Il punto sull’inconcludente COP25 di Madrid

Un intervento del nostro Direttore Responsabile, pubblicato sull’autorevole Rivista Natura, per gentile concessione della stessa.

È in corso a Madrid, fino al 13 dicembre, la 25a Conferenza sul clima COP25, organizzata dall’Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici).

Se la Conferenza sul clima di Parigi COP21 del dicembre 2015 – quando 195 Paesi hanno adottato il primo Accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima mondiale con l’obiettivo di fermare il cambiamento climatico – fu il momento della presa di coscienza, della decisione ad agire, della speranza nel futuro, il seguito è stato a dir poco deludente.

A Madrid, in questi giorni, tra i grandi del mondo non c’è accordo su quali strumenti mettere in campo e sulle strategie e anche la 25a Conferenza si avvia a chiudersi con magri risultati, mentre gli eventi meteorologici estremi stanno diventando la “nuova normalità” e, secondo gli esperti, il punto di non ritorno è stato ormai raggiunto.

Che cosa è mancato alla Comunità internazionale?

Forse un salto di paradigma. Si è dovuto passare attraverso la denuncia, la presa di coscienza, l’affermazione dell’evidenza scientifica. I risultati si sono visti: la scienza è ormai unanime nel riconoscere i cambiamenti climatici, l’opinione pubblica è consapevole dell’emergenza, i giovani premono affinché si faccia subito qualcosa.
Ora è tempo di concentrarsi sull’azione, sui provvedimenti, sulle soluzioni adottabili ed efficaci.

Invece, ai negoziatori, politici e media convenuti a Madrid per la COP25, gli organizzatori dell’ONU hanno fornito ancora una volta una breve guida su questioni – per così dire – ormai vecchie e assodate: che il ritmo dell’aumento delle concentrazioni di gas a effetto serra “non ha precedenti nella storia del clima negli ultimi 66 milioni di anni”; che gli eventi meteorologici estremi sono la “nuova normalità” secondo alcuni recenti risultati della scienza sul clima; che “il mondo non è sulla buona strada” per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi; che “il cambiamento climatico è più veloce e più forte del previsto” e minaccia ghiacciai, foreste, biodiversità, la sicurezza alimentare e la salute di centinaia di milioni di persone.

E quindi, ancora oggi, stiamo girando attorno al problema, senza imboccare la strada delle soluzioni. E non possiamo aspettare che la generazione di Greta Thumberg raggiunga – studiando e maturando – ruoli di leadership nella scienza, nella politica e nell’economia. Il tempo non c’è.

Cominciamo con il guardare a casa nostra, l’Europa

Dopo uno scontro di pareri contrastanti sulla situazione delle emissioni in Europa – avvenuto lo scorso anno tra l’Emissions Gap Report (UNEP) e il documento della Commissione Europea (European Commission’s 2050 long term strategy document ) – alla COP25 di Madrid sta emergendo il dato che, in effetti, l’Unione Europea non è in linea per il raggiungimento degli obiettivi e degli impegni sottoscritti a Parigi, questo secondo l’European Environment Agency.
(Un inciso: quanti enti, quante strutture, quanti stipendi, quanti costi per monitorare la stessa cosa!)

Non solo. Va anche commentato come sono stati ottenuti i risultati parziali finora raggiunti.

Una parte significante della riduzione delle emissioni del continente è stata ottenuta… con l’outsourcing! Cioè, abbiamo spostato altrove (soprattutto in Cina) la produzione di beni necessari alla nostra economia e le relative emissioni.
Uno sforzo a bilancio zero per il Pianeta.

Leader in questa classifica negativa è il Regno Unito, nel quale il 40% delle emissioni è delocalizzato e attribuibile alla produzione all’estero delle merci che importa. Segnale che, da sole, la deindustrializzazione e la svolta economica verso il terziario non risolvono il problema globale del clima.

Un dato, invece, positivo, arriva da quei Paesi membri dell’Unione Europea che erano dietro la “Cortina di ferro”. La modernizzazione degli impianti di produzione e, in generale, del sistema economico ha fatto sì che questi Paesi, in media, abbiano ridotto nel 2017 le proprie emissioni di CO2 del 22% rispetto al 1990. A riprova che il progresso tecnologico e il miglioramento delle condizioni sociali di vita e di lavoro non sono necessariamente un fattore negativo per il clima.

Quali sono, in Europa, i Paesi più “ritardatari” rispetto agli impegni di riduzione delle emissioni sottoscritti con l’Accordo di Parigi? Provate a dirlo. Sì, certo, c’è l’Italia (troppo facile indovinare), ma anche Francia e Olanda, che non stanno riducendo le emissioni in modo sufficiente a raggiungere i propri obiettivi fissati per il 2030.

In prospettiva, la Germania sta operando meglio sul fronte della riduzione, anche se attualmente – a causa della forte dipendenza dal carbone – il suo livello di partenza è ancora molto alto: infatti, produce il 50% di emissioni procapite in più rispetto a Italia e Francia.
C’è però chi fa decisamente peggio. Come Cipro, che le emissioni le ha addirittura aumentate… del 55%.

La fonte delle emissioni di gas serra

In Europa l’economia è basata sulle fonti di energia fossile, che costituiscono il 65% dell’energia totale consumata e l’80% delle emissioni globali.

Gran parte della riduzione di emissioni dal 1990 al 2017 registrata in Europa si è ottenuta grazie al passaggio dal carbone a un altro combustibile fossile, ma meno impattante, il gas naturale.
La Germania, che ha fissato per il 2038 la data di fuoriuscita totale dal carbone, sta costruendo il gasdotto Nord Stream 2 per approvvigionarsi di gas russo.

L’altro Paese fortemente dipendente dal carbone, la Polonia, ha proposto, durante la scorsa COP24 a Katowice, la Silesia Declaration, che richiede agli Stati di impegnarsi per mitigare gli impatti sociali della conversione energetica sui lavoratori del settore. I costi della battaglia per il clima, cioè, non devono essere pagati solo dalle classi più deboli della società.

I nodi irrisolti del “mercato delle quote”

Uno degli obiettivi di COP25 è di stabilire le regole per il mercato dei Carbon credits (o Diritti di emissione) di CO2, il Sustainable Development Mechanism, ovvero il meccanismo quanto mai opinabile, ma ormai stabilito, per cui un Paese può “comprare” la possibilità di produrre più emissioni del concordato acquistando quote di emissioni da Paesi più sostenibili.

Da un lato, il meccanismo è virtuoso, perché va a finanziare produzione di energia rinnovabile in Paesi in via di sviluppo; dall’altro, il risultato per il Pianeta è a somma zero e il mercato delle quote può diventare un alibi per alcuni Paesi a non ridurre le proprie emissioni.

Compensare le emissioni di CO2 piantando alberi non può sostituire la riduzione delle stesse: queste soluzioni di greenwashing sono una cortina di fumo dietro cui continuare il business as usual e non abbandonare i combustibili fossili.

A Madrid, i Paesi partecipanti a COP25 devono stabilire un sistema di regole e di mercato per queste quote, in ottemperanza all’articolo 6 dell’Accordo di Parigi. La regolamentazione di questo mercato non è una questione da poco; è più politica che tecnica e potrà determinare, nel bene e nel male, le sorti economiche di molti Paesi, nonché l’ottenimento degli obiettivi sottoscritti a Parigi.

È veramente sconcertante che su questo tema, squisitamente politico e di visione del futuro, in Italia il dibattito pubblico sia inesistente. Anche perché l’acquisto e la vendita dei carbon credits, un sistema pensato per la tutela dell’ambiente, si è trasformato in un mercato finanziario dove acquistare e vendere “diritti a inquinare”.

Un altro interrogativo, solo apparentemente marginale, è questo: che fine faranno i precedenti crediti determinati dal Protocollo di Kyoto? Sul mercato ne girano ancora per un valore di 4 miliardi di dollari, pari a 4 gigatonnellate di CO2. Se dovessero essere utilizzati a proprio favore dagli Stati possessori, nel conteggio per raggiungere gli obiettivi stabiliti a Parigi, ne vanificherebbero gli effetti.

Un continuo rinvio delle decisioni

Qual è il termine per ottemperare agli accordi di riduzione delle emissioni sottoscritti a Parigi? Cinque anni? Dieci anni? Una media tra i due?
A Madrid, alla COP25 che si avvia verso la conclusione, non è ancora stato trovato un accordo. In particolare, l’Unione Europea sostiene che il tema non è una priorità. Non c’è accordo neppure sul “quando” debba essere presa una decisione sul “quando”. Non è un gioco di parole, è una tragedia!

L’Unione Europea, il Canada e l’Australia dicono che un accordo debba essere preso entro il 2023; l’Arabia Saudita ha chiesto di sospendere la questione fino al 2023; i più moderati Stati Uniti di sospenderla fino al… 2022. E stiamo parlando solo della decisione, ovviamente, non della finestra di tempo per ottemperare agli accordi, che non potrà, quindi, che partire da quella data in poi.
Gli unici ad opporsi in ogni modo al rinvio sono i piccoli Stati insulari, che potrebbero non arrivare ancora “emersi” alla scadenza e, sorprendentemente, la Cina che ha chiesto che se ne parli al prossimo Global Summit on Climate Change del 15-16 giugno 2020 a Londra.

I giovani di Greta e le COP

Agli occhi dei giovani attivisti ambientalisti, le COP hanno imboccato un vicolo cieco. Non c’è fiducia, non c’è speranza, c’è solo rabbia verso questi organismi sovranazionali troppo attenti a troppi interessi.

Fin dalla prima edizione del 1995 a Berlino, la Conferenza delle Parti COP1 ha espresso indirizzi e suggerimenti opinabili su come i Paesi membri dovessero ridurre le emissioni di gas serra. Secondo il “Berlin Mandate”, lo studio durato 2 anni commissionato dalla COP1, le emissioni di CO2 potevano essere ridotte con i giusti incentivi e finanziando le industrie dell’energia perché convertissero le proprie fonti produttive.

Così, invece di incrementare i finanziamenti per le energie rinnovabili e pianificare la sostituzione dei combustibili fossili, l’Unfccc ha adottato, alla COP3 nel 1997, il Protocollo di Kyoto, che stabiliva un target di emissioni da raggiungere entro il 2021. Nessuno dei 37 Paesi firmatari ha raggiunto l’obiettivo (neppure un terzo di esso), nonostante i miliardi di dollari erogati a questo scopo all’industria dei combustibili fossili.

Lo sviluppo di energie rinnovabili non è, invece, stato incentivato e finanziato a sufficienza. Così, oggi i Paesi industrializzati devono ancora attuare una politica più decisa ed efficace di decarbonizzazione delle proprie fonti di energia.

Dopo il fallimento di Kyoto, alla COP21 di Parigi è stato sottoscritto un nuovo Accordo, che questa volta include anche i Paesi in via di sviluppo, ai quali sono stati promessi 100 miliardi di dollari di aiuti per limitare le emissioni di CO2.
Oggi – siamo alla COP n. 25 – nessuno dei Paesi industrializzati ha raggiunto gli obiettivi prefissati, né sono stati erogati i dovuti 100miliardi di dollari. Il più grande emettitore di CO2 nell’atmosfera, gli Stati Uniti, si è rifiutato di ratificare gli Accordi di Parigi e di sottostare a qualsivoglia limite di emissioni.
È così che si è arrivati al nuovo, attuale, record di emissioni di CO2: 33,1 gigatonnellate.

Brutta, ma efficace, la legge del mercato

Per rendere meno appetibile l’energia da combustibili fossili, occorre rendere economicamente più conveniente l’energia rinnovabile.
Se il costo di un gigawatt prodotto da pannelli solari costa più dell’equivalente da energia fossile, non c’è moral suasion che tenga. Se, di contro, attraverso massicci investimenti si moltiplicano gli impianti per la produzione di energia rinnovabile e se ne produce così tanta da farne crollare il prezzo, allora i giorni per il carbone saranno segnati.

Occorre, da questo punto di vista, registrare con soddisfazione che nel triennio 2017-18-19, l’energia rinnovabile sta diventando sempre più conveniente.

Ma ci sono ancora alcuni problemi “ideologici” da affrontare: il paesaggio e l’agricoltura (per pale eoliche, pannelli solari, dighe idroelettriche); l’analisi rischi/benefici (per il nucleare); gli investimenti pubblici (per costruire gli impianti anche quando economicamente non convenienti); la questione etica dell’utilizzo del suolo per produrre carburante invece del cibo (per le colture intensive destinate ai biocarburanti); il problema dello stoccaggio dell’energia (le rinnovabili sono, spesso, non costanti e imprevedibili nella produzione); gli interessi geostrategici di potenze che sul dominio dell’energia basano la propria influenza (Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi).

Da Greta ai partiti politici, il dibattito su queste questioni è più che mai sfuggente…

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