Palestina: cronaca di un’annessione annunciata

Ci troviamo alla vigilia di un evento decisivo per il futuro della Palestina e probabilmente per il Medio Oriente. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dopo avere raggiunto lo scorso aprile, un accordo con il suo rivale politico Benny Gantz per formare un governo di unità nazionale, intende ora imporre la sovranità israeliana sulla Valle del Giordano.

«Annessione limitata»

Il piano si svilupperebbe a partire da una «annessione limitata» comprendente tre importanti blocchi di insediamenti israeliani: Maale Adumim nella Gerusalemme est occupata, Ariel nel nord della Cisgiordania e Gush Etzion vicino alle città di Betlemme e Hebron, aree che, non richiedendo una mappatura precisa sul terreno, possono essere agevolmente annesse in modo unilaterale.

Successivamente, dopo che la comunità internazionale avrà digerito questa mossa iniziale, tale processo investirà l’intera Valle del Giordano, probabilmente a partire da settembre, seguendo una mappatura che include 30 insediamenti israeliani illegali a nord del Mar Morto, che verrebbero completamente integrati nello Stato ebraico.

Il via libera all’annessione, di fatto già realizzata dallo Stato ebraico ma mai formalmente proclamata, è stato dato dal presidente americano Donald Trump, il quale, dopo avere ufficialmente riconosciuto, secondo i desiderata israeliani, Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, a gennaio ha dato vita ad un piano che di fatto ufficializza le posizioni che Netanyahu sta affermando da tempo: del resto, è noto che l’amministrazione Trump, come tutte le amministrazioni americane negli ultimi decenni, affida regolarmente la elaborazione ed attuazione della propria politica mediorientale a esponenti di quella che abbiamo definito la «classe dirigente mista» formatasi tra Usa e Israele fin dagli anni Ottanta.

Il ruolo degli Stati Uniti

In questi giorni, il consigliere speciale di Trump, Jared Kushner, attraverso il suo assistente Avi Berkowitz, amici fin dall’infanzia ed entrambi legati all’ebraismo ortodosso nordamericano, insieme all’autorevole David Schenker, assistente segretario per gli affari del Vicino Oriente presso il Dipartimento di Stato, collaboratore storico dei think tank ultra-conservatori (p.e. WINEP)  filo-israeliani Usa, dettano la linea che l’amministrazione Usa deve adottare in Medio Oriente – poco curandosi dei reali interessi degli Stati Uniti d’America.

Sono questi personaggi che hanno propiziato l’accordo di governo fra Netanyahu ed il suo rivale Benny Gantz, con il quale ultimo in questi giorni sono in corso colloqui al massimo livello, secondo quanto rivela il sito Debka, notoriamente legato ad ambienti dell’intelligence israeliana: Gantz, in questa occasione, è rappresentato principalmente dall’ex comandante dell’aeronautica, maggiore generale Amir Eshel, recentemente nominato direttore generale del ministero della Difesa.

Secondo il Times of Israel, Netanyahu ha detto ai leader dei coloni che le aree in cui non vi sono insediamenti «devono attendere» fino a quando un comitato israeliano incaricato della mappatura del territorio non definirà un preciso schema del piano di annessione.

In questo modo, si «eviterebbero eventuali attriti con la Giordania, cosa che preoccupa gli Stati Uniti», riferisce la stessa fonte. Il re di Giordania Abdullah ha infatti avvertito il mese scorso la comunità internazionale che l’annessione israeliana potrebbe portare a «conflitti enormi», ed alla cancellazione di fatto del trattato di pace di Wadi Araba del 1994, tra il suo regno e Israele.

La Valle del Giordano e l’area a nord del Mar Morto sono infatti ricomprese nella Cisgiordania occupata da Israele fin dalla guerra arabo-israeliana del 1967: un’area di valore strategico, ricca di minerali e terreni agricoli, estesa lungo tutto il confine giordano.

Tramontata la soluzione a due Stati

L’annessione della Valle del Giordano seppellisce in modo definitivo qualsiasi residua possibilità di una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese, in quanto renderebbe impossibile la creazione di uno stato palestinese anche minimamente dotato di una propria sovranità. Come si sa, quella “a due Stati” era la poco realistica soluzione proposta dalle Nazioni Unite fin da prima della proclamazione dello Stato di Israele, nel maggio del 1948.

La decisione di annettere i tre grandi insediamenti ebraici nella Cisgiordania non solo taglierebbe definitivamente fuori i palestinesi della Cisgiordania dalla Città Santa, ma cancellerebbe l’aspirazione palestinese ad avere uno stato indipendente con Gerusalemme Est come capitale.

La Valle del Giordano rappresenta circa un terzo della Cisgiordania occupata (quasi 2.400 chilometri quadrati), nella quale 30 insediamenti agricoli israeliani ospitano circa 11.000 coloni. Circa 56.000 palestinesi risiedono anch’essi nella stessa area, compresa la città di Gerico: un’area, come vedremo meglio fra poco, in cui l’esistenza quotidiana è da decenni resa difficilissima ai Palestinesi, nella totale indifferenza dei grandi media occidentali, da una politica israeliana  che ha il solo obiettivo di prevenire lo sviluppo palestinese e di privare i Palestinesi della loro terra.

Tutto ciò avviene utilizzando uno sperimentato sistema giuridico-amministrativo, oltreché militare, che impiega termini come “pianificazione e norme edilizie”, ”piani di edilizia urbana (UBP)”, ”procedimenti di pianificazione” e “costruzione illegale”, che servono semplicemente a favorire in ogni modo lo sviluppo delle comunità ebraiche, in modo che esse esercitino un controllo assoluto e capillare sulle comunità palestinesi in Cisgiordania: Israele sfrutta quindi la legge per prevenire lo sviluppo, contrastare la pianificazione e realizzare demolizioni a danno dei Palestinesi, massimizzando lo sfruttamento delle risorse della Cisgiordania per le esigenze israeliane e riducendo al minimo le riserve di terra disponibili per i palestinesi.

La realtà della cosiddetta Area C

L’accordo di Oslo II del 1995 ha macchinosamente suddiviso la Cisgiordania in tre tipi di aree, A, B, C, inizialmente destinate a restare in vigore per soli cinque anni: divenute invece una condizione permanente, a tutto vantaggio dello Stato di Israele.

La concentrazione della popolazione palestinese nelle aree edificate, che tuttora ospitano la maggior parte della popolazione palestinese in Cisgiordania, sono state designate come aree A e B, ufficialmente consegnate al controllo dell’Autorità Palestinese. Esse sono disseminate in tutta la Cisgiordania in 165 “isole” scollegate fra loro, accuratamente delimitate e segmentate dalla famosa “barriere difensiva” israeliana, della quale non si parla più da decenni, nonostante le evidenti violazioni del diritto delle genti da essa procurate.

Il restante 61% della Cisgiordania, designato appunto come Area C, include il territorio che circonda le aree A e B. In quest’area Israele mantiene il pieno controllo militare e civile, inclusi pianificazione, edilizia, infrastrutture e sviluppo.

In circa il 60% dell’area C – il 36% della Cisgiordania – Israele ha bloccato lo sviluppo palestinese, designando vaste aree di territorio come terreni demaniali, aree di controllo, zone di tiro, riserve naturali e parchi nazionali; assegnando terreni, come abbiamo visto, agli insediamenti ed ai loro consigli regionali; introducendo divieti di accesso nell’area intrappolata tra la barriera di separazione e la cosiddetta “linea verde”, il vecchio confine formale tra il territorio dello Stato ebraico e la Cisgiordania.

Anche nel restante 40% dell’area C, Israele limita lo sviluppo degli abitati palestinesi, concedendo di rado permessi di costruzione per l’edilizia abitativa, per usi agricoli o pubblici, per la posa di infrastrutture.

L’Amministrazione Civile (CA), in realtà un settore dell’esercito israeliano designato per gestire le questioni civili nell’area C, rifiuta metodicamente di preparare piani generali per la stragrande maggioranza delle comunità palestinesi.

A novembre 2017, l’Amministrazione Civile aveva redatto e approvato piani per solo 16 delle 180 comunità che sono interamente ricomprese nell’area C. I piani coprono appena 17.673 dunam (1 dunam = 1.000 metri quadrati), vale a dire meno dell’1% dell’Area C, la maggior parte dei quali è già stata edificata. I piani sono stati elaborati senza consultare le comunità palestinesi e non soddisfano gli standard di pianificazione internazionale. I loro confini corrono vicino alle aree abitate dei villaggi, lasciando fuori terra per l’agricoltura, per i pascoli e per possibili, futuri sviluppi.

Dal 2011, visto che l’Amministrazione Civile occupante non ha redatto piani, come sarebbe invece tenuta a fare, dozzine di comunità palestinesi, con l’aiuto di organizzazioni locali ed internazionali, in coordinamento con l’Autorità Palestinese, hanno redatto propri piani: alcuni di essi riguardavano comunità o villaggi situati per intero nell’area C, mentre altri interessavano solo parzialmente l’area C.

Ai dati del settembre 2018, 102 piani erano stati sottoposti agli organi di pianificazione dell’amministrazione civile, ma, alla fine del 2018, solamente cinque piani – che coprono un’area di circa 1,00 dunam (o circa lo 0,03% dell’area C) – avevano ricevuto l’approvazione.

Palestinesi e colonizzazione israeliana

Le probabilità che un palestinese riceva un permesso di costruzione nell’area C (anche su terreni di proprietà privata) sono quindi scarsissime. Data l’inutilità dello sforzo, molti palestinesi rinunciano a richiedere del tutto un permesso: senza alcuna possibilità di ottenerlo e di costruire legalmente, i bisogni di una popolazione in crescita non lasciano ai Palestinesi altra scelta se non quella di sviluppare le loro comunità costruendo case senza permessi. Questo, a sua volta, li costringe a vivere sotto la costante minaccia di vedere demolite le loro case e le loro piccole attività commerciali, cosa che avviene assai di frequente.

L’impatto di questa politica israeliana si estende oltre l’area C, interessando le centinaia di comunità palestinesi situate interamente o parzialmente anche nelle aree A e B, poiché le riserve di terra per molte di queste comunità si trovano appunto nell’area C e sono quindi soggette alle restrizioni israeliane lì adottate.

La domanda di terra è cresciuta considerevolmente dopo la divisione della Cisgiordania nel 1995 a seguito appunto degli accordi di Oslo: da allora, infatti, la popolazione palestinese è quasi raddoppiata e le riserve di terra nelle aree A e B sono state quasi completamente esaurite. A causa della carenza abitativa, molti terreni ancora disponibili in queste aree vengono utilizzati per l’edilizia residenziale, anche se sarebbe ben più adatto per altri usi, in primo luogo l’agricoltura.

Senza terra per edificare, le autorità locali palestinesi non possono fornire servizi pubblici che richiedono nuove strutture, come cliniche e scuole mediche, né possono pianificare spazi aperti per la ricreazione all’interno delle comunità.

La realizzazione del potenziale economico dell’Area C – in settori come l’agricoltura, l’estrazione di minerali, di materiali per l’edilizia, l’industria, il turismo e lo sviluppo della comunità – è essenziale per il futuro di tutta la Cisgiordania, in quanto è l’unica possibilità di creare posti di lavoro e contrastare la povertà.

Contrariamente alla pianificazione restrittiva adottata per le comunità palestinesi, agli insediamenti israeliani, tutti situati nell’area C, sono assegnati ampi tratti di terra, vengono elaborati piani dettagliati, collegati a infrastrutture avanzate, tanto più che, come si sa, le autorità chiudono un occhio sulle costruzioni illegali realizzate in quegli insediamenti: essi dispongono quindi di una grande quantità di terra, compresi i terreni agricoli che possono servire per il loro futuro ulteriore sviluppo.

Complessivamente, oltre 600.000 coloni israeliani vivono in estesi insediamenti e avamposti nell’area C controllata da Israele, nel continuo rischio di scontri con i tre milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme est. La programmata annessione ovviamente renderebbe ancora più grave il rischio di conflitti, anche da questo punto di vista.

Europa? Italia?

Nel suo recente viaggio in Israele, il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, durante una conferenza stampa congiunta a Gerusalemme con il suo omologo israeliano Gabi Ashkenazi, ha dichiarato mercoledì che il suo paese ha «serie preoccupazioni (…) sulle possibili conseguenze di un tale passo», aggiungendo poi che «insieme all’Unione europea, riteniamo che l’annessione non sarebbe compatibile con il diritto internazionale», ha affermato Maas. Tutto qui.

Sta di fatto che l’Unione Europea, a poche settimane dalla oramai prevista dichiarazione di annessione da parte del governo israeliano, ha omesso di formalizzare un propria chiara posizione in merito.

Non parliamo poi dei governi italiani: all’entusiastico appoggio di Salvini alla politica israeliana ha fatto seguito il silenzio del ministro Di Maio, per il quale pare che la nostra politica internazionale si fermi alle frontiere e ai relativi movimenti turistici.

Sembra di capire che gli Stati europei non vedano l’ora che questa situazione, in atto da un quarto di secolo nella più totale assenza di una qualsivoglia proposta da parte dell’Europa, arrivi al suo naturale epilogo, quello che in cui trionfa la pura forza militare.

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