Se Libano e Siria saltano mentre Turchia e Israele si parlano…

Il parlamento libanese in queste ore sta accanitamente discutendo la posizione da assumere rispetto alla richiesta, presentata dal Tribunale Speciale per il Libano (TSL), di incriminazione e arresto di quattro esponenti del movimento libanese Hezbollah, in relazione all’uccisione del primo ministro libanese Hariri, avvenuta il 14 febbraio 2005. Il Paese appare spaccato sulle decisioni da assumere in conseguenza della pronunzia del TSL, attesa da mesi, della quale era da tempo noto il potenziale pericolo per la stabilità del Paese dei Cedri; ancor più pericolosa nel momento in cui la vicina Siria è in preda a gravi disordini, sicuramente motivati da consistenti interne ragioni di scontento, sulle quali però influisce ed opera attivamente la volontà destabilizzatrice di vicini da tempo interessati a porre fine alla dinastia degli Assad.
Il movimento sciita Hezbollah non può che vedere come un serio pericolo per la sua stessa sopravvivenza la combinazione delle due circostanze, come dimostrano notizie di stampa israeliana secondo cui il movimento integralista libanese sta in fretta e furia facendo rientrare in Libano armamenti e strutture ancora localizzati in Siria, nel timore che il crollo del regime possa comportare la perdita di risorse fondamentali lì collocate come "retrovia" del movimento. Tutto ciò senza contare le conseguenze dell’eventuale perdita del supporto politico siriano e più in generale di una perdita di influenza della Siria in Libano, influenza che ha comunque svolto un ruolo stabilizzatore, dopo la terribile guerra civile degli anni Settanta.
È difficile non guardare con preoccupazione all’addensarsi di così alte e coincidenti tensioni in un’area da sempre cruciale per l’intero Medio Oriente: lo confermano molti segnali che provengono anche dallo Stato ebraico, dove a metà giugno ha avuto luogo una delle più imponenti esercitazioni di difesa civile, denominata Turning Point 5, che ha coinvolto decine di municipalità israeliane, messe in stato di allerta anti-missile per ore, col ripetuto risuonare delle sirene che simulavano l’attacco di centinaia di razzi a corto e medio raggio provenienti per l’appunto dalla frontiera libanese e dalla Striscia di Gaza. Come se non bastasse, si è aggiunta la notizia dello schieramento alla frontiera settentrionale di Israele di una batteria del nuovissimo sistema anti-missile Iron Dome, sino ad ora localizzate nel sud del Paese.
L’elemento nuovo tuttavia che a nostro avviso occorre considerare con speciale attenzione è rappresentato dalla Turchia che, negli ultimi mesi, ha ripreso piuttosto in sordina il proprio pieno supporto alle posizioni occidentali. Lo dimostra il fatto che Erdogan ha messo a disposizione della coalizione anti-Gheddafi ben cinque unità navali ed un sottomarino, per tenere aperto e sotto controllo il corridoio di aiuti militari da Bengasi verso Creta e Cipro, permettendo allo stesso tempo alle forze aeree della Nato di utilizzare la base militare aerea di Izmir, fornendo in tal modo un contributo determinante a sostegno degli insorti della Cirenaica, regione da sempre storicamente connessa alla Turchia.
Nello stesso tempo, il grande Paese anatolico ha voluto apparire estremamente cauto rispetto alla situazione siriana, affermando ripetutamente la volontà di non interferire negli affari interni del Paese, ma al tempo stesso, non senza evidenti ambiguità, ha lasciato operare apertamente entro i propri confini forze di opposizione al regime siriano. È chiara in questo la volontà turca di prendere gradualmente le distanze dal regime di Assad e insieme di evitare un aumento della tensione alla propria frontiera meridionale, sulla quale non possono che riflettersi pericolosamente la destabilizzazione di Siria e Libano.
Queste preoccupazioni contribuiscono a spiegare l’iniziativa di sviluppare con Israele colloqui segreti che sarebbero iniziati nel corso del mese di giugno. Il 21 giugno infatti il giornale israeliano Haaretz, a firma del giornalista Barak Ravid, precisava che questi colloqui sono formalmente sorti dall’esigenza di trovare una soluzione di compromesso sulle conclusioni del rapporto che la commissione delle Nazioni Unite dovrebbe rilasciare alla fine di luglio in merito all’attacco israeliano del maggio 2010 alla Freedom Flotilla. Proprio quando si sta tentando di organizzare una nuova operazione umanitaria di consegna via mare di aiuti alla popolazione di Gaza, il governo turco ha questa volta manifestato un’evidente riluttanza a sostenere direttamente l’iniziativa, diversamente da quanto accaduto nel 2010, quando proprio la nave turca Mavi Marmara era stata oggetto del sanguinoso intervento israeliano: Erdogan ha infatti chiesto ed ottenuto che l’organizzazione umanitaria islamica IHH, il cui ruolo era stato fondamentale l’anno scorso, si astenesse dal prendere parte all’operazione.
Ma la posta in gioco di questi colloqui è a nostro avviso molto più alta. Alla luce di quanto abbiamo già visto, sicuramente agli incerti sviluppi della situazione interna in Libano ed alla possibile caduta del regime di Bashir Assad, si somma anche una terza componente, la posizione che la Turchia assumerà rispetto alla possibile proclamazione unilaterale dello Stato palestinese nel prossimo autunno. Sono tutti passaggi decisivi nelle relazioni fra Israele e Turchia in quanto è evidente che da anni quest’ultima rimane l’unica forza nella regione di cui lo Stato ebraico debba tenere attentamente conto in ogni possibile disegno di risistemazione definitiva dell’area.
Se i colloqui segreti in corso in queste settimane supereranno il contenzioso turco-israeliano accumulatosi in questi ultimi anni, Israele potrebbe vedere grandemente ampliata la propria capacità di riprendere l’iniziativa nella regione: non è difficile supporre infatti che al centro dei colloqui di queste ore sia in primo luogo la valutazione delle reciproche posizioni sui possibili sviluppi della crisi parallela in Libano e Siria. Non si può infatti non dimenticare che tutti gli interventi israeliani in Libano sono sempre stati resi possibili dal sostanziale silenzio-assenso della Turchia, il solo Paese che avrebbe potuto credibilmente intimare un altolà a Israele e per questo assai temuta dal falco israeliano Ariel Sharon, all’epoca uno dei maggiori strateghi politico-militari dello Stato ebraico.
È il caso di chiedersi, a questo punto, cosa stia avvenendo in Turchia sul piano interno, dato che il nuovo successo elettorale delle forze politiche dell’AKP del primo ministro Erdogan non può che essere stato ottenuto, oltre che per l’indubbio consenso popolare di cui gode, anche grazie al raggiungimento di un equilibrio con i desiderata delle forze armate turche, notoriamente da sempre assai vicine agli Usa e ad Israele: un obiettivo assai delicato, che deve essere stato perseguito anche mediante un’opportuna gestione giudiziaria del caso Ergenekon, l’annosa indagine sulla "strategia della tensione" alla turca che alti gradi delle forze armate hanno diretto per anni nel Paese e che è venuta alla luce proprio quando era necessario ridimensionare il ruolo politico dei militari in Turchia. È ora possibile che, rafforzata la propria posizione politica interna e definito un equilibrio fra l’islamismo moderato al potere e lo Stato permanente turco (il "derin devlet, lo stato profondo, la forza che tira i fili del potere nel paese", come scrive Suzy Hansen), Erdogan possa anche riprendere la politica di piena collaborazione con Israele, continuando a coltivare l’ambizioso progetto di porsi come "onesto sensale" fra Occidente e Medio Oriente, con un occhio sempre rivolto alla sfera d’influenza che la Turchia coltiva nei paesi turcofoni centro-asiatici.
Se così fosse, Israele nei prossimi mesi potrebbe finalmente trovare via libera in primo luogo verso Libano e Siria, ma anche per risolvere in modo definitivo la questione Iran, ora passata in secondo piano sui media internazionali ma sempre d’attualità sul piano dei fatti, soprattutto in vista delle elezioni in quel paese programmate per il 2012, una partita decisiva per Ahmadinejad e dunque anche per lo Stato ebraico.
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