I misteri dell’immunità (e della pandemia)

Concludiamo questo difficile anno 2020 pubblicando in sequenza due articoli che abbiamo scelto fra quelli comparsi nel corso dell’anno sulla questione pandemia, argomento su cui ci siamo sempre limitati a presentare punti di vista forse troppo trascurati dai media dominanti.

Qui di seguito un eccellente esempio di divulgazione scientifica sui molti punti che la scienza non è ancora riuscita a chiarire nel rapporto fra Covid-19 e sistema immunitario umano. Una lettura che suggerirebbe estrema prudenza rispetto a molte affermazione che abbiamo sentito e sentiamo ancora dare per scontate dai vari blasonati esperti e dai vari meno blasonati politici.

 

Il maggior mistero della pandemia è il nostro sistema immunitario

Ed Yong

C’è una barzelletta sull’immunologia, che mi ha raccontato di recente Jessica Metcalf di Princeton. Un immunologo ed un cardiologo vengono rapiti. I rapitori minacciano di sparare a uno di loro, ma promettono di risparmiare chiunque riesca a dare il maggior contributo all’umanità. Il cardiologo dice: «Beh, io ho identificato farmaci che hanno salvato la vita a milioni di persone». Colpiti, i rapitori si rivolgono all’immunologo. «Lei cos’hai fatto?» gli chiedono. L’immunologo risponde: «Il fatto è che il sistema immunitario è molto complicato…» E il cardiologo dice: «Sparami subito».

Il fatto è che il sistema immunitario è davvero molto complicato. Probabilmente la parte più complessa del corpo umano al di fuori del cervello, è una rete assurdamente intricata di cellule e molecole che ci protegge da virus pericolosi e da altri microbi. Questi componenti evocano, amplificano, irritano, calmano e si trasformano a vicenda: immagina migliaia di macchine di Rube Goldberg, alcune delle quali stanno facendo a pezzi le cose in modo aggressivo. Ora immagina che i loro componenti siano etichettati con quella che sembra una stringa di password altamente sicure: CD8 +, IL-1β, IFN-γ. L’immunologia manda in confusione anche quei professori di biologia che non sono immunologi: da qui la battuta di Metcalf.

Anche la parola immunità crea confusione. Quando gli immunologi la usano, vogliono dire semplicemente che il sistema immunitario ha risposto ad un patogeno, ad esempio producendo anticorpi o radunando cellule difensive. Quando tutti gli altri usano questo termine, intendono (e sperano) di essere protetti dalle infezioni, di essere immuni. Ma, fastidiosamente, una risposta immunitaria non fornisce necessariamente l’immunità nel significato colloquiale del termine. Tutto dipende da quanto sono efficaci, numerosi e durevoli quegli anticorpi e quelle cellule.

L’immunità, quindi, di solito è una questione di gradi, non di valori assoluti. Ed è al centro di molte delle più grandi domande sulla pandemia COVID-19. Perché alcune persone si ammalano gravemente e altre no? Le persone infette possono ammalarsi di nuovo dello stesso virus? Come si svilupperà la pandemia nei prossimi mesi ed anni? La vaccinazione funzionerà?

Per rispondere a queste domande, dobbiamo prima capire come reagisce il sistema immunitario al coronavirus SARS-CoV-2. Il che è un peccato perché, veramente, il sistema immunitario è molto complicato.

Funziona più o meno in questo modo.

La prima delle tre fasi prevede il rilevamento di una minaccia, la richiesta di aiuto ed il lancio del contrattacco. Inizia non appena un virus penetra nelle vie aeree e si infiltra nelle cellule che le rivestono.

Quando le cellule percepiscono molecole comuni ai patogeni e non comuni agli esseri umani, producono delle proteine ​​chiamate citochine. Alcune agiscono come allarmi, richiamando e attivando una squadra diversificata di globuli bianchi che attaccano i virus intrusi, inghiottendoli e digerendoli, bombardandoli con sostanze chimiche distruttive e rilasciando ancor più citochine. Altri impediscono direttamente la riproduzione dei virus (e sono deliziosamente chiamati interferoni). Questi atti aggressivi portano all’infiammazione. Rossore, calore, gonfiore, indolenzimento: questi sono tutti segni del funzionamento del sistema immunitario come previsto.

Questa serie iniziale di eventi fa parte di quello che viene chiamato il sistema immunitario innato. È veloce, in quanto si verifica in pochi minuti dall’ingresso del virus. È antico, utilizza componenti condivise dalla maggior parte degli animali. È generico, agisce più o meno allo stesso modo in tutti. Ed è ampio, si scaglia contro tutto ciò che sembra sia non-umano o pericoloso, senza preoccuparsi troppo di quale specifico agente patogeno sia in atto. Quel che manca in precisione al sistema immunitario innato, lo compensa con la velocità. Il suo compito è di arrestare un’infezione il prima possibile. In caso contrario, esso guadagna tempo per la seconda fase della risposta immunitaria: il coinvolgimento degli specialisti.

Nel bel mezzo di tutti i combattimenti nelle nostre vie aeree, le cellule messaggere catturano piccoli frammenti di virus e li trasportano ai linfonodi, dove i globuli bianchi altamente specializzati – i linfociti T – stanno aspettando. I linfociti T sono difensori selettivi e pre-programmati. Ognuno è costruito in modo leggermente diverso e viene fornito pronto per attaccare solo alcuni dell’infinità di agenti patogeni che potrebbero presentarsi. Per qualsiasi nuovo virus, abbiamo probabilmente un linfocita T da qualche parte, che potrebbe teoricamente combatterlo. Il nostro corpo deve solo trovare e mobilitare quella cellula. Immaginiamo i linfonodi come bar pieni di rudi mercenari cellule T, ognuno dei quali ha un solo tipo di bersaglio che è pronto a combattere. La cellula messaggero irrompe con una foto sgranata, mostrandola a ogni mercenario a turno, chiedendo: è il tipo che fa per te? Quando viene trovata una corrispondenza, il mercenario interessato si arma e si clona in un intero battaglione, che marcia verso le vie aeree.

Alcuni linfociti T sono assassini che fanno esplodere le cellule respiratorie infette in cui si nascondono i virus. Altri sono aiutanti, che rafforzano il resto del sistema immunitario. Tra i loro beneficiari, questi linfociti T aiutanti attivano i linfociti B che producono anticorpi, piccole molecole in grado di neutralizzare i virus intasando le strutture che usano per attaccarsi ai loro ospiti.
In parole povere, e questo sarà importante in seguito, gli anticorpi assorbono i virus che fluttuano all’esterno delle nostre cellule, mentre i linfociti T uccidono quelli che si sono già fatti strada all’interno. I linfociti T demoliscono; gli anticorpi ripuliscono.

Sia i linfociti T che gli anticorpi fanno parte del sistema immunitario adattativo. Questo ramo è più preciso del ramo innato, ma molto più lento: trovare e attivare le cellule giuste può richiedere diversi giorni. È anche di lunga durata: a differenza del ramo innato del sistema immunitario, quello adattivo dispone di una memoria.

Dopo che il virus è stato eliminato, la maggior parte delle forze dei linfociti T e dei linfociti B mobilitati si arrestano e muoiono. Ma una piccola frazione rimane di guardia: veterani della guerra al COVID-19 del 2020, trincerati all’interno dei vostri organi e di pattuglia sul vostro flusso sanguigno.
Questa è la terza e ultima fase della risposta immunitaria: tieniamo a portata di mano alcuni specialisti.
Se lo stesso virus attacca di nuovo, queste “cellule di memoria” possono entrare in azione e lanciare il ramo adattativo del sistema immunitario senza il solito ritardo di giorni. La memoria è la base dell’immunità, così come la conosciamo colloquialmente: una difesa duratura contro tutto ciò che ci ha precedentemente afflitto.

Questo resoconto è ciò che dovrebbe accadere quando il nuovo coronavirus entra nel corpo, in base alle conoscenze generali sul sistema immunitario e su come reagisce ad altri virus respiratori.

Ma cosa succede realmente? Bene, ahimè, il fatto è che il sistema immunitario è molto complicato.

In generale, la reazione del sistema immunitario alla SARS-CoV-2 è «quella che mi aspetterei se mi dicessero che c’è stata una nuova infezione respiratoria», dice Shane Crotty, dell’Istituto di immunologia di La Jolla. Il sistema immunitario innato si attiva per primo ed il sistema immunitario adattativo ne segue l’esempio. In diversi studi, la maggior parte delle persone infette sviluppa livelli ragionevoli di cellule T e anticorpi specifici del coronavirus. «La conclusione è che non ci sono grandi sorprese», afferma Sarah Cobey, epidemiologa dell’Università di Chicago.

Tuttavia, «Qualsiasi virus che può far ammalare le persone deve avere almeno un buon trucco per eludere il sistema immunitario», dice Crotty. Il nuovo coronavirus sembra fare affidamento sulla furtività precoce, ritardando in qualche modo il lancio del sistema immunitario innato e inibendo la produzione di interferoni, quelle molecole che inizialmente bloccano la replicazione virale. «Credo che questo [ritardo] sia davvero la chiave per determinare esiti positivi o negativi», afferma Akiko Iwasaki, immunologa a Yale. Crea una breve finestra temporale in cui il virus può replicarsi inosservato, prima che inizi a suonare il campanello d’allarme. Quei ritardi si verificano a cascata: se il ramo innato è lento a mobilitarsi, anche il ramo adattivo subirà un ritardo.

Molte persone infette eliminano ancora il virus dopo alcune settimane di sintomi sgradevoli. Ma altri no. Forse inizialmente hanno inalato una grande dose di virus. Forse il loro sistema immunitario innato era già indebolito dalla vecchiaia o da malattie croniche. In alcuni casi, anche il sistema immunitario adattativo ha prestazioni inferiori: i linfociti T si mobilitano, ma i loro livelli diminuiscono prima che il virus venga sconfitto, «quasi provocando uno stato di immuno-depressione», dice Iwasaki.
Questo duplice fallimento potrebbe consentire al virus di migrare più in profondità nel corpo, verso le cellule vulnerabili dei polmoni e verso gli altri organi, inclusi i reni, i vasi sanguigni, il sistema gastro-intestinale e quello nervoso. Il sistema immunitario non può attaccarlo, ma non smette di provarci. E anche questo è un problema.

Le risposte immunitarie sono intrinsecamente violente. Le cellule vengono distrutte. Vengono liberate sostanze chimiche dannose. Idealmente, quella violenza è mirata e controllata; come afferma Metcalf, «metà del sistema immunitario è progettato per disattivare l’altra metà». Ma se si lascia che un’infezione impazzisca, il sistema immunitario potrebbe fare lo stesso, causando molti danni collaterali, nei suoi tentativi prolungati e agitati di controllare il virus.

Questo è evidentemente ciò che accade nei casi gravi di COVID-19. «Se non riusciamo a eliminare il virus abbastanza rapidamente, siamo suscettibili di danni del virus al sistema immunitario», afferma Donna Farber, microbiologa della Columbia. Molte persone nelle unità di terapia intensiva sembrano soccombere ai danni delle proprie cellule immunitarie, anche se alla fine sconfiggono il virus. Altri soffrono di problemi polmonari e cardiaci duraturi, molto tempo dopo essere stati dimessi. Tali reazioni immunitarie eccessive si verificano anche nei casi estremi di influenza, ma causano danni maggiori nel COVID-19.

C’è un’ulteriore risvolto. Normalmente, il sistema immunitario mobilita diversi gruppi di cellule e molecole quando combatte tre ampi gruppi di agenti patogeni: virus e microbi che invadono cellule; batteri e funghi che rimangono fuori dalle cellule; e vermi parassiti. Solo il primo di questi programmi dovrebbe attivarsi durante un’infezione virale. Ma il team di Iwasaki ha recentemente dimostrato che tutti e tre si attivano in casi gravi di COVID-19. «Sembra un fatto completamente casuale», dice. Nel peggiore dei casi, «il sistema immunitario sembra quasi confuso su ciò che dovrebbe produrre».

Nessuno sa ancora perché questo accada, e perché solo in alcune persone. A otto mesi dalla pandemia, la varietà di esperienze del COVID-19 rimane un mistero irritante. Non è ancora chiaro, ad esempio, perché così tanti “portatori a lunga distanza” abbiano sopportato mesi di sintomi debilitanti.
Molti di loro non sono mai stati ricoverati in ospedale, e quindi non sono rappresentati negli studi esistenti che hanno misurato le risposte degli anticorpi e dei linfociti T. David Putrino dell’università medica Monte Sinai mi dice di aver intervistato 700 portatori a lungo raggio ed un terzo di essi era risultato negativo agli anticorpi, nonostante avesse sintomi compatibili con il COVID-19. Non è chiaro se il loro sistema immunitario stia facendo qualcosa di diverso di fronte al coronavirus.

Dovremmo aspettarci che tali misteri si chiariscano. La reazione del sistema immunitario al virus è una questione di biologia, ma la gamma di reazioni che vediamo effettivamente è influenzata anche dalla politica. Le decisioni sbagliate vogliono dire più casi, il che significa una più ampia varietà di possibili risposte immunitarie, il che significa una maggiore prevalenza di eventi rari. In altre parole, più peggiora la pandemia, più essa risulterà strana.

Alcuni modelli offrono possibili spiegazioni più facili. «I bambini hanno un sistema immunitario innato molto innato», afferma Florian Krammer, della Icahn School of Medicine di Monte Sinai, il che potrebbe spiegare perché raramente soffrono di infezioni gravi. Le persone anziane sono meno fortunate. Dispongono anche di riserve più piccole di cellule T cui attingere, come se il bar pieno di mercenari della metafora precedente fosse solo scarsamente popolato. «Ci vuole più tempo perché la risposta adattativa si mobiliti», afferma Farber.

Ci sono anche indizi preliminari che alcune persone potrebbero avere un grado di immunità preesistente contro il nuovo coronavirus. Quattro gruppi indipendenti di scienziati, con sede negli Stati Uniti, in Germania, nei Paesi Bassi e a Singapore, hanno ora scoperto che dal 20 al 50% delle persone che non sono mai state esposte a SARS-CoV-2 hanno nondimeno un numero significativo di cellule T in grado di riconoscerlo. Queste cellule a reattività crociata probabilmente sono emerse quando i loro proprietari sono stati infettati da altri coronavirus correlati, inclusi i quattro lievi che causano un terzo dei comuni raffreddori, e molti che infettano altri animali.

Ma Farber avverte che avere questi linfociti T a reattività crociata «non dice assolutamente nulla sulla protezione». È intuitivo pensare che sarebbero protettivi, ma l’immunologia si colloca là dove l’intuizione va a morire. I linfociti T potrebbero non fare nulla. Esiste una possibilità remota che possano predisporre le persone a malattie più gravi. Non possiamo saperlo con certezza senza reclutare molti volontari, controllare i loro livelli di cellule T e seguirli per un lungo periodo di tempo, per vedere chi viene infettato e quanto gravemente.

Anche se le cellule a reattività crociata sono benefiche, ricordiamoci che le cellule T agiscono facendo esplodere le cellule infette. In quanto tali è intanto improbabile che impediscano alle persone di venire infettate, ma potrebbero ridurre la gravità di tali infezioni. Questo potrebbe aiutare a spiegare perché, politica a parte, alcuni paesi hanno avuto più tempo a disposizione con il COVID-19 rispetto ad altri? Potrebbe spiegare perché alcune persone presentano solo sintomi lievi? «Puoi impazzire abbastanza in fretta con queste speculazioni», dice Crotty, che ha co-diretto uno degli studi che hanno identificato queste cellule a reattività crociata. «Molte persone si sono attaccate a questo e hanno detto che potrebbe spiegare tutto. Sì, potrebbe! Oppure non potrebbe spiegare nulla. È una situazione davvero frustrante quella in cui ci troviamo».

«Vorrei che non lo fosse», aggiunge, «ma il sistema immunitario è davvero complicato».

Uno dei misteri più urgenti è cosa succede dopo essere stati infettati e se potremmo esserlo di nuovo. Fondamentalmente, i ricercatori non sanno ancora quanta protezione potrebbero offrire gli anticorpi, i linfociti T e le cellule di memoria rimanenti, contro il COVID-19, o nemmeno sanno come misurarla.

A luglio, un team di ricercatori britannici ha pubblicato uno studio che mostra che molti pazienti con il COVID-19 perdono livelli sostanziali dei loro anticorpi capaci di neutralizzare il ​​coronavirus dopo pochi mesi. Un precedente studio cinese, pubblicato a giugno, ha raggiunto risultati simili. Entrambi hanno provocato una valanga di titoli allarmanti, che hanno suscitato il timore che le persone potrebbero essere infettate ripetutamente, o anche che un vaccino, molti dei quali funzionano preparando anticorpi neutralizzanti, non fornirà protezione a lungo termine.
Ma molti degli immunologi con cui ho parlato non erano particolarmente preoccupati, perché – e questa volta in modo rassicurante – il sistema immunitario è davvero complicato.

In primo luogo, cali nei livelli degli anticorpi sono previsti. Durante un’infezione, gli anticorpi vengono prodotti da due diversi gruppi di cellule B. Il primo gruppo è veloce e di breve durata e scatena rapidamente un enorme tsunami di anticorpi prima di morire. Il secondo gruppo è più lento ma di lunga durata e produce esplosioni di anticorpi più delicati che si riversano continuamente nel nostro corpo. Il passaggio dal primo gruppo al secondo comporta che i livelli di anticorpi di solito diminuiscano nel corso di un’infezione. «Non c’è niente di spaventoso in questo», dice Krammer.

Taia Wang di Stanford è un po’ meno ottimista. Mi dice che diversi studi, compresi alcuni recenti, mostrano costantemente che molte persone sembrano perdere i loro anticorpi neutralizzanti dopo un paio di mesi. «Se mi avessero chiesto di indovinare sei mesi fa, avrei pensato che sarebbero durati più a lungo», dice. «La durata non è quella che vorremmo.»

Ma «il fatto che tu non abbia anticorpi misurabili non significa che tu non sia immune», dice Iwasaki. I linfociti T potrebbero continuare a fornire immunità adattativa anche se gli anticorpi vengono eliminati. Le cellule B della memoria, se persistono, potrebbero ripristinare rapidamente i livelli di anticorpi anche se le scorte attuali sono basse. E, soprattutto, non sappiamo ancora quanti anticorpi neutralizzanti sono necessari per essere protetti contro il COVID-19.

Wang è d’accordo: «C’è un’idea corrente secondo la quale la quantità di anticorpi sia tutto ciò che conta, ma è più complicato di così», dice. «La qualità dell’anticorpo è altrettanto importante.» La qualità potrebbe essere definita in base alla parte del virus alla quale si attaccano gli anticorpi, o quanto bene vi si attaccano. In effetti, molte persone che guariscono dal COVID-19 hanno bassi livelli di anticorpi neutralizzanti in generale, ma alcuni di essi neutralizzano molto bene. «La quantità è più facile da misurare», aggiunge Wang. «Ci sono parecchi modi per caratterizzare la qualità, e non sappiamo quali siano rilevanti.» (Questo problema è anche peggiore per i linfociti T, che sono molto più difficili da isolare e analizzare degli anticorpi.)

Queste incertezze rafforzano la necessità di test ampi a accurati sui vaccini: in questo momento è difficile sapere se i segnali promettenti delle prime sperimentazioni porteranno effettivamente a una protezione sostanziale nella pratica. (Lo sviluppo e la distribuzione dei vaccini è un argomento per un altro articolo, che ha scritto la mia collega Sarah Zhang.) Gli scienziati stanno cercando di capire come misurare l’immunità COVID-19 studiando grandi gruppi di persone che sono state infettate naturalmente o hanno preso parte a test dei vaccini. I ricercatori misureranno e analizzeranno ripetutamente gli anticorpi ed i linfociti T dei volontari nel tempo, rilevando se qualcuno di loro viene nuovamente infettato.
Krammer prevede che i risultati richiederanno alcuni mesi, o forse fino alla fine dell’anno. «Non c’è modo di accelerarlo», dice. Perché … beh, lo sappiamo.

Nel frattempo, rapporti sommari hanno descritto presunte re-infezioni – persone che apparentemente contraggono COVID-19 una seconda volta e che risultano nuovamente positive al coronavirus dopo mesi di miglioramento. Tali casi sono preoccupanti, ma sono difficili da interpretare.
L’RNA virale, il materiale genetico rilevato dai test diagnostici, può rimanere a lungo in circolazione e le persone possono risultare positive per mesi dopo aver eliminato il virus vero e proprio. Se qualcuno in questi casi prendeva l’influenza e andava dal proprio medico, potrebbe essersi sottoposto nuovamente al test per il coronavirus, ottenere un risultato positivo ed essere erroneamente trattato come un caso di re-infezione.
«È davvero difficile dimostrare la re-infezione, a meno che non siano stati sequenziali i geni del virus» tutt’e due le volte, dice Iwasaki. «Nessuno dispone di questi dati ed è irragionevole aspettarselo.»

L’immunità dura tutta la vita per alcune malattie – varicella, morbillo – ma alla fine svanisce per molte altre. Mentre la pandemia si trascina, dovremmo aspettarci almeno alcuni casi in cui le persone che hanno battuto il COVID-19 debbano combatterlo di nuovo. Finora, il fatto che le re-infezioni siano ancora oggetto di fatti episodici suggerisce che «sta accadendo a un ritmo molto basso, se non affatto», dice Cobey. Ma ricorda: più grande è una pandemia più è strana. Quando ci sono quasi 5 milioni di casi confermati, qualcosa che si verifica solo nello 0,1% delle volte interesserà comunque 5.000 persone.

Se le persone sopportano un secondo incontro con il COVID-19, il risultato è di nuovo difficile da definire. Per alcune malattie, come la dengue, una risposta immunitaria a un’infezione può contro-intuitivamente rendere più grave l’infezione successiva. Finora, non ci sono prove che ciò accada con il SARS-CoV-2, afferma Krammer, che si aspetta che eventuali re-infezioni siano più lievi delle prime. Questo perché il coronavirus ha un tempo di incubazione più lungo, una finestra più ampia tra infezione e manifestazione dei sintomi, rispetto, ad esempio, all’influenza. Ciò potrebbe concettualmente fornire più tempo alle cellule della memoria per mobilitare una nuova forza di anticorpi e di cellule T. «Anche se ci sarà una perdita di immunità in futuro, non necessariamente dovremo affrontare di nuovo questa pandemia», dice Cobey.

Ciò che determinerà il nostro futuro con il virus è la durata dell’immunità protettiva. Per i coronavirus gravi, come la MERS e la SARS originaria, persiste per almeno un paio d’anni. Per i coronavirus più lievi, che causano il raffreddore comune, scompare entro un anno. È ragionevole supporre che la durata dell’immunità contro il SARS-CoV-2 rientri in questi estremi e che potrebbe variare molto, proprio come tutto il resto con questo virus. «Tutti vogliono sapere», dice Nina Le Bert del Duke-NUS a Singapore. «Non abbiamo la risposta.»

La maggior parte delle persone non è stata ancora infettata una prima volta, figuriamoci una seconda. L’incertezza immediata intorno al nostro futuro pandemico «non deriva dalla risposta immunitaria», dice Cobey, ma dalle «politiche che vengono messe in atto, e se le persone manterranno le distanze o indosseranno maschere». Ma per il prossimo anno e oltre, studi di modellizzazione hanno dimostrato che i dettagli precisi delle reazioni del sistema immunitario al virus e ad un futuro vaccino influenzeranno radicalmente le nostre vite. Il virus potrebbe causare epidemie annuali. Potrebbe spazzare il mondo fino a quando un numero sufficiente di persone verrà vaccinato o infettato, per poi scomparire. Potrebbe rimanere basso per anni e poi improvvisamente riprendersi. Tutti questi scenari sono possibili, ma la gamma di possibilità si restringerà quanto più cose apprenderemo sul sistema immunitario.

Questo sistema può essere estremamente complesso, ma è anche efficiente e resiliente, in un modo dal quale la nostra società potrebbe trarre degli insegnamenti. Si prepara in anticipo e impara dal suo passato. Manda via molti, nel caso in cui una qualsiasi difesa fallisca. Agisce velocemente, ma ha controlli ed equilibri per evitare reazioni eccessive. E, in generale, funziona e basta. Nonostante la moltitudine di minacce infettive che ci circondano costantemente, la maggior parte delle persone trascorre la maggior parte del tempo senza ammalarsi.

«È un sistema complicato», dice Iwasaki. «Ma penso che sia bellissimo.»

Fonte: Ed Yong, Immunology Is Where Intuition Goes to Die, The Atlantic, 5 agosto 2020.

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