimi livelli in diversi Stati, avere un piede (spesso due) nel mondo accademico degli economisti.

Abbiamo fornito questi dettagli solo allo scopo di dimostrare che il documento di cui ci occupiamo, intitolato Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid, Designing Public Policy Interventions, pubblicato nel dicembre 2020 a Washington D.C., Usa, dove ha sede legale il Gruppo dei Trenta, delinea quelle che saranno le politiche future che i più autorevoli esponenti del mondo del capitalismo globalizzato intendono imporre ai governi, democratici e non, del mondo.

Importante è anche il fatto che il team che ha realizzato questo documento del Gruppo dei Trenta è stato per l’appunto coordinato dal nostro Mario Draghi.

Lo studio presenta numerosi dati relativi alla crisi delle imprese a seguito dell’emergenza pandemica, in particolare con un utile raffronto di cifre fra la crisi finanziaria del 2007 e quella del 2020.

L’indebitamento delle imprese non-finanziarie (si noti), nel 2007 era del 73% del PIL; nel 2020 sale al 91%. L’indebitamento delle famiglie, che nel 2007 aveva raggiunto il 57% del PIL, nel 2020 si attesta al 60%. Il debito pubblico, pari nel 2007 al 58% del PIL, ha toccato l’88% nel 2020.

Nel documento si citano poi i dati di uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), la quale ha stimato che, qualora i ricavi delle imprese non finanziarie del 2020 diminuissero del 25%, e le imprese non siano in grado di rinnovare il loro debito, le loro riserve di liquidità e le loro entrate saranno superate dal servizio del debito e dai costi operativi in più della metà delle società prese in esame, in un campione relativo a ben 26 paesi.

L’alta finanza al governo

È quindi evidente che il problema attuale offre una storica opportunità agli strateghi del capitalismo finanziario mondializzato: l’enorme indebitamento mondiale di imprese e governi, promosso senza tregua dalle politiche delle grandi istituzioni finanziarie, aggravandosi ora con il blocco produttivo e commerciale conseguente alla crisi pandemica, pone oggi aziende e Stati più che mai in posizione subordinata rispetto ai detentori del capitale finanziario mondiale.

Ed è quindi del tutto logico che oggi questi ultimi ritengano necessario e possibile, per il sistema finanziario internazionalizzato, di assumere anche il controllo diretto del governo dei Paesi. È questa la ragione per cui uomini come Mario Draghi vengono inviati “in missione”, assumendo direttamente il governo di Paesi chiave come l’Italia, nel quale sperimentare quanto poche settimane prima è stato analizzato e teorizzato in un documento come quello cui facciamo riferimento.

Solo gli Italiani dimenticano infatti l’importanza geopolitica, culturale e di modello, a livello mondiale, del nostro Paese – un’importanza che non è tuttavia mai sfuggita ai lay strategist, quanto meno dalla fine della Prima Guerra Mondiale in poi.

L’importanza dell’Italia

Basti pensare a taluni elementi essenziali del modello economico dell’Italia: il suo essersi costruita come potenza economica, sia pure attraverso complesse e contrastate vicende, amalgamando un tessuto minuto e denso di piccole imprese artigiane con le imprese capaci di raggiungere una rilevanza mondiale; l’avere armonizzato l’intervento dello Stato con l’estesa diffusione della libera impresa, anche individuale; i tentativi di realizzare sinergie produttive e commerciali in modo indipendente dalle fratture politiche, ad esempio cercando un’apertura al mondo comunista e a quello arabo-islamico durante la Guerra Fredda – solo per menzionare il periodo post-bellico.

Oramai l’Italia, dalla fine degli anni Novanta del Novecento, ha rinunciato ad ogni suo residuo potenziale alternativo al modello del capitalismo occidentale: ed è quindi possibile fare a meno di ogni strategia indiretta, utilizzata in passato, per affermare anche nel nostro Paese, in modo inequivoco, l’egemonia dell’indirizzo economico, politico e culturale vittorioso dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la caduta del comunismo.

Oggi è quindi possibile imporre direttamente, a capo di un governo nazionale, e domani forse a capo di quello Stato Nazione, un esponente di punta dell’establishment. Cosa resa possibile anche dal fatto che il sistema politico italiano è ridotto ad un’accozzaglia di partitucoli corrotti, i cui incolori esponenti sono, o fingono di essere, del tutto ignari di come l’Italia potrebbe e dovrebbe invece collocarsi a livello mondiale.

Non vi è più del resto nemmeno un’opinione pubblica vitale, educata alla consapevolezza dell’importanza del nostro Paese, cosciente della sua identità storica, e quindi in grado di attivarsi verso direzioni e obiettivi alternativi rispetto a quelli proposti dal capitalismo dominante: come avvenne dopo la Prima Guerra Mondiale, ad esempio.

Gli ultimi oppositori sistemici sono finiti in Italia nelle patrie galere o si sono gioiosamente lasciati assorbire dall’élite partitocratica.

Distruzione creatrice

Non possiamo dunque stracciarci le vesti, se oggi l’oligarchia di questi Trenta Draghi disegna sulla pelle delle nostre imprese e delle nostre famiglie una strategia di sviluppo nella quale nessuno spazio è riservato alla sovranità popolare, alla dignità del lavoro nazionale, alla nostra complessa e ricca articolazione sociale, alla nostra elevata tradizione culturale.

Basti leggere il brano seguente del documento in questione:

«Adattarsi alle nuove realtà aziendali, piuttosto che cercare di preservare lo status quo. Il settore imprenditoriale che emerge da questa crisi non dovrebbe risultare esattamente come prima, a causa degli effetti permanenti della crisi e dell’accelerazione pandemica delle tendenze esistenti – come la digitalizzazione. I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni aziendali necessarie o auspicabili e gli adattamenti dell’occupazione. Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa” poiché alcune aziende si restringono o chiudono e ne aprono di nuove, e poiché alcuni lavoratori devono spostarsi tra aziende e settori, con un’adeguata riqualificazione e assistenza alla transizione. Tuttavia, anche i governi che sostengono tale adattamento in linea di principio potrebbero dover adottare misure per gestire i tempi della “distruzione creativa” per tenere conto degli effetti a catena di cambiamenti eccessivamente rapidi, come per i regimi di insolvenza da cui potrebbero essere sopraffatti».

È la questione fondamentale, che viene ripresa in un’apposito approfondimento all’interno del documento, relativa alle cosiddette “imprese zombie”, vale a dire le aziende «che non sono in grado di coprire i costi del servizio del debito con i profitti correnti, e che dipendono dai creditori per continuare la loro esistenza».

L’analisi che lì viene svolta, si conclude con questa eloquente chiusura:

«Piyush Gupta, CEO della banca DBS con sede a Singapore, prevede che la questione delle imprese zombie rappresenterà una vera sfida per le PMI e prevede un’ondata di inadempienze, che aggiungeranno pressione al settore finanziario, ponendo una domanda con cui i responsabili politici devono confrontarsi: continuare a usare le finanze pubbliche per sostenere le aziende [zombie] o lasciare che avvenga la distruzione creativa di Schumpeter?»

La domanda è lì puramente retorica.

La strategia del controllo

Spontaneo chiedersi a questo punto se, sulla base della distruzione creativa, che già giustificava le speculazioni monetarie di fine millennio, si decreta anche la morte di decine di aziende familiari, di piccole imprese artigiane, di piccoli e medi negozi, di micro-aziende agricole: travolte dalla crisi, affogate nel debito, chiuse da un anno. Nessuna pietà se non fanno parte della nuova élite creatrice!

Magari per lasciare spazio al dominio delle grandi multinazionali dell’intrattenimento, dei social media e dello smart working e learning, la cui ultima destinazione, economica e antropologica, è analizzata, con impressionante lucidità, nel brillante studio di un’economista finalmente indipendente, Ilaria Bifarini, Il Grande Reset.

L’Intelligenza Artificiale, come ultima declinazione di quella “società del controllo”, nella quale lo scopo ultimo della tecnologia è il dominio sul consumatore, in funzione di obiettivi disegnati da un pugno di multinazionali: dalle scelte di acquisto essi si sono via via estesi alle opinioni ed alle scelte politiche, ed ora giungono alle limitazioni della libertà individuale e della socialità. Alla vera dittatura tecnocratica.

Ma leggiamo ancora un brano:

«Bilanciare attentamente la combinazione di obiettivi nazionali più ampi con misure di sostegno alle imprese. Molti paesi sono interessati a utilizzare le loro risposte politiche alle crisi di solvibilità e liquidità per accelerare i cambiamenti strategici, come l’ecologizzazione dell’economia o la digitalizzazione. Questa è una scelta legittima, ma richiede un attento bilanciamento della volontà di orientare il processo di cambiamento contro la necessità di evitare di imporre vincoli eccessivi alle imprese in difficoltà o un’allocazione troppo ristretta del sostegno a un numero troppo limitato di settori di attività o aziende specifiche. In molti casi altre leve politiche possono essere più adatte al progresso degli obiettivi nazionali».

Bene, in maniera elegante ma nemmeno troppo dissimulata, viene affermata la volontà di questi master of the universe di assoggettare l’eventuale volontà di un popolo sovrano, di operare trasformazioni in relazione alle proprie peculiarità e specificità, alle grandi strategie globali dei grandi gruppi finanziari che oggi controllano, con livelli di concentrazione mai raggiunti prima nella storia, gli ambiti fondamentali di vita di una società umana: prodotti agro-alimentari, prodotti medici, tecnologie della comunicazione, mercati del denaro, del credito e delle assicurazioni.

Teniamolo presente, quando leggiamo la pianificazione che il governo del proconsole Draghi sta realizzando intorno alle enormi risorse del Recovery Fund.

Oro contro Lavoro

Terminiamo la nostra lettura, per mere ragioni di spazio, con questo fondamentale caveat:

«Anticipare potenziali ricadute sul settore finanziario per preservarne la forza e consentirgli di guidare la ripresa. Sebbene si tratti principalmente di una crisi delle imprese non finanziarie, il governo potrebbe dover intervenire per proteggere o rafforzare la capacità del settore finanziario di sostenere la ripresa economica. Inoltre, le scelte politiche dovrebbero evitare azioni che indebolirebbero in modo significativo il settore finanziario, come costringere le banche a concedere crediti inesigibili per sostenere l’economia».

Come a dire ai governi: toccate tutto ma non il mondo finanziario, vale a dire l’unico che sta facendo profitti mentre l’economia reale viene disintegrata dalla gestione terroristica della pandemia.

Molto eloquente il fatto che, esattamente gli stessi uomini che hanno propalato per decenni debiti destinati a diventare presto inesigibili a famiglie e imprese negli anni del boom dei subprime, oggi intimino ai governi di non sostenere le imprese non finanziarie, quelle che permettono la sopravvivenza di persone e famiglie, se la loro sopravvivenza mette a rischio il settore finanziario.

Tra il lavoro e il denaro, potremmo dire tra il lavoro e l’oro, i Trenta Draghi hanno da tempo scelto chiaramente: sappiamo cosa ci attende.

Non ci si dica che questa è democrazia: dove una ristretta oligarchia di tecnocrati della finanza detta le regole a governi e classi dirigenti, la sovranità popolare resta esclusa da qualsiasi possibilità di affermazione, di rappresentanza, di controllo, di intervento.

Il dominio delle esclusive ragioni del profitto, trasformantosi in potere politico, elimina la democrazia: per questo anche i comunisti cinesi ne possono condividere le scelte.

È forse arrivato il momento in cui gli economisti e gli specialisti, almeno quelli che cominciano tiepidamente ad avanzare critiche alla presunta scientificità dell’economia capitalista, si decidano a prendere posizione in modo netto e radicale: occorre affermare nettamente la necessità della partecipazione delle forze del lavoro al governo dei Paesi, l’esclusione dei partiti dal governo politico, la tutela rigorosa di un apiena autonomia della cultura, in primis scientifica, dall’economia e dalla politica.

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