Ustica, 27 giugno 1980

Siamo arrivati al quarantesimo anniversario dell’abbattimento del Mc Donnel Douglas DC9 Itavia, il 27 giugno 1980. Ascolteremo le rituali commemorazioni e i rituali servizi mediatici, più o meno liberi da pregiudizi.

Ragion di Stato e misteri palesi

Ovviamente a noi spetta semplicemente riepilogare qui alcuni punti essenziali, che ci permettono di affermare che una verità storica esiste: essa ci dice che questo “mistero” della storia italiana mistero non è, mentre intorno ad esso esistono certo molti “segreti”, semplicemente perché i più alti rappresentanti dello Stato italiano (dai vertici militari e di sicurezza a quelli politico-istituzionali) hanno fatto di tutto per impedire che venissero alla luce le ragioni della morte di innocenti cittadini italiani.

Questo porta inevitabilmente a concludere che, se lo Stato italiano non ha mai potuto chiarire cosa è avvenuto quella tragica sera, non è perché le nostre autorità pubbliche non lo sapessero ma perché si tratta di una verità “indicibile” in termini di potere: vale a dire, raccontare per filo e per segno cosa esattamente è accaduto avrebbe significato mettere a repentaglio la stabilità politica dell’Italia e la permanenza di un’intera classe dirigente.

Se quindi vi è mistero, il mistero è tutto qui.

È la ragion di Stato che ha impedito e ancora oggi impedisce di spiegare non tanto quello che è successo, cosa su cui oramai vi sono ben pochi dubbi, ma per quali ragioni non lo si possa pubblicamente raccontare.

Dati di fatto

Vediamo in estrema sintesi i dati che si possono ragionevolmente considerare oggettivi:

1) l’abbattimento del DC9 Itavia è avvenuto in un contesto di carattere bellico, vale a dire che abbiamo prove certe del fatto che sui cieli italiani, in particolare nell’area tirrenica centro-meridionale, operavano quella sera velivoli da combattimento di almeno tre Paesi: Stati Uniti, Francia e Libia; tanto è vero che due piloti italiani, Mario Naldini e Ivo Nutarelli (poi deceduti in un terribile incidente durante una manifestazione delle Frecce Tricolori), in servizio quella sera dalla base italiana di Grosseto, lanciano per ben due volte un segnale di “allarme generale”. L’aereo quindi è stato colpito in seguito allo svolgersi di azioni di vera e propria guerra.

2) Sulla stessa aerovia Ambra 13 sulla quale viene instradato il DC9 Itavia volo IH870, via Firenze destinazione Palermo, si è immesso, proveniendo da Tripoli, un velivolo identificato dai radar italiani come Kilo 56 Zombie, una sigla che significa, secondo la codifica Nato, almeno due cose: Zombie 56 vuol dire “potenziale nemico” e Kilo, identificativo assai raramente utilizzato, significa “di interesse particolare”. Si ritiene che su questo velivolo volasse infatti il capo di stato libico Mu’Hammar Gheddafi, forse diretto in Polonia.

3) Il punto Condor, collocato tra le isole di Ponza e di Ustica, dove scompare il DC9, è esattamente quello prima del quale il velivolo Kilo 56 Zombie improvvisamente vira in direzione sud-est, verso lo Jonio e Malta, abbandonando il corridoio Ambra13 giusto in tempo, in quanto probabilmente avvisato della minaccia incombente. Al suo posto, i caccia che lo stanno cercando trovano il DC9 Itavia.

4) Che un combattimento sia avvenuto, lo dimostra il fatto che un aereo Mig-23 in livrea libica viene abbattuto quella stessa sera, dopo un inseguimento a bassa quota e ad alta velocità, da parte di due velivoli non identificati, precipitando sulla Sila: ufficialmente, verrà qui ritrovato solo diversi giorni dopo. Le perizie necroscopiche, che dimostrano che il pilota è in avanzato stato di decomposizione, spariscono nel nulla; la salma, immediatamente riesumata, è inviata in fretta e furia, insieme ai resti dell’aereo, al governo libico.

5) Le lunghe e reiterate azioni di depistaggio su quanto è realmente avvenuto iniziano subito, con una singolare telefonata dei Nar (formazione terroristica di estrema destra, da poco assurta agli onori della cronaca), nella quale si afferma che il DC9 è esploso a causa di una bomba collocata a bordo, rivelando la presenza, dimostratasi falsa, di Marco Affatigato, già noto come estremista di destra, il quale sarebbe identificabile grazie ad un orologio Baume & Mercier che egli porterebbe al polso. Dettaglio questo assai interessante in quanto si scoprirà che quell’orologio è stato effettivamente visto al polso di Affatigato, in un incontro a Nizza di alcune settimane prima, da Marcello Soffiati, estremista di destra che opera per conto dei servizi segreti militari Nato, in dipendenza dal colonnello Amos Spiazzi.

Depistaggi e realtà

Risparmiamo al lettore la lunga serie di sofisticate e meno sofisticate operazioni mediatiche e interferenze giudiziarie, rivolte a indirizzare le indagini su di una pista terroristica internazionale che permetterebbe di cancellare con un colpo di spugna il contesto bellico nel quale si produce la distruzione del DC9 Itavia. Anche in questo caso, il “terrorismo” si rivela utilissimo a confondere le idee alla pubblica opinione.

Risparmiamo anche al lettore la terribile lista di morti “sospette” di una lunga serie di fedeli dipendenti dell’Aeronautica Militare Italiana, tutti che hanno avuto in qualche modo a che fare con la notte del 27 giugno 1980.

Risparmiamo infine al lettore anche le numerose conferme, via via accumulatesi negli anni, di quel quadro di guerra che abbiamo sinteticamente riassunto.

La vicenda, in queste sue linee essenziali, dimostra alcune cose, storicamente incontrovertibili:

1) L’Italia si trova dalla fine della Seconda guerra mondiale in una posizione strategicamente fondamentale e delicatissima, al crocevia fra i due blocchi politico-militari est-ovest e al centro del Mar Mediterraneo, sul quale si accumulano le tensioni dovute all’irrisolto conflitto israelo-palestinese, al diffondersi del nazionalismo arabo (Egitto, Libia, Siria, Iraq), agli esiti più drammatici del processo di decolonizzazione, che ha investito l’intero continente africano.

2) L’Italia ha perduto, con la sconfitta nella guerra mondiale, la propria sovranità nazionale, poiché la classe dirigente giunta al potere a seguito della “morte della Patria” avvenuta l’8 settembre 1943 ha accettato supinamente l’allineamento atlantico, con la conseguente profonda penetrazione negli apparati dello Stato e nei vertici politici di un condizionamento politico, militare ed economico-finanziario da parte degli Stati Uniti in primo luogo, ma anche di Francia e Gran Bretagna.

3) Tale condizionamento, proprio a seguito dell’esigenza dei vertici istituzionali del nostro Paese di “garantire” ad ogni passo l’allineamento italiano agli interessi strategici atlantici, ha assunto anche forme sanguinose e violente, nell’ambito di quella strategia dello destabilizzare per stabilizzare che viene oramai riconosciuta come elemento di fondo della cosiddetta “strategia della tensione”, che produce in Italia centinaia di vittime e migliaia di detenuti.

4) Rispetto al contesto italiano, la Libia rappresenta uno degli elementi internazionali più critici: con la rivoluzione dei colonnelli del 1969, il Paese tenta di acquisire una propria identità nazionale, fino a quel momento di precaria definizione, in un intreccio nel quale aspetti etnici e religiosi si combinano con enormi interessi economico-finanziari internazionali legati al gigantesco patrimonio petrolifero scoperto nel Paese. Questo fa della Libia un’area soggetta a pressioni fortissime, tanto più dopo che il presidente Gheddafi cerca di aprirsi uno spazio nell’Africa Centrale, entrando in collisione diretta con interessi francesi lì dominanti.

5) I tentativi italiani di costruire, potremmo dire nella linea di un Enrico Mattei, un rapporto privilegiato con il Paese nordafricano, verranno contrastati con tutti i mezzi, da parte della Francia in particolare, ma anche degli Stati Uniti, e, in maniera ancor più sofisticata e coperta, dallo Stato di Israele, oramai dominante in Medio Oriente dopo la guerra del Kippur del 1973. Non si conteranno infatti, dal 1969 in avanti, i tentativi di eliminare fisicamene Gheddafi, fino a quando tale risultato sarà tanto brillantemente quanto barbaramente ottenuto nell’ottobre del 2011.

Democrazia limitata

L’episodio del DC9 si situa in questo contesto, ed è per questa specialissima condizione di “sovranità limitata” che i governi italiani in questi quarantanni non hanno mai voluto rivelare quello che è oramai ben chiaro a quanti studiano in modo non superficiale queste vicende.

Infatti, raccontare quanto è avvenuto quella sera, significherebbe:

1) Confermare la condizione dell’Italia come “terra di nessuno”, sulla quale le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale possono operare indisturbate, se necessario nel più totale spregio della nostra sovranità e della vita dei nostri concittadini.

2) Ammettere questo, significherebbe aprire il vaso di Pandora di tutti i precedenti (e successivi) eventi stragisti, cosa che finirebbe per dimostrare una volta per tutte le responsabilità degli apparati istituzionali nella facilitazione e nel controllo del cosiddetto “terrorismo”: non si dimentichi che l’evento di Ustica avviene a pochi mesi dalla tragica conclusione del “caso Moro”, sul quale sono da sempre in corso attività di depistaggio e copertura, come mostra la recente e istruttiva intervista di Walter Veltroni all’ex-ministro socialista Claudio Signorile.

3) Riconoscere quanto appena detto, dimostrerebbe, ben oltre i cronici problemi di corruzione morale e di incapacità politica della nostra classe dirigente, le limitazioni strutturali della nostra democrazia e rivelerebbe quanto ampio sia il mancato adempimento dei doveri costituzionali di difesa degli interessi del nostro popolo da parte della nostra classe politica.

4) Dimostrerebbe altresì che la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, lungi dal rappresentare la liberazione dell’Italia, ne ha provocato la totale subordinazione politica a potenze straniere che perseguono finalità che non coincidono affatto con gli obiettivi storici che l’Italia potrebbe e dovrebbe ad esempio assumere nel mondo contemporaneo (pensiamo qui ad esempio all’idea della Roma dei Popoli di un Mazzini).

Bastano forse questi pochi punti a farci comprendere come i politici allora e poi al comando, formati alla scuola del compromesso, dell’interesse di partito, della non considerazione della comunità nazionale, privi del coraggio morale che deriva da una visione ideale dell’Italia, carenti di onestà in quanto temprati ai più spregiudicati do-ut-des, non possano osare atti di verità che li avrebbero posti in rotta di collisione con i padroni del mondo contemporaneo.

Passato e presente

Detto questo, ci permettiamo, per non annoiare il lettore, due ulteriori osservazioni conclusive.

La prima è che l’ipotesi, in questi giorni avanzata da Vincenzo Vinciguerra, sul collegamento eziologico fra la tragedia di Ustica e la strage di Bologna, merita la massima attenzione, in quanto potrebbe rendere conto del fatto che la posta in gioco, costituitasi con l’abbattimento dell’aereo Itavia, era veramente altissima: per cui questo episodio correttamente potrebbe presentarsi come “il segreto dei segreti”, scoperto il quale un’intera classe dirigente avrebbe potuto finire sul banco degli imputati, in maniera assai più grave e risolutiva di quanto si sperò illusoriamente potesse avvenire un decennio dopo con “Mani Pulite”.

La seconda è anch’essa di estrema attualità: fa penosamente sorridere che un ministrino della Repubblica come il Di Maio vada col cappello in mano a bussare a tutte le porte, chiedendo aiuti per risolvere la crisi libica, così come venne umiliato l’altro premierino italiano Gentiloni, quando si permise di chiedere aiuto al presidente Usa per lo stesso motivo, ottenendone una sprezzante, pubblica bacchettata.

L’Italia è stata tagliata fuori dalla questione libica, proprio mentre ancora gli storichini italiani continuano a dolersi e a battersi il petto per le malefatte del “colonialismo” italiano, dimenticando quelle dei veri colonialisti e ancor più le pagine ben chiare e lucide di un socialista di quelli veri, che risponde al nome di Giovanni Pascoli, che nell’Italia impegnata nell’impresa di Libia vedeva nel 1911 non a torto “la grande proletaria”.

Dopo settanta e più anni di questo regime, noi non abbiamo più oggi nemmeno la possibilità di poterci orgogliosamente definire così.

Siamo infatti un Paese felicemente imborghesito, che continua a votare una classe dirigente che ha più volte dimostrato di tradire la fiducia accordatagli dal proprio popolo, e che ha supinamente accettato l’assassinio di 81 Italiani, di nulla colpevoli, senza mai chiederne conto ai loro potenti e ben noti massacratori.

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