Opportunità oltre la crisi. Per una nuova organizzazione economica

Sono ormai molti gli osservatori e gli analisti che riconoscono il significato di svolta degli avvenimenti che da circa due mesi sconvolgono le economie dell’Occidente. Non sono pochi nemmeno quelli che collegano logicamente questi avvenimenti alla cosiddetta "crisi dei mutui", sviluppatasi a partire dall’estate del 2007, che richiese misure straordinarie di salvataggio da parte del governo Usa e dei governi europei, per evitare il fallimento di molte istituzioni finanziarie mondiali, gravate nei propri bilanci dall’azzeramento del valore di ingenti capitali speculativi: una serie di misure che, utilizzando denaro pubblico per rifornire le casse delle grandi banche, hanno ovviamente aumentato il debito degli Stati occidentali e ne hanno rapidamente ridotto la capacità di intervento.
Sono fatti questi di cui Clarissa si occupò fin dall’autunno 2007 con rimarchevole precisione, indicando, in un momento in cui pochissimi ancora lo facevano, la vastità degli effetti che, cifre alla mano, quella crisi speculativa avrebbe potuto provocare sull’economia mondiale: pur non appartenendo agli specialisti dell’analisi finanziaria, non siamo certo stati smentiti dai fatti, cosa che dimostra che è possibile anche ai non addetti ai lavori comprendere e in certa misura prevedere i rischi del sistema che domina l’economia mondiale da decenni.
Può apparire strano quindi che le classi dirigenti occidentali, nelle quali siedono come ministri o come consiglieri insigni economisti, non abbiano potuto comprendere quello che non specialisti erano già allora in grado di indicare al pubblico come possibile conseguenza del fenomeno che la speculazione dei subprime aveva innescato. Ma non è più così strano, se si considera che le attuali classi dirigenti sono programmate per assoggettarsi all’economia in quanto ne hanno assimilato, senza alcuna personale elaborazione, gli assunti teorici, i luoghi comuni ed i rituali, nonostante, come abbiamo avuto modo di dimostrare in altra sede, essi siano assolutamente discutibili e del tutto privi della valenza scientifica che si attribuiscono. Per questo, anche quei leader che si sono voluti proporre alle proprie opinioni pubbliche come i più fortemente decisionisti (gli Obama, i Sarkozy, i Berlusconi), siedono ora sui banchi di governo come scolaretti che hanno sbagliato il compito, pronti ad essere messi dietro la lavagna dal fantomatico "mercato", cui i mass-media continuano a riferirsi come alla divinità plasmatrice dei destini dei nostri popoli.
Per questo c’è davvero ben poco da meravigliarsi del fatto che l’economia abbia preso il sopravvento sulla politica, come ora si legge ovunque sui giornali: l’economia infatti ha strutturalmente il predominio sulle società occidentali da almeno un secolo, da quando cioè il capitalismo occidentale sviluppato dai Paesi anglo-sassoni è divenuto il modello mondiale di riferimento delle società contemporanee. Non a caso, oggi la crisi del capitalismo occidentale coincide puntualmente con la maggiore crisi dell’egemonia mondiale anglo-sassone da un secolo a questa parte; non a caso, anche, questa crisi sta aprendo il varco ad un nuovo modello, quello cinese, che, sommando tradizione del "dispotismo orientale", etica confuciana e capitalismo di Stato di ascendenza marxista-leninista, si propone come il possibile Leviatano del terzo millennio.
Stupisce quindi semmai che nessuno dei ricordati grandi decisori politici sollevi oggi la questione di fondo, vale a dire che il modello economico alle cui regole essi debbono, ancora una volta, assoggettarsi, sta dimostrando il proprio decisivo fallimento. Perché di questo in definitiva si tratta: la crisi odierna è epocale in quanto rivela che i presunti assunti "scientifici" del modello dell’economia capitalista anglo-sassone sono erronei e sono per questo incapaci di conciliare le forze portanti dell’economia moderna (lavoro, capitale, consumo) con gli assunti etici delle nostre società – libertà, eguaglianza, fraternità.
Non è difficile quindi profetizzare che le misure che i nostri governi stanno adottando, al di là della loro intrinseca iniquità, in quanto impongono ai cittadini di riempire con denaro frutto del proprio lavoro le bolle speculative costruite dalle grandi istituzioni finanziarie, sono destinate a non risolvere i problemi attuali. Non è difficile sottolineare il fatto che, mentre vengono adottati con grande facilità e velocità provvedimenti che colpiscono la capacità di sopravvivenza economica di milioni di persone, pur dotate di specifici diritti costituzionalmente garantiti, gli stessi governi sono incapaci di adottare anche minimi provvedimenti necessari ad ostacolare la speculazione finanziaria, nonostante i suoi protagonisti ed i suoi strumenti siano chiaramente individuabili, come abbiamo già spiegato altrove. Non è difficile evidenziare la pochezza delle proposte che, dagli ambienti confindustriali (si veda ad esempio il manifesto in 9 punti del Sole 24 Ore) come da quelli sindacali, vengono fornite ad una platea di imprenditori, lavoratori e professionisti che pure da essi attendono la difesa dei propri diritti ed interessi: anche queste risposte infatti sono in tutto figlie del pensiero unico economico che domina le nostre società e non riescono perciò a disegnare possibili alternative al modello attuale.
Il compito positivo che la gravità della situazione impone è, invece, proprio questo: ripensare l’organizzazione sociale delle nostre comunità, partendo da assunti diversi da quelli che ci vengono presentati come verbo indiscutibile. Si tratta della sola via per rendere questa crisi occasione di rinnovamento, ridando opportunità e speranze a milioni di persone nei nostri Paesi.
Ci limitiamo in questa sede a indicare tre punti essenziali, nella fondata speranza che proporli ora susciti attenzione e dibattito e che da essi si possa partire per dare inizio ad un cambiamento che non è solo alla nostra portata, ma è precisamente quanto ci viene richiesto dagli avvenimenti in cui, ricordiamolo, volenti o no, tutti siamo coinvolti, giacché, come scriveva Rudolf Steiner: "Quel che distingue i processi economici è che noi ci troviamo dentro di essi; dobbiamo dunque osservarli dall’interno. Dobbiamo sentirci inseriti nei processi economici, come un essere che si trovi dentro la storta del chimico dove si elabora una sostanza sotto l’azione del calore". Per questo l’economia è una "scienza" così diversa da come la pensano e vogliono farla pensare gli economisti!
In primo luogo, occorre attribuire a imprenditori, produttori e consumatori il potere di autogoverno dell’economia, utilizzando se del caso istituzioni già delineate nella nostra costituzione, quale potrebbe essere un Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro ovviamente del tutto rivisto per modalità di costituzione e di funzionamento. Non è quindi più sufficiente la classica dialettica concertativa fra organizzazioni datoriali da una parte e sindacati delle maestranze dall’altra, con l’aiuto della mediazione politico-partitica: occorre che in una sede idonea siedano, portandone tutte insieme la responsabilità, appunto le diverse componenti del ciclo economico (capitale, lavoro, consumo) per sviluppare un intendimento comune da cui scaturiscano decisioni condivise e coordinate sull’economia, ove necessario in collegamento con analoghe istituzioni che sono già sviluppabili ad esempio a livello europeo, potenziando organismi già esistenti, ma attualmente investiti di ruoli puramente consultivi.
In secondo luogo, deve essere affrontata in modo nuovo la questione della formazione della moneta e del credito. La moneta ha utilità in quanto corrisponde a valori reali e non apparenti e, per tale ragione fondamentale, la sua creazione deve trovare corrispondenza in proporzioni ragionevoli nella presenza di beni, servizi o capitali realmente fruibili. La sua creazione deve essere attribuita allora alle stesse istituzioni associative che hanno il governo dell’economia, e deve essere regolata sulla base delle esigenze effettive della produzione e del consumo: non potranno più essere la banche a detenere questo potere fondamentale, trasformatosi nel tempo nel potere di "creare debito", fino all’ideazione di strumenti speculativi che non possono più trovare spazio in un’economia sana. Di conseguenza il credito deve tornare anche ad acquisire quella funzione sociale, a suo tempo prevista ad esempio dagli ordinamenti italiani, che le normative europee degli anni Novanta hanno invece significativamente eliminato, per farne strumento di puro profitto.
Se vediamo infatti la formazione del capitale originarsi non dal mercato divinizzato ma dalle capacità di innovazione, organizzazione e gestione produttiva espresse dalle libere facoltà dell’imprenditore, è chiaro che il processo di finanziarizzazione dell’economia, in cui denaro genera denaro, sviluppatosi con forza crescente negli ultimi trent’anni, rappresenta la vera origine strutturale della crisi attuale. Un’origine per altro radicata in alcune delle più pericolose caratteristiche del sistema finanziario anglo-sassone, fino dalle sue origini ottocentesche: caratteristiche di asservimento dei popoli, mediante appunto un sofisticato uso speculativo del debito, cui la mondializzazione, matematizzazione e informatizzazione del sistema finanziario hanno dato enormi possibilità operative, in assenza di entità politiche dotate della volontà di contrastarne il crescente potere.
Essendo l’accumulazione del denaro improduttivo una delle non ultime premesse della speculazione finanziaria, da un lato, mentre, dall’altro, l’allocazione produttiva dei capitali rimane fondamentale per la vita economica, si pone ormai in modo pressante anche la questione della limitazione temporale del valore della moneta – già da tempo sollevata da numerosi critici del capitalismo: si tratta di un tema fondamentale che non può attendere oltre, potenziato com’è dall’enorme velocizzazione delle transazioni mediante gli strumenti elettronici, una delle non ultime concause della "volatilità" dei mercati finanziari.
In terzo luogo, conseguente a quanto appena detto, il ciclo del denaro, oltre alle fasi fondamentali dello scambio e del prestito, deve vedere potenziata, in forme per altro già attualmente prefigurate (si pensi ad esempio all’importante sviluppo delle attività dei donor internazionali), la fase del dono. Attraverso la donazione si possono e si debbono limitare i meccanismi di accumulazione di capitale oggi sottratto allo sviluppo delle libere attività economiche per essere indirizzato alla speculazione: è davvero paradossale leggere che le medesime istituzioni chiudano, per realizzare minime economie, prestigiose istituzioni culturali italiane mentre tollerano che in poche ore nelle borse centinaia di miliardi di euro vengano bruciati dalla speculazione finanziaria. È forse il maggiore, il più grave paradosso per un’economia che l’Unione Europea, nel 2000, a Lisbona, ha proclamato di voler fondare sulla conoscenza…
Mediante libere donazioni, invece, il denaro si potrà indirizzare, con maggiori benefici per il donatore di quanto oggi non sia previsto, proprio alle aree no-profit di maggiore utilità sociale, tra le quali in primo luogo dobbiamo annoverare la cultura, l’arte, l’istruzione-formazione, l’educazione – ambiti fondamentali che l’Occidente del capitalismo finanziario ha ridotto all’abbandono o alla pura strumentalizzazione politica, senza comprendere che proprio nel pieno esprimersi delle capacità spirituali dell’individuo risiede la vera forza, anche economica, dell’avvenire.

Sull’argomento:

Lavoro, debito, finanza: Crisi dei mutui e finanza mondiale, cosa ci riserva l’economia? (2007/2008)
http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=207&tema=Conferenze

Come si conquista un Paese: l’attacco della finanza internazionale all’Italia (10 luglio 2011)
http://www.clarissa.it/editoriale_int_ult.php?id=150

Padroni dell’universo e sovranità dei popoli: il caso BlackRock (luglio 2011)
http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=301&tema=Economia

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