Iraq: vittoria o sconfitta degli USA?

Negli scorsi giorni si è concluso il ritiro delle truppe americane dall’Iraq; ritiro pressoché completo: resteranno infatti (ufficialmente) soltanto 150 soldati USA, a difesa dell’elefantiaca ambasciata americana a Baghdad, ed un migliaio di "contractors", cioè mercenari pagati sino a mille dollari al giorno ed incaricati di lavori di "sorveglianza" degli interessi economici statunitensi.
La fine dell’occupazione dell’Iraq ha però qualcosa che stona con la prassi delle guerre vinte (ma stavolta hanno vinto?) dagli USA; tale prassi prevede infatti l’occupazione del Paese nemico, l’annientamento degli avversari, il processo "purificatore" ai vinti (in questo caso l’impiccagione di Saddam Hussein e di altri gerarchi), la costituzione di un governo "amico" ed, infine, la creazione di un sistema di presidio militare che sostituisca l’occupazione vera e propria attraverso la creazione di basi militari, al di fuori di qualsiasi giurisdizione del Paese ospitante, che assicurino il controllo interno e la proiezione verso eventuali Paesi vicini. Nel nostro caso viene a mancare l’ultimo passo: cioè la presenza di basi militari permanenti in territorio iracheno. Questa mancanza è dovuta al rifiuto categorico del governo di Nouri Al Maliki di concedere l’incontrollabilità delle attività militari e l’impunità civile e penale alle eventuali truppe americane restanti. Questo rifiuto è, a sua volta, strettamente legato al non verificarsi di un’altra condizione prima indicata: la creazione di un governo "amico", cioè pronto a qualsiasi collaborazione con l’ex occupante. Infatti delle tre componenti etnico/confessionali che compongono l’Iraq (curdi, sunniti, sciiti) nessuna ha manifestato vera gratitudine e sottomissione verso gli americani; ovviamente non i sunniti, usciti umiliati e ridimensionati dalla cancellazione del partito Baath e dall’uccisione del loro leader; nemmeno i curdi a causa il palese appoggio che gli USA danno alla Turchia nella feroce repressione, accompagnata da sconfinamenti militari turchi in territorio iracheno, dell’irredentismo curdo nelle terre contese. Infine nemmeno gli sciiti, in maggioranza nel Paese, che in teoria sono stati "liberati" dal giogo di Saddam Hussein, si sono dimostrati molto caldi verso gli americani: i loro partiti (il Da’wa del premier Al Maliki, lo Sciri del vice premier Abd Al Mahdi ed il raggruppamento dell’influente clerico Moqtada Al Sadr) sono infatti, chi più chi meno, strettamente legati alla Potenza sciita egemone: l’Iran, fiero nemico degli Stati Uniti e mai si presterebbero a manovre anti iraniane che, fatalmente, avrebbero origine da basi statunitensi in Iraq non controllabili e non censurabili.
A questo punto Barack Obama aveva due opzioni: o forzare la mano e, comunque, lasciare un presidio militare, ricordando agli iracheni che gli USA avevano vinto la guerra contro l’Iraq e non solo contro Saddam Hussein (con tutte le conseguenze del caso), ovvero rinunciare ad una presenza militare definitiva. Obama, stavolta saggiamente, ha scelto la seconda opzione.

Le procedure di disimpegno delle truppe statunitensi al suolo iracheno, peraltro, non sono certo state certamente esaltanti: alcune divisioni aviotrasportate hanno organizzato una cerimonia d’addio all’aeroporto di Baghdad con grande spiegamento di elicotteri da combattimento che, fermi a mezz’aria, controllavano che non ci fossero nidi di insorti muniti di lanciarazzi; il Segretario alla difesa, Leon Panetta, è arrivato all’ultimo momento, senza che ne fosse stata annunciata la presenza, mentre i posti riservati per il presidente iracheno Talabani e per il premier Al Maliki sono rimasti, molto significativamente, vuoti.
Insomma, un abbandono sotto tono di un Paese non sottomesso, molto simile a quello di Saigon nella primavera del 1975, piuttosto che il coronamento di un lungo processo di "esportazione della democrazia", che avrebbe dovuto essere accompagnato da festose manifestazioni di popolo.
A tal proposito Robert Pipes, autorevole "falco" repubblicano molto vicino all’ex presidente G.W.Bush, parla chiaramente di "sconfitta". "Sognavamo per l’Iraq", dice Pipes, "un nuovo 1945, come fu per l’Italia, la Germania ed il Giappone; cioè conquiste di Nazioni in cui avevamo portato la democrazia ed imposto la condivisione dei futuri interessi statunitensi, quali che essi fossero. Lasciamo invece un Paese ancora instabile, non dichiaratamente nostro nemico, ma nemmeno pronto a seguirci nelle nostre strategie, un Paese infido di cui non è possibile stabilire, al presente, il comportamento politico. Questa io la chiamo una sconfitta."

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