Antitrust Usa contro Facebook per la privacy: chi vincerà?

L’economia di mercato esigerebbe che nel mercato vi fosse libera concorrenza. Ma, da sempre, il capitalismo ha portato con sé la ricerca della posizione dominante come opportunità per le imprese di controllare il mercato, massimizzando i profitti a danno dei consumatori e dell’innovazione.

Il movimento consumerista, diffusosi nel mondo occidentale a partire dagli anni Sessanta, ha cercato di tutelare i consumatori, così come le varie legislazioni anti-trust nate negli Stati Uniti fin dall’inizio del Novecento e poi variamente diffusesi.

Da allora le varie autorità di tutela e di anti-trust vengono presentate dai governi liberal-democratici come il presidio del mercato, la garanzia di un capitalismo rispettoso delle esigenze dell’anello più debole della catena, il consumatore appunto.

L’articolo che riportiamo, comparso sulla prestigiosa rivista statunitense Wired, che fa testo sulle problematiche delle ICT, dà notizie importanti sul più conosciuto dei social media contemporanei, il già molto discusso Facebook, con le sue usatissime appendici, Whatsapp e Istagram.
Crediamo sia utile per chiunque in Italia utilizzi i social media riportare queste informazioni, a dimostrazione di come le nuove tecnologie stiano rendendo sempre più difficile e capziosa proprio quella tutela del consumatore e quella libera concorrenza che l’economia capitalista teorizza tra le principali giustificazioni del suo presentarsi come il migliore dei mondi possibili.

 

La pistola fumante nell’azione antitrust contro Facebook
Gilad Edelman – Wired, 9 dicembre 2020

Immaginiamo un social network popolare che prende molto sul serio la privacy. Per impostazione predefinita, i post sono visibili solo alle persone che fanno parte del tuo gruppo di amici. L’azienda non solo non utilizza i cookie di tracciamento, ma assicura che non lo farà mai. Annuncia anche che future modifiche alla politica sulla privacy saranno messe ai voti dagli utenti prima dell’implementazione.

È difficile immaginarlo oggi, ma una volta esisteva un social network del genere. Si chiamava Facebook. Il percorso dell’azienda da startup incentrata sulla privacy a piattaforma di sorveglianza di massa è al centro del tanto atteso caso antitrust presentato oggi da un gruppo di 46 Stati [Usa], insieme al Distretto di Columbia e a Guam.

La coalizione bipartisan, guidata dal procuratore generale dello Stato di New York, Letitia James, afferma che Facebook ha raggiunto la sua posizione dominante attraverso una strategia pluriennale di tattiche anti-concorrenziali, comprese le acquisizioni di rivali in erba come Instagram e WhatsApp.

Mentre veniva via via costruendo questa posizione dominante, sostiene la causa, Facebook ha iniziato a offrire agli utenti un’esperienza di privacy sempre peggiore.

Anche la Federal Trade Commission [FTC, Agenzia governativa Usa che dovrebbe vigilare sulle pratiche anti-concorrenziali, N.d.T] ha intentato adesso una causa contro Facebook. I due casi, che sono stati presentati presso il tribunale federale del Distretto di Columbia, e che saranno probabilmente riuniti in uno, arrivano dopo più di un anno di indagini coordinate sulla società.

In una sua dichiarazione, l’avvocato generale di Facebook, Jennifer Newstead, ha definito le accuse nei procedimenti legali in atto come una «impostazione revisionista», sottolineando che la FTC aveva a suo tempo autorizzato le fusioni di Instagram e WhatsApp.

Può essere, ma non esiste alcuna regola “senza via d’uscita” nell’antitrust. La FTC del 2020 sembra avere una visione diversa della concorrenza online rispetto a sei anni fa. L’agenzia sta cercando rimedi coraggiosi, tra i quali quello di costringere Facebook a cedere Instagram e WhatsApp, acquisite rispettivamente nel 2012 e nel 2014.

Inoltre, queste cause sollevano una domanda che ha a lungo bloccato l’applicazione da parte dell’antitrust alle piattaforme tecnologiche: come si può dimostrare che le persone vengono danneggiate da un prodotto offerto gratuitamente? A giudicare dalla denuncia presentata dagli Stati, che è più approfondita di quella della FTC, la risposta dipenderà dalla questione della privacy.

A prima vista, privacy e antitrust potrebbero sembrare questioni separate: due capitoli diversi in un manuale sulla grande tecnologia. Ma il declino della tutela della privacy in Facebook gioca un ruolo centrale nell’azione legale sollevata dagli Stati. L’antitrust è un campo complicato, costruito su di una semplice premessa: quando un’azienda non deve affrontare una vera concorrenza, si troverà libera di fare “brutte cose”.

Nel caso di Facebook, la mancanza di concorrenza è facile da dimostrare. L’azienda è di gran lunga il più grande social network degli Stati Uniti e, grazie a Instagram e a WhatsApp, possiede due degli altri più grandi social mondiali.

La stessa Facebook si è vantata di questo nel 2011, affermando che «Facebook rappresenta ora il 95% di tutti i social media». Oggi, Facebook insiste invece sul fatto che deve affrontare una forte concorrenza da parte di tutto quello a cui una persona oggi può rivolgere la propria attenzione. Ma in genere non è comunque questo il modo con cui viene definito il mercato, dal punto di vista delle problematiche antitrust.

L’ostacolo più grande per l’applicazione dell’antitrust è fornire le prove di questi “cattivi comportamenti”, dimostrando non solo che Facebook ha costruito un monopolio, ma che il suo monopolio è stato dannoso. Dagli anni Settanta, la legge antitrust ruota intorno al cosiddetto standard del benessere dei consumatori, in base al quale un monopolio è considerato illegale solo quando danneggia i consumatori.

In pratica, ciò trasforma la maggior parte dei casi antitrust in discussioni sul fatto se una data fusione porterà o meno ad un aumento dei prezzi.

Lo standard del benessere dei consumatori è controverso – il sottocomitato antitrust della Camera ha suggerito di eliminarlo – ma per ora rimane legge negli Stati Uniti. Ciò rappresenta una sfida speciale nel caso appunto di un’azione legale contro un’azienda come Facebook, che non si fa pagare dagli utenti.

L’anno scorso ha segnato una svolta concettuale su questo piano. In un documento intitolato The Antitrust Case Against Facebook, la giurista Dina Srinivasan ha affermato che l’acquisizione da parte di Facebook del mercato dei social network ha inflitto un danno molto specifico ai consumatori: li ha costretti cioè ad accettare imposizioni sulla privacy sempre peggiori.

Facebook, ha sottolineato Srinivasan, è nata nel 2004 differenziandosi proprio sul piano della privacy. A differenza ad esempio di MySpace, allora dominante, nel quale, per impostazione predefinita, i profili erano visibili a chiunque – quelli di Facebook potevano essere visti solo dai propri amici o da persone della stessa istituzione scolastica, verificata attraverso un indirizzo email .edu. «Non utilizziamo e non utilizzeremo i cookie per raccogliere informazioni private da un utente», garantiva una prima dichiarazione da parte di Facebook sulla sua politica di privacy.

Con la crescita dell’azienda, ha sostenuto Srinivasan, Facebook ha cercato di fare marcia indietro sui suoi impegni in materia di privacy, ma ha dovuto affrontare la regolamentazione di un mercato che non aveva ancora messo alle strette.

Nel 2007, ha lanciato Beacon, un prodotto che gli consentiva di monitorare l’attività degli utenti anche quando essi erano fuori dal sito. Di fronte ad una violenta reazione – Beacon rendeva pubbliche le abitudini di acquisto dei propri contatti su NewsFeeds – la società ha dovuto bloccare Beacon nello stesso anno. Zuckerberg lo ha definito un “errore”.

Dopo che rivali come MySpace sono usciti di scena, Facebook ha avuto meno da temere. Oggi, il suo “pixel” [strumento di tracciamento di Facebook, N.d.T.] traccia gli utenti ovunque mentre navigano su Internet, proprio come faceva Beacon (benché senza gli sconsiderati post di NewsFeed).

Secondo Srinivasan, questo è solo uno dei tanti modi con cui Facebook ha annullato la protezione della privacy, una volta compreso che gli utenti non potevano spostare la loro attività altrove.

La teoria di Srinivasan ha fornito un’elegante soluzione teorica al rompicapo della questione del danno al consumatore, ma ha lasciato aperte alcune domande sul piano pratico: Facebook veramente guadagnava utenti sul mercato, in quanto offriva una migliore protezione della privacy? E ha poi davvero rinnegato questi suoi impegni semplicemente perché i leader dell’azienda pensavano di poterla fare franca?

L’azione legale attivata dal procuratore generale dello Stato fornisce nuove evidenze, che suggeriscono che la risposta a entrambe le domande è sì. Essa cita un rapporto interno del 2008 in cui l’azienda identificava i forti controlli sulla privacy come uno dei quattro pilastri della Facebook Secret Sauce [Ricetta segreta di Facebook]. Il rapporto osservava: «Gli utenti condivideranno più informazioni se verrà dato loro un maggiore controllo sulle persone con cui le stanno condividendo e su come lo fanno».

L’informazione più rivelatrice arriva nell’estate del 2011, quando la società si stava preparando a respingere la minaccia della piattaforma rivale di Google, Google Plus.

La denuncia cita un’e-mail in cui il direttore operativo di Facebook, Sheryl Sandberg, scriveva: «Per la prima volta, abbiamo una vera concorrenza ed i consumatori hanno una vera possibilità di scelta (…) dovremo essere migliori per vincere».

All’epoca, Facebook aveva pianificato di eliminare la possibilità per gli utenti di rimuovere i tag delle foto.
Un dirigente senza nome ha suggerito di cominciare a frenare al riguardo. «Se mai esiste un momento per EVITARE le controversie, è quello in cui il mondo sta mettendo a confronto la nostra offerta con quella di Google Plus», ha scritto.

Ancora meglio, ha suggerito di evitare queste modifiche «fino a quando i confronti competitivi diretti non inizieranno a spegnersi».

Quest’affermazione è quasi una pistola fumante: prova che, come ha ipotizzato Srinivasan, Facebook tutela la privacy degli utenti solo quando teme la concorrenza, e non ne tiene conto quando non la teme più.

Gli Stati e la FTC fanno una serie di ulteriori affermazioni sul danno causato dalle pratiche monopolistiche di Facebook, ma esse sono piuttosto vaghe.

Certo, la tendenza di Facebook a divorare i potenziali concorrenti, o a tagliarli fuori dai suoi strumenti di sviluppo, ha probabilmente ridotto il livello di innovazione nel settore, ma chi può dire come sarebbero stati i social in uno scenario contro-fattuale?

La teoria della privacy, invece, ha il pregio di essere concreta: Facebook ha davvero fatto marcia indietro sui suoi impegni sulla privacy mano a mano che è diventato dominante, e questo non sembra sia stato un fatto casuale. Ciò non vuol dire che il governo quindi seguirà la via del contenzioso legale; la legge antitrust rimane orientata a favore delle grandi imprese, e la magistratura federale è piena di giudici che sono stati formati su di un modello concentrato sul benessere dei consumatori.

Ma l’argomento della privacy almeno spingerà il piede dei tutori della legge nella porta. Facebook potrebbe non addebitare una commissione agli utenti, ma ciò non significa che gli utenti non abbiano pagato un prezzo.

«Fa parte di un’azione antitrust dimostrare i danni alla concorrenza e, poiché questo è un mercato in cui gli utenti non pagano per il prodotto, la diminuzione della qualità è una misura davvero importante del danno causato dalla mancata concorrenza», afferma Charlotte Slaiman, ex avvocato della FTC, direttore della politica di concorrenza presso Public Knowledge, un think tank di Washington.

Spezzettare Facebook potrebbe aiutare a stimolare una rinnovata concorrenza a favore dell’attenzione per la privacy degli utenti.

In effetti, Facebook aveva dovuto prendere l’impegno a preservare la privacy degli utenti come condizione per acquisire WhatsApp; in seguito, il fondatore di WhatsApp si è dimesso, dopo che Facebook non ha rispettato le sue promesse.

Ma Slaiman ha sottolineato che altri rimedi potrebbero essere assai più efficaci. Imporre l’interoperabilità, per esempio, renderebbe più facile per i nuovi operatori attrarre utenti. «Vogliamo davvero che Facebook debba competere in base alla qualità del suo prodotto», ha dichiarato.

Facebook insiste sul fatto che è quello che ha sempre fatto. «Le persone e le piccole imprese non scelgono di utilizzare i servizi e la pubblicità gratuiti di Facebook perché sono costretti a farlo; li utilizzano perché le nostre app e i nostri servizi offrono il massimo del valore», ha affermato Newstead.

La domanda ora è se il giudice federale comprerà quello che Facebook gli sta vendendo.

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