Patria Coscienza Libertà

I settant’anni dall’uccisione di Giovanni Gentile non è anniversario destinato alla celebrazione nei mass-media. Ritorna ora all’attenzione per la recente uscita di un nuovo volume di Luciano Mecacci, Ghirlanda Fiorentina, edito da Adelphi, che mi ha costretto a risfogliare anche il classico La Sentenza di Luciano Canfora.
Nel leggere e rileggere questi testi, ognuno a modo suo coraggioso, per avere imposto una revisione storica di verità per troppo tempo date per scontate, mentre nell’anima sale un malessere, nella mente affiorano considerazioni inevitabili, settant’anni dopo, come già lo erano cinquant’anni dopo.
Una per tutte: le forze che, secondo questi storici, hanno preparato, commissionato, giustificato intellettualmente e politicamente l’omicidio, sono le stesse che hanno diretto e dirigono il nostro Paese da settant’anni. Le stesse forze che lo costringono in uno stato di sudditanza rispetto ai "poteri forti" mondiali, gli stessi appunto che stilarono la sentenza di morte di Giovanni Gentile, eseguita il 15 aprile 1944 a Firenze.
Quella complessa orditura fa infatti riferimento, anche nel caso di questa uccisione, a figure come quella del professor Concetto Marchesi, intellettuale di gran livello, dirigente comunista e insieme massone, dunque internazionalista e insieme interlocutore privilegiato dei servizi alleati: del colonnello Cecil L. Rosebery, capo del SOE britannico, per esempio, o di Allen Dulles, responsabile OSS in Europa, poi capo della CIA nel dopoguerra. Orditura che coordina uomini che, grazie alle loro entrature nel mondo della finanza internazionale, dai loro tranquilli e protetti rifugi in Svizzera, smistano agli alleati, insieme a informazioni preziose (obiettivi militari, industriali, ecc.) anche "l’indicazione di personaggi del fascismo da additare attraverso Radio Londra come bersagli", secondo quanto scriveva Canfora. Uomini, come Paolo Treves, anch’egli massone di elevato livello, che da Londra lancia, a ordinare l’omicidio di Gentile, il fatidico messaggio, di conio massonico, "la spada deve essere spezzata".
Colpendo Giovanni Gentile, questi personaggi hanno davvero fatto avanzare di un centimetro la libertà del nostro Paese? Bastano per rispondere, anche oggi, le amare parole che un fuoriuscito antifascista come Gaetano Salvemini scriveva già nel dicembre 1944 ad Ernesto Rossi:
"L’Italia non è più che una sfera d’influenza inglese, una colonia inglese, una seconda Irlanda".
Quello stesso Salvemini che, nel 1947, conosciuto il testo del trattato di pace con gli Alleati, scriveva:
"Non vedo che cosa i vincitori avrebbero potuto fare di peggio se gli Italiani avessero tutti continuato a battersi disperatamente fino all’ultimo momento ai servizi di Hitler. Le clausole territoriali del trattato di pace sono ripugnanti ad ogni senso di giustizia. Il trattato di pace è terribile per le infinite servitù economiche con cui aggrava in permanenza il popolo italiano".
Eppure, proprio Giovanni Gentile, sul Corriere della Sera del 28 dicembre 1943, pochi mesi prima della sua morte, aveva scritto un articolo, "Ricostruire", che riportiamo per intero, in cui era ben chiaramente additato il rischio maggiore per l’Italia: ottenere, dalla "solenne menzogna d’una pace impossibile", "non la pace, ma il baratro, materiale e morale".

Ricostruire

Il sentimento della Patria è oggi vivo, direi esasperato, nell’animo di tutti gli italiani, sia pure nelle forme più varie e anche opposte. La guerra, infatti, giunta agli estremi, ha imposto a tutti, ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi giovani e bambini, la sua dura realtà e le sue funeste conseguenze, con una minaccia imminente, urgente: che è l’annientamento del Paese, vinto. E a tutti fa sentire che è ormai in gioco il tutto, e la vita stessa di ogni individuo, anche se questi s’era in passato potuto illudere che in pericolo fosse lo Stato, non lui stesso. A chi manca il pane, a chi la carne, a chi i grassi, a chi il sale, a chi il pane: incerto il domani; la proprietà, la famiglia, l’esistenza, ogni diritto in pericolo poiché in pericolo è la Nazione e la Patria è disfatta. Mai perciò questa fu più desiderata, più sospirata, mai ne fu più apprezzato il valore.
Anglofili e germanofili, antifascisti e fascisti, italiani sbandati e italiani orientati e fermi al posto di combattimento discuteranno per anni di chi sia stata la colpa, e quale sia la strada per tornare alla luce. Ma urge su tutti, problema di vita o di morte, la necessità della ricostruzione perché tutti vivono la tragedia del presente, da cui bisogna uscire al più presto possibile; sentono tutti, ormai, il morso implacabile della guerra.
Dopo l’ubriacatura dei quarantacinque giorni una scossa tremenda ha fatto aprire gli occhi agl’italiani esterrefatti pel crollo del mondo in cui erano vissuti come in un sogno. Non hanno più torvato quella monarchia all’ombra della quale eran nati e pensavano di morire. Non hanno più trovato autorità che li reggesse, forze armate che presidiassero il Paese a garanzia di una volontà direttiva; l’Italia era in balia degli stranieri, spezzata in due, teatro di una guerra più feroce che mai: una legge di ferro, da stritolare ogni velleità di resistenza. Ha visto spalancato davanti a sé un abisso in cui precipitava l’Italia e tutti gli Italiani. Ecco cos’era la resa senza condizioni: non la pace, ma il baratro, materiale e morale.
E allora? Non restava che negare la legittimità della resa, smentire chi l’aveva perpetrata, puntare i piedi sull’orlo dell’abisso per non cadervi dentro; raccogliere tutte le energie in uno sforzo supremo per riaffermare il diritto dell’Italia ad esistere, per dimostrare che esiste, vive, non abdica alla sua volontà; e che non consente, che resiste e resisterà, che potrà magari soccombere, ma con onore. Non è questo il bisogno di tutti i cuori? Non sentono tutti che l’onore non è una parola vana, ma il bisogno insopprimibile di non rinnegare se stessi? Anche una grande fiamma può divenire piccola favilla; ma anche questa, se non si spegne, può tornare a dilatarsi in un vasto incendio.
I popoli non muoiono se alle sconfitte sopravvive indomita la loro volontà di indipendenza. In questa volontà è la vita. Non distruggere tale volontà, questa la condizione per non perire.
Comunque, volere se stessi, la Patria. Costruire questo volere, lo spirito, la coscienza nazionale. Ond’è che i partiti ci possono dividere; ma c’è un sentimento che ci unisce: che l’Italia sia, abbia coscienza di sé, come carattere e personalità morale.
Quindi la funzione essenziale della cultura che è arte, scienza e genio, ma è tradizione; e come coscienza profonda di questa, unità fondamentale comune, bisogno di concordia degli animi, rinvio di tutto quello che può dividere, cessazione delle lotte, tranne quella vitale contro i sobillatori, i traditori, venduti o in buona fede, ma sadisticamente ebbri di sterminio.
I fascisti hanno preso, come ne avevano il dovere, l’iniziativa della riscossa, e perciò essi per primi devono dare l’esempio di sapere gettare nel fuoco ogni spirito di vendetta e di fazione, e mettere al di sopra dello stesso Partito costantemente la Patria. E se il Partito, nella sua organizzazione nazionale, alla dipendenza dei capi delle provincie, ha in mano, come organo dello Stato, la responsabilità del potere, egli deve ricordarsi che la sua funzione delicatissima va esercitata più che mai con largo spirito pacificatore e costruttivo.
Perché questo è tempo di costruire. Tanto si è distrutto, che, se qualche scoria del vecchio costume deve tuttavia cadere, se uomini di un tempo nefasto devono scomparire, se istituti devono radicalmente trasformarsi, tutto può farsi in modo che chi ne abbia a soffrire possa riconoscere l’obiettiva necessità dei provvedimenti che derivano da un principio altamente proclamato che li giustifica. Non arbitrio né violenze; ma impero d’una legge imposta dalle necessità della Patria da ricostruire.
Colpire dunque il meno possibile; andare incontro alle masse per conquistarne la fiducia e richiamarle alla coscienza del comune dovere. Non insistere sempre sui tradimenti, che disonorano la Nazione e non soltanto i colpevoli, se questi erano a capo della Nazione. Non perseguitare per il gusto di una giustizia che si compia anche a danno del Paese; sentire una volta la nausea degli scandali, che era logico fossero inscenati quando si trattava di preparare l’obbrobrio dell’8 settembre e prostrare il Paese; ma non possono entrare nel programma della ricostruzione, che richiede rinnovata e salda fiducia del Paese nelle sue forze morali. La giustizia tanto meglio può adempiere il suo ufficio sacrosanto quanto più si sottrae alla furia e alla pressione della piazza.
Ci sono tante colpe da espiare, tanti torti da riparare; tanto male che un doveroso esame di coscienza ci può rimproverare. Ma oltre il male c’è il bene, che ora più che mai bisogna rammentare se non si vuol finire nella disperazione: tanto bene, antico e recente, che la storia non potrà cancellare, poiché nella storia è infatti il nostro titolo a vivere, la nostra ragione per rialzarci in piedi e guardare in faccia nemici ed amici, ed affermare il nostro diritto, che il tradimento di dieci, cento, mille italiani, sommersi ormai nell’onta di un giudizio universale, non può distruggere.
Il popolo sano, che non ha colpa della sventura in cui un giorno fu precipitato con la solenne menzogna d’una pace impossibile, è pronto all’appello de’ suoi morti; e si leverà nella fiera coscienza della sua dignità storica ove la voce che ripete quell’appello sonerà schietta, semplice, sincera come la stessa voce della Patria. La quale non è un partito per cui si può per mille motivi accidentali non essere d’accordo; ma la nostra stessa terra e la nostra vita, il passato da cui, anche volendo, non ci si può staccare, e l’avvenire, il solo possibile avvenire, della nostra vita e della vita dei nostri figli.

Giovanni Gentile
Corriere della Sera, 28 dicembre1943

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