La questione sociale nel terzo millennio

Quando abbiamo parlato di questione sociale a proposito dei gilet gialli, un attento lettore di area anglo-sassone ci ha chiesto cosa intendevamo con questa espressione.

Questione sociale oggi, cosa significa?

La domanda inizialmente ci ha sopreso perché in Europa continentale questione sociale o Soziale Frage sono termini ben noti in riferimento agli effetti della rapida diffusione del capitalismo occidentale sul finire del XIX secolo: formazione del proletariato industriale, lavoro minorile e femminile, urbanizzazione, associazionismo operaio, richiesta di diritti e tutele, sciopero e sciopero rivoluzionario, flussi migratori, ecc.

Lo stesso lettore vedeva anche il nostro richiamo alla questione sociale derivare da una impostazione di tipo marxista, per cui abbiamo dovuto ricordare studiosi dell’argomento di tutt’altra impostazione, certo non sospettabile di materialismo: le conferenze e le opere di Rudolf Steiner, per esempio; i testi, ormai classici della critica al capitalismo, di un Karl Polanyi.

Tuttavia, rispondendo all’acuto lettore, ci siamo resti conto che, dopo le due guerre mondiali, l’esaurirsi del colonialismo europeo, la fine o la trasformazione dei sistemi a capitalismo di Stato, la nascita della questione ambientale, il completamento della globalizzazione di fine XX secolo, la finanziarizzazione delle grandi multinazionali, le formazione delle reti di telecomunicazione mondiali – forse è oggi necessario aggiornare anche il concetto di questione sociale.

I diversi aspetti della questione sociale

Il punto di partenza potrebbe essere l’aspetto diciamo naturale della questione: acqua, aria, terra, energia sono oggi i patrimoni comuni (commons) dell’umanità minacciati dalla privatizzazione globale. Gli effetti di questa tendenza toccano in modo diretto e sempre più rapido la stessa sopravvivenza degli individui in termini ad esempio di rischi per la salute e di eventi catastrofici di tipo climatico o ambientale. Per questa ragione non si può oggi non parlare di un’esigenza di ordinamenti sociali che tengano in considerazione questi aspetti, capaci di colpire in modo devastante gli aggregati umani organizzati.

La questione ambientale, dunque, intesa in senso lato, sempre più mette in discussione anche i presupposti di pensiero sui quali si incardinano oramai da oltre un secolo le nostre società, le loro certezze ed i loro conseguenti processi decisionali: sono i presupposti della scienza riduzionista, che riconduce la realtà a numero, peso e misura. Dal punto di vista sociale, si assiste anche qui ad una tendenza della comunità internazionale che domina i centri del potere scientifico a respingere con radicali condanne quelle diverse impostazioni di pensiero (si pensi alla medicina “ufficiale” rispetto a quella omeopatica…) che criticano la prospettiva riduzionista, considerandone i suoi limiti nel dar conto in modo esaustivo della complessità del reale.

Anche questo aspetto assume un’evidente valenza sociale non solo in quanto appunto influenza il modo di pensare di individui e gruppi umani, ma anche in quanto i centri che elaborano il sapere mondiale sono oggi strettamente collegati, mediante gli sviluppi della tecnologia, per un verso, ai grandi agglomerati industriali (p.e. delle cosiddette “scienze della vita”, gruppi monopolistici che producono dalle sementi agricole ai medicinali, passando per i fertilizzanti e le biotecnologie); dall’altro, al potere politico, che sempre più, svanite le ideologie ottocentesche, ha necessità di argomentazioni tecnico-scientifiche per motivare l’assunzione di decisioni sempre più complesse e di sempre più vasto impatto sociale.

In questo ambito, è ben chiara la trasformazione in atto sul piano politico: la forma dello Stato nazionale moderno, sviluppatasi in Europa a partire almeno dal XV secolo, oggi diffusasi a livello planetario, risulta non più in grado di organizzare in modo adeguato società complesse come le nostre, in presenza di poteri economico-finanziari multinazionali altamente organizzati e dotati di risorse pari o superiori a quelle di Stati di media grandezza.

Deriva da questa intrinseca inadeguatezza dei sistemi politici contemporanei la crescente impressione che le forme attuali di rappresentanza politica, elemento distintivo delle società moderne, non siano più in grado di rispondere in modo tempestivo, equo e coerente alle esigenze degli strati più ampi della popolazione. Di conseguenza, il concetto stesso di democrazia viene in tal modo a perdere di significato in quanto è sempre più netta la percezione che la sovranità reale, nei sistemi democratico-parlamentari, non sia più in realtà nelle mani degli elettori.

Il potere del denaro contrapposto al lavoro umano

Tale percezione non può essere considerata priva di fondamento, laddove, come avvenuto anche nella recente crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007, è documentata la responsabilità, nell’innescare il fenomeno, di ristretti centri di potere i quali hanno operato e tuttora operano a livello globale del tutto al di fuori dei sistemi di controllo democratico, disponendo della capacità economica e politica necessaria ad influenzare in profondità gli assetti economici, normativi ed informativi delle nostre società di massa.

Questa condizione, ove analizzata compiutamente, porta a concludere che siamo in presenza di strutture e sistemi politici non più in grado di assolvere il loro compito fondamentale, ragione stessa dell’esistenza dello Stato: la tutela degli interessi collettivi sulla base di valori condivisi.

Da ciò deriva l’ancor più pericolosa impressione che il lavoro umano stesso oggi sia asservito a sempre più circoscritti gruppi di interesse i quali operano nella logica del puro e illimitato profitto, senza alcuna considerazione per gli interessi, i bisogni, le aspirazioni collettive, impattando in maniera tanto devastante quanto inarrestabile sulle società contemporanee e sui nostri patrimoni collettivi, per tornare a quanto detto all’inizio.

Sempre più pare che, in conseguenza di questi nuovi rapporti, al centro della questione sociale odierna non sia più nemmeno una contrapposizione di classi, secondo la superata ottica marxista, ma un’ancor più radicale ed estesa contrapposizione fra il lavoro degli uomini ed il potere del denaro, denaro che ha assoggettato il potere politico ed è in grado di condizionare cultura, scienza, informazione, stili di vita collettivi.

In certo modo, quindi, anche se in un contesto sempre più sofisticato intellettualmente e tecnologicamente complesso, la questione sociale appare brutalmente semplificata: da una parte la lotta quotidiana per un lavoro ed una sopravvivenza economica dignitosa, dall’altro l’accaparramento sempre più ampio e penetrante di risorse e potere da parte del capitale finanziario mondiale.

Occorre precisare che tale accaparramento potrebbe assumere forme sempre più conflittuali, dal momento che, a differenza di quanto avvenuto alla fine del XIX, gli spazi “vuoti” da assoggettare agli imperi mondiali si sono esauriti, e dunque risorse oramai delimitate sono la posta di una competizione globale fra un numero crescente di attori in grado di operare a livello mondiale. Così come avvenuto alla fine del XIX, ma in forma quindi potenzialmente ancor più ampia, la questione sociale entro le nostre società si potrebbe coniugare con il rischio di ulteriori conflitti su scala mondiale o di una somma di conflitti localizzati in cui si trovano impegnati tutti i principali attori globali.

È quindi evidente che, se davvero si ha a cuore la pace mondiale, la prima direzione in cui operare è quella del risanamento dell’organizzazione delle nostre società, affrontando appunto con piena consapevolezza la questione sociale, così come essa è ridisegnata al principio di questo millennio.

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