Il bagno di sangue dell’Afghanistan

In questi giorni, l’ONU ha tracciato l’annuale bilancio delle vittime civili in Afghanistan: con 3.804 morti e 7.189 feriti, il popolo afghano ha pagato nuovamente il più alto tributo dall’inzio di un conflitto civile che insanguina il Paese dopo l’intervento occidentale, iniziato nel dicembre dell’ormai lontano 2001.

Un bilancio impressionante

In totale, si stima che i caduti civili nei diciotto anni di guerra siano stati almeno 32mila ed i feriti oltre 60mila. Ai quali si aggiungono 3.458 caduti delle truppe della coalizione occidentale (tra cui dobbiamo ricordare i 53 italiani che sono morti là nell’adempimento del proprio dovere).

Il numero delle perdite totali riportate dalle forze governative afghane è un segreto, ma di recente il presidente afghano Ashraf Ghani ha parlato di oltre 45mila caduti dal 2014, vale a dire nei soli ultimi quattro anni di conflitto. Una valutazione assai superiore a quanto finora stimato, che fa ritenere realistico un numero di almeno 100mila caduti dall’inizio dell’intervento occidentale.

Trent’anni di guerre

Non dimentichiamo che quest’anno ricorre anche il trentesimo anniversario dell’invasione sovietica (1979-1989), sulle cui cause modalità e motivazioni non ci soffermiamo in questa sede 1: un conflitto che aveva a sua volta prodotto 26mila caduti e oltre 57mila feriti fra le truppe sovietiche; 18mila morti fra gli afghani filo-sovietici; tra 75mila e 90mila caduti fra i loro oppositori.

Il bilancio delle vittime fra i civili è stato anche in quel caso spaventoso, oscillando fra 600mila e 2 milioni di esseri umani: ad essi aggiungiamo 5 milioni di profughi e 2 milioni di sfollati, oltre a 3 milioni di feriti.

La dimensione di questo massacro trentennale è tale da obbligarci alla domanda di fondo: quale il senso politico, militare, strategico dell’intervento occidentale? Quale democrazia, pace, sicurezza è stata riconsegnata al popolo afghano?

Non è difficile rileggere le roboanti affermazioni dei vertici statunitensi che giustificarono questa azione militare invocando i più alti principi dell’interventismo democratico: di esse restano oggi i sommessi annunci di ulteriori ritiri, spesso smentiti o semplicemente procrastinati.

Il secondo Vietnam americano

Su questo panorama di ipocrisia e di rovine resta, oltre il bagno di sangue che le cifre appena dette testimoniano, un gravissimo precedente. Vale a dire la conferma che la strapotenza tecnologica occidentale non è in grado di vincere conflitti contro forze “povere” ma ben radicate nel territorio e fortemente motivate.

Agli Stati Uniti d’America non è evidentemente bastata la lezione del Vietnam: ora si aggiunge ad essa quella dell’Afghanistan. Non possiamo sapere se e quale sarà la terza.

Certo è che gli Stati europei, se fossero dotati di una minima coerenza, dovrebbero uscire da questo pantano di sangue. Ma in Italia di queste cose si preferisce non parlare.

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Note
  1. v. G. Colonna, Medio Oriente senza pace, Edilibri, Milano, 2009.