Uno studio dei militari su come affrontare i Coronavirus: ma chi l’ha letto?

Si è parlato spesso, in questi giorni di emergenza Covid-19, dell’impreparazione dell’Italia ad una crisi di questa gravità: eppure doveva essere nella disponibilità quantomeno del governo centrale l’accurato studio “La minaccia NBCR: potenziali rischi e possibili risposte”, pubblicato dal Centro Militare di Studi Strategici nel lontano 2007, a cura dello IAI (Istituto Affari Internazionali), del Forum per i problemi della pace e della guerra, e dell’ISPRO (Istituto Studi e Ricerche sulla Protezione e Difesa Civile e Sicurezza).

Laboratori biotech e diffusione accidentale

La ricerca ovviamente investiva la questione delle minacce nucleare, batteriologica, chimica e delle radiazioni in un contesto di tipo bellico o anti-terroristico: ma, nel fare questo, prendeva in considerazione, in modo a dire il vero piuttosto approfondito e ben documentato, l’esperienza fatta dalla comunità internazionale in occasione della cosiddetta Sars (2002-2003), nella quale si era per la prima volta fatto conoscenza col potenziale epidemiologico di un coronavirus.

Proprio in merito alle possibili modalità di diffusione di questi virus, lo studio affermava quanto segue:
«La diffusione accidentale, dovuta a cause indipendenti dalla volontà dell’uomo ma in cui l’uomo ha delle responsabilità, è divenuta sempre più frequente con il progredire della scienza e della tecnologia. Il progresso ha infatti determinato sia un aumento della probabilità che accada l’evento, sia una maggiore pericolosità di ciascun possibile evento. (…) Le situazioni a rischio sono aumentate vertiginosamente negli ultimi venti anni a causa dell’enorme sviluppo ed espansione dell’uso delle biotecnologie. Sempre un maggior numero d’attività utilizzano agenti biologici: molti laboratori hanno attualmente la capacità di coltivare e conservare organismi patogeni a scopo di studio, ricerca ed impiego in differenti settori quali quello medico e veterinario, alimentare, ecologico ed industriale».

Lo studio del CeMISS elencava a questo punto una serie di possibili eventi accidentali che possono causare la diffusione di questi virus dai laboratori di ricerca, tra gli altri: l’incauta manipolazione nelle fasi di studio e ricerca; l’infezione del personale; un inadeguato confezionamento per il trasporto o la conservazione.

Come è oramai ben noto, a Wuhan ha sede uno dei più importanti laboratori biotecnologici della Cina, il Wuhan Institute of Virology: senza ovviamente poter affermare nulla di certo in merito, sembra più logico pensare a questo tipo di diffusione accidentale piuttosto che ipotizzare un’altrettanto indimostrato passaggio del virus dagli animali all’uomo, secondo una teoria proposta spesso dai media in questi giorni come la più vicina al vero.

Quanto tutto questo metta in discussione il modello scientifico attuale, è questione che non possiamo nemmeno di striscio toccare in questa sede, ma è cosa che si dovrebbe sicuramente cominciare ad affrontare seriamente: clarissa.it lo ha fatto spesso, partendo dal tema, anch’esso non remoto, dell’uso delle biotecnologie nell’agricoltura e quindi del controllo del cibo dell’umanità.

Personale e strutture sanitarie, nodo critico del contagio

Un altro punto di grande interesse dello studio era il fatto che esso metteva in evidenza, sempre riferendosi al caso Sars, che il principale punto critico del contagio era rappresentato dal personale medico-sanitario:
«Quest’ultimo in particolare è stato messo a dura prova ovunque: tanto è vero che, di tutti gli infettati, il 21% lavorava nel campo della sanità. Basta pensare al caso della provincia canadese dell’Ontario, dove il 72% delle persone contagiate dalla SARS contrassero il virus in una struttura sanitaria (il 45% era rappresentato da medici e infermieri, e il restante da pazienti e visitatori). L’ondata di vittime tra gli operatori sanitari comportò severe ripercussioni tra i lavoratori del settore, quali assenteismo, sfiducia nelle istituzioni ritenute incapaci di proteggere i propri dipendenti, ecc. Inoltre, un’ampia parte del personale sanitario dovette essere sottoposto a misure di quarantena, aggravando perciò le condizioni lavorative dei “superstiti” e peggiorando il servizio prestato alla cittadinanza (tre ospedali di Toronto furono costretti a sospendere temporaneamente il ricovero dei malati). Il caso del Canada è emblematico perché mostra i problemi di un apparato sanitario avanzato che si fece cogliere impreparato di fronte all’insorgere di un’emergenza totalmente inaspettata».

Non sembra necessario commentare il testo, in quanto esso fotografa condizioni che si sono ripetute quanto meno nel principale “focolaio” italiano, quello dei Comuni del lodigiano, al quale si può facilmente applicare anche l’altra importante risultanza dello studio, quella relativa alle estreme difficoltà riscontrate quando si è tentato di ricostruire il percorso del contagio, al quale, come tutti ricordiamo, i media hanno dedicato grandissimo spazio nei primi giorni dell’emergenza, con qualche punta letterariamente simile alla manzoniana “caccia all’untore”.

«Altri problemi si sono avuti nel ricostruire la mappa dei contatti sociali delle persone ritenute a rischio: vale la pena ricordare, a questo proposito, che a Toronto in Canada tale attività occupava in media 9 ore per caso e i casi da investigare erano 2282. Da notare che, nel caso di Toronto, per ogni persona affetta da SARS occorreva risalire in media a un centinaio di persone che avevano avuto contatti con quest’ultima».

Forse, la conoscenza di questa esperienza da parte dei decisori politici avrebbe fatto risparmiare tempo e risorse…

La politica dell’informazione: chi detta la linea?

Non meno importante, per una valutazione dei rischi sistemici dell’epidemia, è quanto la ricerca del CeMISS osservava in merio alla “politica dell’informazione” adottata, questione di particolare delicatezza in un Paese, a differenza della Cina, di orientamento liberal-democratico quale intende essere l’Italia.

«Il rischio di panico generalizzato – affermava lo studio – potrebbe, infatti, limitare l’efficacia di ogni intervento, aggiungendo ulteriori problemi e coinvolgendo potenzialmente anche gli addetti. Un’emergenza NBCR, infatti, sarebbe caratterizzata sia dalla scarsa conoscenza delle caratteristiche tecniche del rischio da parte della popolazione, sia dalla paura intrinsecamente legata a una minaccia non visibile e dalla quale è obiettivamente più difficile difendersi. Molto dipenderebbe, quindi, da come verrebbe gestita la diffusione delle informazioni. Di particolare importanza sarebbe la ricerca del punto di equilibrio fra un’informazione capillare necessaria per limitare il contagio e individuare eventuali “contagiati” sfuggiti alla “cinturazione” e un’informazione limitata e “riduttiva” per non generare allarmismo. Già su questo piano è evidente che l’informazione andrebbe comunque gestita e controllata».

Su questo piano, sta risultando a tutti evidente il fatto che, non appena i grandi organi di stampa confindustriali hanno cominciato a sottolineare i rischi per l’economia (qualche commentatore ha infatti ironicamente parlato di una medicina di Confindustria), il tono allarmistico, quasi da bollettino di guerra, della stampa italiana è stato immediatamente abbandonato, in favore di una impostazione assai più fatalistico-rassegnata, che si è concentrata sull’elencazione di tutte le (magre) provvidenze che si stavano predisponendo a favore delle zone più colpite: la mortalità, il cui conteggio aveva inizialmente assunto i toni di un vero e proprio body-count bellico, è stata banalizzata, in modo alquanto inquietante, al punto da risultare una quasi ecologica eliminazione di un po’ di vecchietti, già piuttosto malandati, e dunque economicamente inabili sia come produttori che come consumatori.

Evidentemente, il governo non ha nemmeno pensato di seguire la classica soluzione, ben collaudata dagli anglo-sassoni in occasione di eventi bellico-emergenziali, e ovviamente richiamata anche nello studio di cui parliamo: «a livello di rapporti con i mass-media una soluzione potrebbe essere cercata nel coinvolgere direttori e giornalisti nella messa a punto di un Codice di condotta volontario per la gestione delle informazioni nel caso di un’emergenza NBCR».

Nemmeno questo: fino a quando, appunto, il mondo economico ha battuto il pugno sul tavolo e preso le redini del nuovo corso mass-mediale.

La classe dirigente italiana: prova d’ignoranza

Cosa concludere da tutto ciò? Nei primi giorni dell’emergenza, quelli fondamentali, la classe dirigente italiana era dominata da uno scontro partitico, la cui consistenza politica è davvero sfuggita a tutti.

Per questo, probabilmente non ha avuto nemmeno la cura di andarsi a spulciare gli archivi elettronici delle proprie amministrazioni, nei quali era sedimentata da tempo una ricerca non disprezzabile come quella di cui vi abbiamo riferito.

Pressapochismo? Incapacità? Sottovalutazione?

Evidentemente abituati ma non toccati dalla retorica che da decenni esalta una “economia basata sulla conoscenza”, verbo che dall’Unione Europea discende a cascata fino nelle scuole e nelle fabbriche, i reggitori italiani hanno peccato della cosa più grave che un responsabile politico possa manifestare al proprio popolo: l’ignoranza.

Potere leggere il testo integrale dello studio Cemiss.

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