Palestina: ancora Nakba

Il 15 maggio è una data a cui in Europa non si dedica alcuna giornata della memoria, ma nella memoria storica del popolo palestinese rappresenta la Nakba, ovvero la “catastrofe”: vale a dire il momento in cui lo Yshuv (“insediamento”), l’organizzata presenza ebraica in Palestina, sviluppata dalle organizzazioni sioniste nel corso di mezzo secolo, si trasforma, il 15 maggioo del 1948, nello Stato di Israele, che, al seguito di un conflitto vittorioso, produce la progressiva espulsione, tra il 1947 ed il 1949, di oltre 750mila dei circa 1,9 milioni di Palestinesi.

La Nakba si rinnova

Di essi 150mila restarono all’epoca nei confini del nuovo Stato ebraico, che aveva occupato nella guerra il 78 per cento delle terre originariamente palestinesi: il rimanente 22 per cento, la parte orientale nota come Cisgiordania o West Bank, restò sotto il controllo della Giordania, fino a quando, nel giugno del 1967, fu anch’essa occupata da Israele, insieme alla striscia di Gaza fino a quel momento sotto controllo egiziano, con la cosiddetta guerra dei Sei Giorni.

Ad oggi, secondo dati di fonte palestinese, circa 5 milioni di Palestinesi vivono sotto occupazione israeliana nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza; un milione e mezzo in Israele; oltre 6 milioni in una diaspora che li ha condotti nei campi profughi dei Paesi vicini, oppure li ha dispersi nel resto del mondo. La questione dunque, anche sul piano strettamente quantitativo della demografia, non solo non ha trovato soluzione, ma è divenuta ancora più drammatica.

Sionismo e classi dirigenti anglo-sassoni

Mai come nell’odierno 72° anniversario della Nabka, la questione torna di attualità: il primo appuntamento del Segretario di stato Usa, Mike Pompeo, dopo lo scoppio della pandemia Covid-19 anche negli Stati Uniti, è stato significamente dedicato proprio ad una visita in Israele, non tanto e non solo per facilitare la difficile formazione del nuovo governo nel Paese, ma soprattutto per spianare la strada all’annessione di gran parte della Cisgiordania da parte dello Stato ebraico.

Un obiettivo che Benjamin Netanyahu ha indicato come prioritario, potendo contare oggi sul supporto fornitoglio dal cosiddetto “Accordo del Secolo” proposto da Donald Trump, con il quale verrebbero cancellati in modo definitivo gli accordi di pace di Oslo del 1993, nei quali era prevista, come si sa, la creazione di uno stato palestinese, accanto a quello israeliano, entro cinque anni dalla loro sottoscrizione.

Cento anni fa gli accordi di Sanremo

È questo l’esito di un lungo processo di affermazione del movimento sionista, che non avrebbe potuto mai raggiungere i suoi obiettivi senza l’alleanza strategica da esso realizzata con selezionati ambienti della classe dirigente anglo-sassone, sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti d’America.

Proprio in questi giorni, infatti, ricorre anche il centenario della Conferenza di Sanremo (26 aprile 1920), con la quale le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale inserirono nella riorganizzazione del Vicino Oriente, da cui per altro l’Italia rimase esclusa, la spartizione realizzata fra Gran Bretagna e Francia del Medio Oriente post-bellico.

In tal modo, per quanto riguardava la Palestina, entrava in forza la dichiarazione del 2 novembre 1917, rilasciata dal ministro degli esteri britannico lord Arthur James Balfour a lord Lionel Walter Rothschild, alto esponente dell’establishment politico inglese ed al tempo stesso fervente sostenitore del movimento sionista: la famosa Dichiarazione Balfour, nella quale, con ambiguità caratteristica della diplomazia britannica, si parlava della istituzione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina.

Tale volontà era stata asseverata, poche settimane prima della conferenza di Sanremo, nel febbraio 1920, dal generale inglese Louis Bols, che dirigeva l’amministrazione del mandato britannico in Palestina, quando questi aveva dichiarato appunto al quotidiano arabo Marat al-Sharq la determinazione del suo governo nell’applicare la Dichiarazione Balfour.

Sangue in Terra Santa

La possibilità di accogliere con favore i sionisti nei territori arabi teoricamente liberati dal dominio ottomano, inizialmente guardata con favore da re Feisal d’Arabia, nella speranza di una collaborazione che avrebbe potuto portare i capitali ebraici nelle aree meno sviluppate del Vicino Oriente, si palesa dunque da questo momento una nuova colonizzazione, questa volta sionista.

Sul terreno, in Palestina, iniziano per questo le prime risposte violente, ad esempio il 1° marzo 1920 con l’uccisione a Tel Hai, insediamento sionista sulle alture del Golan, di sei coloni ebrei: ancora più gravemente, ai primi di aprile, a Gerusalemme, dove sotto il dominio ottomano la coesistenza fra etnìe e religioni diverse era stata pacifica, scoppiano gravi incidenti, durante i quali gli arabi saccheggiano il quartiere ebraico, provocando scontri nel corso dei quali si registrano 9 vittime e 244 feriti.

La Palestina, e in essa la Città Santa, cominciano quindi ad insanguinarsi per questo nuovo impensabile conflitto, proprio alla vigilia degli accordi internazionali di Sanremo che ne dettano come si è visto le premesse giuridiche.

Mandato britannico e sionismo

La posizione britannica, almeno in questa fase iniziale, è decisamente sbilanciata a favore dei sionisti. Basti dire che, quando nel luglio del 1920 si insedierà il primo Alto commissario britannico in Palestina, sir Herbert Samuel, egli avrà come suo capo-segreteria un personaggio di grande spicco nella storica alleanza fra élite politica inglese e sionismo, il generale di brigata Sir Wyndham Henry Deedes il quale scriveva, nel maggio sempre del 1920, a Chaim Weizmann, lo scienziato ed influente membro del sionismo britannico, di lì a poco presidente dell’organizzazione sionista mondiale (WZO, HaHistadrut HaTzionit Ha’Olamit): «D’ora in poi, tutta la forza e capacità ch’è piaciuto a Dio donarmi saranno dedicate senza riserve alla realizzazione del vostro ideale». Il generale Deedes, terminata la sua carriera militare e dedicatosi attivamente a varie attività filantropiche, sarà poi il fondatore nel 1945 dell’autorevole Anglo-Israel Association (AIA), tuttora uno degli organismi di maggiore importanza a sostegno dello Stato ebraico nel mondo di lingua inglese.

Come si vede, le radici del dramma palestinese affondano anch’essi profondamente negli assetti di potere mondiali costituisi nel corso delle due grandi guerre mondiali per arrivare fino all’interventismo nordamericano al principio di questo secolo. Assetti ai quali hanno progressivamente finito per adeguarsi, per mero opportunismo, anche le élite dirigenti del mondo arabo-islamico, tanto più dopo la scomparsa degli ultimi epigoni del nazionalismo arabo. La solitudine in cui si trova oggi il popolo palestinese si è quindi in realtà progressivamente aggravata, ed è proprio ciò che oggi fa più temere per il suo futuro, davanti all’evidente volontà di chiudere la questione palestinese con un atto di sopraffazione. Anche per questo, era necessario oggi ricordare il dramma dimenticato della Nakba.

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