Un piano di Arabia Saudita e Usa per destabilizzare la Siria?

L’agenzia privata di stampa Champress ha pubblicato (http://www.champress.net/index.php?q=en/Article/view/86507 ) una dettagliata descrizione di un piano di destabilizzazione della Siria che sarebbe stato elaborato dall’ex ambasciatore saudita negli Stati Uniti dal 1983 al 2005, principe Bandar bin Sultan, in accordo con l’ex ambasciatore statunitense in Libano, Jeffrey Feltman, fin dal 2008.
Bandar bin Sultan è noto come un autorevolissimo esponente della classe dirigente saudita, molto vicino alla famiglia Bush, capo del consiglio nazionale di sicurezza saudita fino al 2009, coinvolto in un consistente affaire relativo a tangenti per forniture di aerei della Gran Bretagna all’Arabia Saudita.
Jeffrey Feltman, invece, è un neo-conservatore statunitense assai vicino alla lobby pro-israeliana, con stabili legami con Ariel Sharon e Karl Rove, nonché membro dell’Ufficio Piani Speciali del Pentagono, ufficio che svolse un ruolo fondamentale per la costruzione dell’intervento Usa contro l’Iraq nel 2003. Oggi assistente segretario di Stato per il Medio Oriente, Feltman è stato uno dei protagonisti della politica anti-siriana in Libano, dove è stato ambasciatore dal 2004 al 2008, nella stagione quindi della cosiddetta "rivoluzione dei cedri" (2005).
Il piano, così come dettagliatamente descritto da Champress, prevedeva la segmentazione tattica del paese in tre tipologie di aree (grandi città, piccoli centri, villaggi) e l’individuazione di cinque tipi di reti di operativi destinati a destabilizzare il Paese: giovani istruiti e disoccupati come carburante; i thugs, manovalanza di sbandati e delinquenti, possibilmente non siriani; i gruppi settari costituiti da appartenenti a minoranze etniche, sia favorevoli che contrari al regime di Assad, tutti al di sotto dei 22 anni di età; reti mediatiche comprendenti personalità di rilievo, finanziate possibilmente da paesi europei; reti di capitale, comprendenti commercianti, imprenditori, banche e centri commerciali di Damasco, Aleppo e Homs.
Ognuno di questi gruppi svolge un compito coerente con la strategia di destabilizzazione, che si articola in diverse fasi operative, che iniziano con l’aggregazione di giovani della rete carburante, fino a raggiungere un numero minimo di 5000 unità nelle grandi città, 1500 nelle medie e 500 nei villaggi; questi gruppi hanno il compito di dar vita a manifestazioni spontanee nelle strade, strutturate in modo da creare incidenti, che un gruppo apposito di operativi deve riprendere in modo efficace sul piano mediatico.
La seconda fase prevede poi l’accelerazione dei disordini, sia attraverso la diffusione di immagini e informazioni in grado di esacerbare gli animi, sia grazie all’intervento armato dei thugs con azioni violente mirate, compreso il cecchinaggio e l’assassinio di alcuni degli stessi manifestanti. Nella fase successiva, entrano in gioco i gruppi settari che devono essere resi operativi in tutte le aree dove esistono tensioni etnico-religiose, in modo da mettere ad esempio Alawiti contro Sunniti, Arabi contro Curdi, Shiiti contro Sunniti, approfittando cioè della variegata realtà che caratterizza la Siria da un punto di vista etnico e religioso, attuando anche stragi e assassinii efferati.
Nell’ultima fase, si prevede infine di portare lo scontro all’interno delle stesse forze armate, giungendo alla completa disgregazione del sistema. A questo punto, si creerebbe un consiglio nazionale in cui siedono personalità politiche, economiche e militari che otterrebbe l’immediato riconoscimento da parte degli Usa, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti ed Egitto.
Il documento è di grande interesse, sia per la sua sorprendente aderenza a quanto si è visto accadere in questi mesi in tutto il Mondo Arabo, sia come possibile indiretta spiegazione del perché proprio l’Arabia Saudita, tra i più retrivi corrotti e antidemocratici regimi mediorientali, stia invece navigando serenamente in mezzo a questa grandiosa operazione di "libanizzazione" del Medio Oriente.

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