Distrazioni dell’Occidente

Gli avvenimenti di Parigi sono una sanguinosa occasione di distrazione per l’Occidente: sia l’attacco a Charlie Hebdo davvero un’operazione di guerra dell’estremismo islamico contro la Francia, o un aggiornato esempio di strategia della tensione per portare l’Europa a intervenire in Medio Oriente, questo attacco ha messo in secondo piano un avvenimento di portata storica.
Lo scorso 28 dicembre 2014, infatti, la Nato e gli Usa hanno posto fine alle operazioni militari congiunte ISAF e Enduring Freedom in Aghanistan, dopo 13 lunghi anni (2001-2014) di vera e propria guerra. Non le possiamo certo definire come operazioni di peace keeping se leggiamo le nude cifre. Truppe impiegate: una media di oltre 60mila uomini, con picco di 140mila. Caduti della coalizione: 3485, di cui 53 italiani. Perdite tra soldati e agenti afghani: 5000 caduti nel solo 2014. Perdite fra i civili: 21.000 (aprile 2014). Profughi civili: oltre 2 milioni di afghani ancora all’estero, oltre 400mila sfollati all’interno del Paese. Costo per gli Usa: oltre 1000 miliardi di dollari, secondo il Financial Times; per l’Italia: oltre 700 milioni di euro l’anno.
Quali i risultati politico-militari di questa lunghissima guerra? Oggi i talebani conterebbero oltre 20mila uomini attivi nella guerriglia, e fra loro si celerebbe ancora il leader spirituale del movimento, il Mullah Omar, sopravvissuto, secondo opinione concorde dell’intelligence occidentale, a ben tredici anni di caccia all’uomo. Essi controllano larga parte del territorio afghano e sono perfettamente in grado di colpire persino nella capitale Kabul. Dunque, l’obiettivo di cancellare il terrorismo e l’estremismo talebano è stato completamente mancato.
Quanto al democracy building, di cui i massmedia internazionali hanno sempre fatto gran vanto, in Afghanistan la democrazia è un’espressione retorica, dato il livello di corruzione, il predominio dei grandi gruppi etnici e delle famiglie che li guidano, la presenza di "signori della guerra" che condizionano qualsiasi coalizione di governo, l’incidenza finanziaria della produzione e del traffico della droga, sola risorsa produttiva efficiente nell’economia locale, oltre gli aiuti internazionali.
Nel suo discorso del 28 dicembre, il presidente Obama ha parlato di una "conclusione responsabile" dell’operazione ISAF – Enduring Freedom, ma a ben pochi commentatori questa definizione è sembrata qualcosa di diverso dall’ammissione di una vera e propria sconfitta, dato che, a parere dello stesso capo di Stato americano, l’Afghanistan rimane "un luogo pericoloso", e quanto lo sia lo dicono chiaramente le cifre che abbiamo appena ricordato.
Un evento di questa portata avrebbe dovuto imporre all’Occidente una valutazione seria e spassionata del proprio interventismo in Medio Oriente: strategia che, a fronte di decine di migliaia di vittime, della disintegrazione di interi Stati come la Siria e l’Iraq, oltre l’Afghanistan, di immense sofferenze per la popolazione, dimostra di non avere raggiunto nessuno degli scopi presentati all’opinione pubblica come obiettivi strategici irrinunciabili per il mondo libero. Lo conferma del resto la vertiginosa ascesa politico-militare del Califfato Islamico, possibile prossimo obiettivo degli alleati nordatlantici, grazie ad eventi come quello di Parigi.
La missione in Afghanistan sembra tuttavia destinata a proseguire, sia pure sotto una nuova veste, quella cioè di una non-combat mission, col nome di Resolute Support. Fra i suoi previsti 12-13mila effettivi, ci saranno probabilmente anche 800-1000 soldati italiani (oggi sono 3mila). Con quali possibilità di riuscita? Secondo esperti dell’US Government Accountability Office solo il 7% dei battaglioni dell’esercito regolare afghano e solo il 9% delle unità della polizia governativa sarebbero in grado di operare autonomamente senza l’assistenza della Nato e degli Usa. Mentre altri esperti ipotizzano che le forze armate afghane passino "da uno strumento militare attualmente di 352.000 unità a uno di 228.000, con il rischio di congedare circa 124.000 uomini che, trovandosi improvvisamente disoccupati e "traditi" nelle aspettative, potrebbero riempire le fila dell’insurgency" (F. Atzeni, "Afghanistan dopo il 2014: la tomba della Nato", ISPI, Analysis No. 185, Luglio 2013, p. 3: ricordiamo che l’Autore è un militare italiano). Esattamente come accaduto in Iraq, dove parecchi fra questi disoccupati e reduci sono finiti nelle fila dell’Isis, elevandone la capacità bellica.
A coloro quindi che nuovamente oggi invocano crociate contro l’estremismo islamista, grazie all’opportunità loro offerta dalla strage di Parigi, ci sentiamo di consigliare una più accurata lettura di come tutte le crociate occidentali siano state costruite e realizzate, quelle del nuovo millennio in spregio, per esempio, del dovere di un’informazione veritiera e del diritto ad un controllo democratico su decisioni che riguardano la pace e la guerra. Agli odierni guerrafondai (che in genere siedono nei parlamenti, nelle redazioni occidentali, nei centri studi, e che mai vediamo rischiare la pelle sui campi di battaglia, dove invece finiscono i figli del popolo), suggeriamo poi di considerare con la dovuta attenzione la lezione afghana, per evitare altre sconfitte, sconfitte di cui l’Occidente non ha certo bisogno, data la sua crisi epocale.
Forse una migliore conoscenza del Medio Oriente, della sua storia, delle nobili religioni sorte in esso, forse un maggiore rispetto di ciò che da esse l’Occidente può ancora apprendere, sarebbe il migliore strumento per neutralizzare le centrali terroristiche, ovunque esse si nascondano. NO Charlie NO Chérif, dunque, almeno per quel che ci riguarda.
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