Potenzialità e limiti del populismo italiano

I nostri cinque lettori avranno notato il lungo silenzio di clarissa.it in questi ultimi mesi. Troppi avvenimenti venivano confermando le analisi che il nostro giornale ha prodotto negli ormai tre lustri dalla sua nascita, dalle vicende del Medio Oriente a quelle di casa nostra – per cui ci pareva di non dover fare altro che ripetere il classico e odiosissimo: “noi l’avevamo detto”.
Non abbiamo quindi voluto inserirci nell’affannata polemica elettorale né aggiungere commenti ai tanti che si sono sprecati durante le trattative che hanno portato quest’oggi l’Italia a disporre di un governo che segna sicuramente una novità non solo nella recente storia italiana ma anche a livello mondiale. Da oggi è finalmente possibile fare delle osservazioni che non siano frutto di momentanea reazione ma evidenzino le molte possibilità che si aprono all’Italia e al tempo stesso i veri rischi che essa potrebbe correre ora che il populismo italiano è arrivato al potere.
L’elemento fondamentale positivo è che è tornata in questione la sovranità nazionale italiana, che dalla fine della seconda guerra mondiale è stata conculcata dalle forze traenti della storia postbellica, in quanto esse tutte sono radicatamente anti-nazionali: le forze cattoliche, quali espressioni del potere temporale della Chiesa; quelle di origine socialcomunista, a motivo dell’internazionalismo che le ha da sempre caratterizzate; quelle del liberal-capitalismo occidentale, giacché la predicazione anglo-sassone ha sempre indicato nel nazionalismo centro-europeo il nemico da abbattere. Ciò che queste classi dirigenti internazionaliste hanno prodotto è sotto gli occhi di tutti: scomparsa del senso di comunità e del superiore interesse collettivo; inaridimento dello “spirito di servizio” nei servitori dello Stato; perdita di un baricentro ideale culturale morale, dai livelli più alti a quelli più bassi della società; azzeramento di un ruolo internazionale autonomo dell’Italia, come dimostra la nostra politica estera; asservimento ai centri di potere (economici, finanziari, politici, militari) atlantici; impossibilità di una lettura oggettiva della nostra storia unitaria, e quindi di una coscienza della missione italiana nel mondo contemporaneo.
Il secondo aspetto positivo è che la faticosa intesa giallo-verde ha costretto due partiti a superare contemporaneamente sia la logica partitocratica, per definire una piattaforma comune di azione; sia la logica destra-sinistra, in quanto tale piattaforma, pur con tutti i suoi evidenti limiti e contraddizioni, non risponde più alle categorie politico-ideologiche novecentesche. Non si può fare altro che dire: “Era ora!”. Ma occorre subito aggiungere che questa caratteristica, che è sicuramente ciò che, dopo decenni, fa in questo momento dell’Italia un laboratorio importantissimo per il futuro dell’Europa e del mondo, è tuttavia anche l’aspetto che deve subito essere correlato agli evidenti limiti delle forze che stanno tentando il cambiamento.
Il primo di essi è che né la Lega né il Movimento Cinque Stelle hanno formato in questi anni in modo attento e consapevole una propria classe dirigente: la Lega per la sua origine piccolo-borghese, di protesta basata su ristretti interessi economici di ceti medi tartassati dalla crisi economica e da uno Stato forte coi deboli e debole coi forti; il Movimento Cinque Stelle per l’ossessione tecnologico-telematica con cui esso si è costruito, che da sempre rende estremamente tenue e oscillante la coesione ideale del movimento: lo si è visto (ed è non solo e non tanto un segnale di opportunismo, ma di debolezza strategica), quando il Movimento ha modificato in corsa alcuni punti qualificanti della sua linea di politica estera – precisamente quelli relativi alla Nato ed alla Russia, solo per citare due esempi davvero non marginali.

Sappiamo quanto questa incapacità di formare classi dirigenti di ricambio abbia pesato sulla storia italiana: vuoi nella fase unitaria post-risorgimentale; vuoi nell’affrontare la Grande Guerra; vuoi nel periodo fascista. Fa eccezione il periodo testé conclusosi, per una ragione assai semplice: la classe dirigente post-bellica italiana è sempre stata plasmata sul calco di quelle anglo-sassoni, che da questo punto di vista hanno rappresentato e tuttora rappresentano il modello dominante: basta guardare ai dirigenti d’impresa, ai grand commis pubblici, ai quadri militari, al mondo dei mass media, agli intellettuali ed al mondo universitario.
Sappiamo anche che non potrà esservi cambiamento nella situazione italiana se il futuro governo non riuscirà a scalzare e sostituire efficacemente i quadri direttivi dello Stato: da quelli ministeriali a quelli regionali, da quelli degli organismi economici e finanziari ancora controllati o partecipati dallo Stato a quelli militari e dell’intelligence, a quelli della politica estera. Se non arriveranno qui uomini nuovi, formati ad una visione dell’Italia ispirata dal senso della comunità nazionale e della difesa dell’autonomia dai poteri internazionali condizionanti, ben poco potrà fare qualsiasi governo “populista”, poiché esso o sarà presto riallineato all’ordine costituito ovvero sarà spazzato via dalla prima crisi monetaria o economica, reale o provocata a questo scopo.
Da qui al più generale limite non solo del populismo italiano, ma dei populismi in generale, riferendoci in particolare a quelli nord-americano (fine Ottocento; anni Venti e Trenta) e sudamericano (il peronismo per tutti) – lasciando per un momento da parte il populismo russo, che presenta aspetti troppo specifici per essere ora preso qui a riferimento. Il populismo ha sempre avuto infatti come proprio limite intrinseco la mancanza di una coscienza storica – con questo intendiamo la visione chiara delle reali forze in gioco nei rapporti di potere. Concentrato sulle immediate esigenze del “popolo”, assai genericamente inteso proprio a causa di una limitata visione del mondo, fu facilmente cancellato dalla vita politica: e lo fu proprio quando esso avrebbe invece potuto giovare enormemente non solo alla storia statunitense o argentina, ma addirittura agli equilibri continentali o mondiali.

La responsabilità del populismo italiano è dunque precisamente questa: esso giunge al potere in Italia in un momento in cui tutti i popoli, dobbiamo dire proprio tutti i popoli, a partire dall’Europa, anelano ad un cambiamento dei rapporti che dominano la vita economico-sociale, di quella politica, persino di quella culturale-educativa. Se il populismo italiano riuscisse a dare indicazioni praticamente efficaci, esso potrebbe realmente porsi alla testa di un rinnovamento epocale, che la ricchezza di idee ed esperienze dell’Italia può sicuramente alimentare con grande energia.
Perché questo avvenga, tuttavia, occorre una lettura chiara dei rapporti di forza esistenti a livello mondiale; un’interpretazione coerente delle ragioni che li hanno determinati e li conservano; la capacità di proporre un diverso modello di organizzazione sociale rispondente alle esigenze dei nostri tempi. Su clarissa.it ne parliamo da sempre: in merito al primo punto sottolineiamo la questione dell’egemonia anglosassone; in merito al secondo aspetto, proponiamo una rilettura non conformista delle vicende che, attraverso i due conflitti mondiali, hanno portato a questo tipo di Europa, e di Italia in essa; in merito al terzo aspetto, indichiamo come vera prospettiva di cambiamento quella della triarticolazione dell’organismo sociale, in quanto essa indica come si possa sfuggire alla presa delle oligarchie mondializzate, dando libera autonoma rappresentanza alle forze del lavoro e a quelle della cultura, accanto ad uno Stato che trova nella patria l’espressione della missione di un popolo.

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