4 novembre 1942 – 4 novembre 2012

Come fu che la scorsa notte, durante l’improvviso attacco di quei carri armati, l’artigliere paracadutista Esposito prese improvvisamente a cantare mentre il pezzo sparava a ritmo accelerato? L’ufficiale che mi raccontò l’episodio non me lo seppe precisare. Fossero i compagni serventi a dirgli «Gennarino, canta», come nelle sere tranquille di luna sul deserto; fosse un suo istintivo impulso d’entusiasmo nello sparare così, in caccia, contro quei bestioni avanzanti nella notte, certo è che, nel frastuono del combattimento, si udì improvvisamente la voce d’un cantore levarsi dalla linea.
«Chi è?» chiese dal vicino osservatorio il colonnello, che non era un uomo da ammettere facezie in quel frangente.
Un sottufficiale si informò e rispose: «È Esposito, quell’artigliere della batteria che da borghese faceva il posteggiatore. Devo telefonare che lo facciano tacere?».
Il colonnello, curvo a sbinocolare da una feritoia nel buio striato di vampe, esitò un istante e rispose con un’ombra di sorriso: «No. Lasciate pure che canti».
Un’ora buona durò lo scorcio di battaglia fra quel centinaio di carri che s’intignavano a sfondare le nostre posizioni di Munassib e i nostri che, dalle buche dei capisaldi, reagivano col fuoco e con contrassalti rabbiosi. E per un’ora si udì la voce di Gennarino, smozzicata dallo schianto ringhioso dei 47. Doveva certo cantare a squarciagola il posteggiatore di Posillipo, ché echi di canzoni, nelle pause di silenzio balistico, giungevano con la brezza notturna sino ai centri di fuoco avanzati, facendo volgere un istante volti stupiti e sorridenti. «Chi è? È Esposito. È Gennarino che canta». E i ragazzi riprendevano a sparare di miglior lena, animati da quella voce come da una fanfara eroica.
Il canto durò un’ora e poi tacque di colpo, travolto da uno schianto improvviso che si abbatté assai vicino all’osservatorio, provocando una valanga di sacchetti a terra.
Vi fu nella notte un gracidìo multiplo di cicale telefoniche. «Che c’è? Colpo in linea?». «Sissignore, in batteria… Danni non gravi a un pezzo. Qualche ferito».
Poi la sparatoria si illanguidì, cessò e telefonarono dalla linea che i carri inglesi ripiegavano. Sette o otto carcasse in fiamme illuminavano la notte di bagliori.
Più tardi il colonnello si recò al posto di medicazione a visitare i feriti. Ve n’erano una trentina e fra questi Gennarino, disteso pallidissimo su una barella. Aveva una feritaccia al ventre e il dottore fece cenno ch’era assai grave.
L’ufficiale si chinò sull’uomo che soffriva cosciente, a occhi aperti, e gli mormorò qualche parola di plauso e d’incoraggiamento. Gennarino contrasse il volto in una specie di sorriso e prese a parlare, ansante, con un filo di voce:
«Scusate, signor colonnello, se cantavo… ma volevo che quei fetentoni sentissero… che c’era pure Gennarino Esposito». Una pausa e poi, come ricordando: «Me ne hanno dati di calci quando ero guaglione… e io, quant’è vero Iddio, non ho mai voluto cantare pe’ loro… Oggi è stata la mia vendetta… serenata con accompagnamento di cannone…»

A.B. Luserna, Paolo Caccia Dominioni, I ragazzi della Folgore, Loganesi, Milano, 1970, pp. 106-107.

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