Corte Penale Internazionale: alte aspettative, scarsi risultati

Sono ormai trascorsi oltre 11 anni da quel lontano 1° Luglio 2002, data di entrata in vigore dello Statuto di Roma, trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale, e ben 15 dalla firma dello stesso.
In passato è stata effettuata un’ampia dissertazione in materia di competenze, tutela giuridica e funzionamento della Corte , mentre nel 2006 la redazione di Clarissa si è occupata di tracciare un primo bilancio relativo all’operato della Corte.
Dunque in questa sede non ci addentriamo in questioni eccessivamente tecniche. Quello che interessa qui è piuttosto tracciare un bilancio aggiornato di quanto finora realizzato dalla Corte, di ciò che è stato fatto e di ciò che resta ancora da fare per assicurare al Tribunale il pieno operato e garantire eque riparazioni per le vittime.
Innanzitutto è il caso di fornire alcuni numeri, per capire l’importanza e la portata di tale istituto internazionale: lo Statuto di Roma è stato sottoscritto – ad oggi – da 139 Paesi ed è stato ratificato da 122. Sono numeri importanti, senza ombra di dubbio. Però la questione è un’altra: se infatti non ci limitiamo all’aspetto quantitativo ma analizziamo anche quello qualitativo, scopriamo che tra i Paesi firmatari ma che non hanno ancora ratificato lo Statuto di Roma (e chissà se e quando lo faranno) ci sono Stati come Israele, gli Stati Uniti e la Russia, questi ultimi dotati di potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, così come la Cina che addirittura non ha neanche firmato lo Statuto. Tale potere di veto potrebbe essere da loro utilizzato per evitare il deferimento alla Corte di un loro cittadino o di un cittadino di uno dei Paesi satelliti. In considerazione del peso assai rilevante che questi Stati hanno nel sistema internazionale e dell’elevato numero di Stati che si trovano sotto l’ombrello protettivo dell’una o dell’altra superpotenza, è facilmente intuibile come l’ampia autonomia di cui la Corte gode è in realtà una mera utopia.
A riprova di ciò è sufficiente ricordare due eventi che vedono in entrambi i casi il diretto coinvolgimento degli Stati Uniti: gli USA, subito dopo la firma dello Statuto di Roma, hanno stipulato accordi di eccezione con un discreto numero di Stati firmatari dello Statuto onde evitare che questi ultimi consegnassero alla Corte personale statunitense quantunque il crimine fosse stato commesso nel loro territorio.
Il secondo evento riguarda la crisi libica del 2011; il Consiglio di Sicurezza votò la Risoluzione n. 1970, all’interno della quale, al punto 6, così si legge:
«[Il Consiglio di Sicurezza] Decide che i cittadini, i funzionari attuali o gli ex funzionari o il personale di uno Stato non libico che non è parte dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale è soggetto alla giurisdizione esclusiva di tale Stato per tutti i presunti atti od omissioni derivanti o relativi ad operazioni in Libia stabiliti o autorizzati dal Consiglio, a meno che tale giurisdizione esclusiva sia stata rifiutata espressamente da parte dello Stato in questione»(1).
In buona sostanza si tratta di una vera e propria eccezione a vantaggio dei cittadini di quegli Stati che non hanno ratificato lo Statuto di Roma ma che sarebbero poi stati impegnati in missioni autorizzate dall’ONU in Libia, come – guarda caso – gli Stati Uniti.
Fatte queste premesse, risulta evidente come la Corte sia costretta ad operare in spazi sempre più ristretti, in chiara antitesi rispetto a quell’autonomia giurisdizionale che invece viene sancita nello Statuto di Roma. Ed infatti, ad ulteriore riprova di quanto appena affermato, è sufficiente contare il numero di verdetti emessi dalla Corte: solamente uno in 11 anni di attività, nei confronti del congolese Thomas Lubanga, una figura certamente non di spicco, macchiatosi di crimini legati all’arruolamento di bambini soldato.
Il quadro che ne viene fuori, dopo quest’ampia introduzione, è a tinte fosche, estremamente cupo. Nonostante le roboanti dichiarazioni formali di alcuni attori internazionali, la realtà risulta completamente diversa.
Citiamo a puro titolo di esempio la dichiarazione dell’Alto Rappresentante UE Caherine Ashton dello scorso 17 Luglio, in occasione del 15° anniversario dello Statuto di Roma:
«Oggi si celebra il quindicesimo anniversario dell’adozione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, che ha segnato lo storico impegno di assicurare la prevenzione e la deterrenza di atrocità. La CPI è il primo giudice penale internazionale permanente ed i gravi crimini di sua competenza sono fonte di preoccupazione per la comunità internazionale nel suo insieme. Portare avanti questa promessa di giustizia per le vittime di questi crimini è sia un imperativo morale che un contributo essenziale alla pace, alla sicurezza ed al benessere del mondo. L’Unione europea ed i suoi Stati membri sono fortemente impegnati a preservare l’indipendenza della Corte penale internazionale e di promuovere l’universalità e l’integrità dello Statuto di Roma.
Alla prima Conferenza di revisione dello Statuto di Roma tenutasi a Kampala nel 2010, gli Stati Parte lo Statuto di Roma hanno deciso di festeggiare il 17 luglio come il Giorno della Giustizia penale internazionale. Mentre gli Stati membri hanno la responsabilità primaria di indagare e perseguire le atrocità, la Corte penale internazionale si è evoluta in uno strumento chiave nella lotta contro l’impunità, impedendo crimini futuri e promuovendo un ordine internazionale basato sullo stato di diritto. La giustizia penale internazionale avrà successo se i sistemi nazionali di giustizia di ogni Stato funzioneranno in modo efficace, consentendo in tal modo alla Corte penale internazionale di svolgere il suo ruolo, che è quello di essere un tribunale di ultima istanza, integrando le giurisdizioni nazionali».(2)
Ancora, sempre nella stessa giornata, il Ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, così si è espressa:
«[…] la Corte Penale Internazionale è strumento di pace e di diplomazia preventiva […]»(3).
È il caso di sottolineare in tali dichiarazioni la ricorrenza di concetti quali deterrenza e prevenzione. Sono – questi – concetti ricorrenti non solo nelle dichiarazioni appena citate ma, più in generale, sembra essere un’opinione diffusa tra studiosi ed internazionalisti quella che la Corte possa operare soprattutto come deterrente piuttosto che come strumento di repressione di crimini già commessi.
Concludiamo con una serie di domande: come mai il Presidente del Sudan, Omar Hasan Ahmad al-Bashir, contro cui la Corte ha spiccato un mandato d’arresto, continua a viaggiare indisturbato in Africa e nei Paesi arabi? Come mai il presidente siriano Bashar-al Assad continua a compiere crimini senza preoccuparsi che un giorno potrebbe comparire di fronte alla Corte? E come mai la giustizia penale sembra essere quasi esclusivamente interessata a quanto avviene nei Paesi del terzo mondo? È mai possibile che nel mondo occidentale non vengano commessi crimini internazionali di alcun tipo?
Continuiamo a cercare le risposte.

1) http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/1970(2011)
2) http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_Data/docs/pressdata/en/cfsp/138104.pdf
3)http://www.esteri.it/MAE/IT/Sala_Stampa/ArchivioNotizie/Approfondimenti/2013/07/20130717_Giorno_Giustizia_Penale_Internazionale.htm

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