Il ruolo dell’Arabia Saudita nella crescente tensione nel Golfo Persico

Avevamo segnalato un mese fa il pericoloso gioco di provocazioni in corso nel Golfo Persico; avevamo sperato che si trattasse di un maldestro tentativo di innescare una strategia delle tensione per impegnare gli Stati Uniti in uno scontro decisivo con l’Iran.

Strategia della tensione nel Golfo Persico

L’odierno rinnovato misterioso attacco alle petroliere in transito nel Golfo di Oman, proprio dinanzi alle coste iraniane, dimostra che il tentativo è ancora in corso. Sorge spontanea la domanda di chi possa essere interessato a portare la tensione a superare il livello di guardia.

L’impressione è che, ancora una volta, l’Arabia Saudita sia attiva in questa partita, estremamente pericolosa: questo Stato, fondato su una struttura nazionale inconsistente, aggrappato al fanatismo wahabbita, alle enormi risorse petrolifere di cui dispone ed ai fortissimi e spesso opachi legami che lo collegano fino dalla fine della Seconda Guerra mondiale alle classi dirigenti politico-finanziarie anglo-sassoni, ha da sempre percepito l’Iran come il nemico principale, assai prima di Israele, con il quale del resto intrattiene oggi rapporti più che cordiali.

Il ruolo saudita nella destabilizzazione di Afghanistan e Pakistan, attraverso il finanziamento del movimento dei talebani; il suo ruolo, ancora tutto da chiarire, nella genesi degli attentati dell’11 settembre; la destabilizzazione della Siria, frutto di un piano elaborato da alcuni alti esponenti diplomatici sauditi e nordamericani; l’intervento massiccio nello Yemen, per tacere del ruolo svolto nella guerra civile in corso in Libia – fanno dell’Arabia Saudita uno degli attori più ambigui e pericolosi per la stabilità della pace mondiale. Nonostante tutto questo, i media occidentali parlano dell’Arabia Saudita come di uno dei pilastri dell’Islam moderato!

Plutocrazia, sfruttamento e arsenali

Questo Paese, nel quale una ristretta élite di poche ricchissime famiglie allargate domina incontrastata su di una popolazione autoctona tenuta in riga con il bastone di una durissima repressione, da un lato, e la carota di condizioni di vita privilegiate, grazie allo sfruttamento di lavoratori esteri che provengono dalle aree più depresse del mondo – questo è il Paese che oggi sta spingendo gli Stati Uniti ad un confronto militare (diretto o indiretto) con l’Iran, probabilmente con consistenti aiuti di intelligence, deception e supporto elettronico da parte israeliana.

Pochi giorni fa, la CNN ha riportato una serie di informazioni che dimostrano che questo Paese sta muovendosi in diverse direzioni per potenziare i propri armamenti strategici: i sauditi avrebbero chiesto alla Cina un determinante supporto tecnico per lo sviluppo di missili balistici; mentre un reattore di ricerca nucleare, formalmente motivato con l’esigenza di produzione di acqua calda, sarebbe stato sviluppato presso Riyad grazie alla collaborazione con l’Argentina.

Questo ultimo aspetto è particolarmente significativo in quanto, sempre secondo la CNN, una possibile evoluzione in senso militare dell’impiego del reattore sarebbe favorito da alcune aziende americane, che hanno di recente sono state autorizzate dal Dipartimento per l’Energia Usa a condividere con i sauditi alcune informazioni sensibili.

Questi provvedimenti sono stati tenuti segreti al parlamento statunitense, suscitando la protesta di alcuni rappresentanti democratici: resta il fatto che a tutt’oggi i nomi delle aziende rimangono coperti da segreto. A tale proposito, il senatore democratico Tim Kaine ha pubblicamente osservato che a questo punto si pongono “seri interrogativi in merito al fatto che le decisioni assunte in materia di trasferimenti nucleari [all’Arabia Saudita] si fondino sui legami finanziari della famiglia Trump piuttosto che sugli interessi del popolo americano”.

Le vendite di armamenti Usa ai sauditi

Tutto questo dopo che, lo scorso maggio, il presidente americano ha approvato altri 8 miliardi di dollari di vendite di armamenti all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti ed alla Giordania, che si vanno ad aggiungere al gigantesco accordo, firmato nel maggio 2017 fra Usa e Arabia Saudita, di vendite di armamenti per un valore di 110 miliardi.

Valutazioni dell’autorevole Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) mostrano che gli acquisti di armi da parte saudita sono in tal modo addirittura raddoppiati nei soli ultimi quattro anni, dopo che già il Paese arabo funge da deposito di pre-posizionamento di armi per gli Stati Uniti in Medio Oriente, fin dagli anni Novanta del secolo scorso.

Non sorprenderebbe, in questo contesto, che l’Arabia Saudita punti ad un intervento Usa per eliminare il rischio iraniano, così come già avvenuto con l’Iraq nel 2003.

Solo, poche ore fa, infatti, indiscrezioni di fonte americana hanno fatto riferimento ad un piano della presidenza Usa per schierare in Medio Oriente oltre 100mila uomini. Una notizia che potrebbe far pensare che la strategia saudita possa aver trovato larga udienza in alcuni settori oltranzisti americani (ad esempio quelli che fanno capo al consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton) forti oggi anche dell’appoggio della lobby israelo-americana che fa capo al genero di Trump.

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