L’assassinio di Emiliano Zapata, 10 aprile 1919

In un mondo sempre più abituato alle grandi alchimie politiche, la vita di Emiliano Zapata risulta di una sconcertante semplicità: ha combattuto per dare la terra ai contadini del suo paese, coi quali aveva vissuto e voleva vivere; ha dovuto per questo scontrarsi con gli esponenti di quei ceti che coltivavano egoisticamente i privilegi economici e culturali che in Messico, come in molte aree del continente americano, erano il frutto del colonialismo spagnolo e britannico.
Per quanto non a suo agio con politici e intellettuali, Zapata aveva anche cercato di costruire alleanze e di avvalersi del supporto di accademici, laddove credeva di non poter giungere con la sua cultura, costruita a fatica in un mondo di duro lavoro e di onnipresente povertà.

Riforme, terra, libertà

I documenti che ha lasciato, come il famoso Plan de Ayala, parlano un linguaggio estremamente semplice e chiaro: il problema è la terra, che deve essere di chi la coltiva; la fine di insensati privilegi; l’aspirazione ad quell’equità che è presidio della dignità umana.

Non faceva del potere il suo scopo: nel 1914, quando, insieme a Pancho Villa, era entrato a Città del Messico alla guida delle loro trionfanti truppe contadine che inalberavano i vessilli della Vergine di Guadalupe, patrona dei popoli indigeni, Zapata aveva rifiutato di sedersi sulla poltrona presidenziale, affermando semplicemente: “Non combatto per questo. Combatto per le terre, perché le restituiscano”.

Cinque anni dopo, di nuovo in guerra, pochi giorni prima di essere assassinato, il 17 marzo del 1919, aveva inviato una lettera al suo ex-alleato Venustiano Carranza, rappresentante della borghesia agraria del nord del Messico, nella quale scriveva: “Tu hai cercato di trasformare la rivoluzione in un movimento che ti portasse benefici personali… Non ti ha mai attraversato la mente l’idea che la Rivoluzione esiste per il bene delle masse”.

Zapata ora se la deve vedere con le truppe federali del presidente Obregon, che ha già sconfitto Pancho Villa: ma resta ancora imprendibile, grazie alla guerriglia che sa condurre abilmente. Si trova a Morelos, dove ha organizzato una comune contadina, e tiene a bada l’avversario. Per vincerlo ci vorrà il tradimento.

Si prepara il tranello

A metà marzo Jesús Guajardo, un colonnello dell’esercito federale, litiga con il suo comandante, il generale Pablo González. González sorprende Guajardo che sta bevendo in una locanda del posto, invece di recarsi, come gli è stato ordinato, sulle colline intorno ad Huautla per dare la caccia agli zapatisti. Guajardo viene arrestato e le spie di Zapata lo riferiscono a quest’ultimo, che il 21 marzo decide di scrivere una lettera al colonnello, per spingerlo a passare dalla sua parte.

Ma il 30 marzo, il generale González ha davvero un colpo di fortuna: intercetta la lettera di Zapata a Guajardo, accusa quest’ultimo di tradimento e lo pone difronte all’alternativa tra il plotone d’esecuzione e preparare una trappola per Zapata. Guajardo, per salvarsi la vita, accetta di rispondere a Zapata dicendosi pronto a passare dalla sua parte.

Il 1° aprile, Zapata scrive a Guajardo proponendosi di ribellarsi il successivo venerdì 4 aprile ed il colonnello acconsente, ma chiede più tempo. Il 7 aprile, per favorire il doppiogiochista, Zapata ordina un attacco diversivo, per attrarre l’attenzione delle truppe federali; il giorno dopo, Guajardo, che si trova a Cuautla, diserta e si allontana con il  suo 5° reggimento, col quale il 9 aprile raggiunge Jonacatepec, che occupa in nome di Zapata.

Questi si trova in attesa poche miglia a sud, alla stazione Pastor: ricevuta la notizia, invia un messaggio a Guajardo per dirgli che devono incontrarsi, ma portando con sé non più di trenta uomini. Alle due e mezzo del pomeriggio di quel giorno, Guajardo sopraggiunge, ma ha con sé ben seicento uomini, invece dei trenta pattuiti: insieme, Guajardo e Zapata si spostano due miglia a sud di Tepalcingo.

La sera tardi, Guajardo chiede a Zapata l’autorizzazione a tornare subito alla fattoria Chinameca, dieci miglia a est, dicendo che intende proteggere i depositi di munizioni da lui collocati negli edifici di quella piantagione. Zapata allora si accorda con Guajardo per incontrarsi l’indomani mattina presto, per discutere il da farsi. Guajardo se ne va, e poco dopo Zapata si sposta anche lui, per trascorrere la notte al sicuro sulle colline circostanti.

L’uccisione di Zapata

La mattina del 10 aprile 1919, intorno alle otto e trenta, Zapata, con circa centocinquanta uomini, si dirige verso la fattoria di San Juan Chinameca a Morelos, dove, come concordato, si incontra con Guajardo. Pochi minuti dopo, viene riferito a Zapata che delle truppe federali si trovano nelle vicinanze. Zapata invita allora Guajardo a presidiare la fattoria, mentre lui intende recarsi a verificare di persona la notizia. Torna verso le una e mezzo, senza aver trovato alcuna traccia delle truppe federali.

Poco dopo le due, Zapata prende con sé dieci uomini per recarsi a pranzo da Guajardo, alla fattoria. Qui trova le truppe di Guajardo schierate nel cortile. Il trombettiere ordina il presentat’arm: tre lunghe note, che vengono suonate mentre Zapata attraversa la piazza a cavallo, si scuote la polvere di dosso e fa per salire i gradini che portano alla fattoria.

In quel preciso momento, i soldati impugnano i fucili in posizione di tiro e sparano. Due raffiche colpiscono a bruciapelo Zapata, che crolla in avanti sulla veranda di legno e muore all’istante: con lui vengono uccisi Augustin Cortés, Lucio Labastida e la loro scorta, mentre gli altri zapatisti scampati all’imboscata fuggono verso sud, fino al fiume Cuautla.

Alle quattro e mezzo del pomeriggio, i federali si affrettano verso nord, con il corpo di Zapata a dosso di mulo, e circa tre ore dopo raggiungono Villa de Ayala e da lì, verso le nove della sera, arrivano a Cuautla dove si trova il generale Pablo González. Il corpo di Zapata viene trasportato alla stazione di polizia locale, identificato, fotografato ed etichettato.

La sua lotta per la terra e la libertà si conclude, del tutto coerentemente con una sua frase, difficile da dimenticare: «Uomini del Sud! È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio!»

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