La democrazia delle cannoniere

All’Occidente non è bastata la Somalia, non è bastato l’Iraq, non basta nemmeno l’Afghanistan.
Gli avvenimenti di questi ultimi giorni in Libia e nel Medio Oriente, capaci di distrarre il mondo persino dalla catastrofe giapponese, nonostante essa suoni come un monito impressionante per le cosiddette "società della complessità", dimostrano la limitatezza degli strumenti con cui l’egemonia occidentale pretende di continuare a governare la realtà contemporanea. Le grandi potenze occidentali, infatti, replicano per l’ennesima volta il frusto canovaccio del democracy building con la stessa politica delle cannoniere con la quale imposero il colonialismo al cosiddetto Terzo Mondo, nel XIX e nel XX secolo.
Nessuna credibilità ha più presentare Gheddafi come un dittatore oppressore del suo popolo, quando con questo personaggio l’Occidente, per quasi mezzo secolo, ha alternato lauti affari con operazioni di polizia internazionale (i bombardamenti del 1981 e del 1986; le sanzioni e poi gli accordi per l’attentato di Lockerbie), per tacere della relativamente misteriosa vicenda dell’estate 1980, l’abbattimento del nostro aereo civile Itavia sui cieli di Ustica, in uno scenario di guerra non dichiarata, obiettivo del quale era, con ogni probabilità, di nuovo Gheddafi, e protagonisti ancora Francia e Usa.
Risulta chiaro a chiunque che la posta in gioco sono le fonti energetiche mediorientali, il controllo dell’Africa centrale (soprattutto da parte francese) e il condizionamento politico del mondo arabo. Quanto siano perciò distanti i sommovimenti in atto nel mondo arabo da una libera spinta al mutamento, abbiamo già avuto modo di documentarlo su questo sito (http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=293&tema=Divulgazione ), ed i fatti non ci hanno smentito: mentre rimproveriamo al colonnello libico l’esercizio spietato del suo potere nell’ambito dei propri confini, chiudiamo gli occhi sulla durissima repressione in Bahrein e persino sull’intervento militare diretto dell’Arabia Saudita in quello stesso paese, così come non si è deciso di agire contro il regime filo-occidentale del presidente Ali Abdullah Saleh che governa lo Yemen facendo sparare da cecchini su manifestanti inermi, facendo una cinquantina di vittime.
L’intervento militare saudita, è bene sottolinearlo, è avvenuto poche ore dopo la visita in Arabia Saudita e Bahrein del ministro della difesa Usa Gates e pochi giorni dopo quella dell’amm. Mullen, che presiede il comitato dei capi di stato maggiore, mentre gli Stati Uniti hanno svolto un’esercitazione militare congiunta con i sauditi, Friendship Two, che, nei primi giorni di marzo, ha coinvolto oltre 4000 uomini delle forze armate dei due Paesi, con il dichiarato scopo, di "andare oltre la tradizionale focalizzazione sui conflitti convenzionali, prendendo in considerazione i conflitti non-tradizionali (irregular warfare) e le minacce regionali emergenti", come recita un documento ufficiale dello US Central Command, il comando militare Usa responsabile per quest’area di operazioni.
Risulta quindi evidente che, dietro il pretesto della diffusione della democrazia in una regione in cui il passato imporrebbe obiettivi, metodi e tempi assai diversi, l’Occidente gioca spregiudicatamente la carta della destabilizzazione del Medio Oriente allargato, nella convinzione che solo la sua "libanizzazione" possa garantire il pieno controllo delle riserve energetiche che forniscono al modello economico-finanziario occidentale, in crisi da ogni punto di vista, l’ossigeno per sopravvivere il tempo necessario a riorganizzare il proprio sistema produttivo, in una epocale lotta contro il tempo e contro l’emergere della nuova potenza cinese.
Lo dimostra il fatto che nel Golfo Persico, agendo militarmente contro le popolazioni civili, non solo si violano le stesse regole che si vorrebbero far rispettare a Gheddafi, ma si approfondisce deliberatamente il contrasto tra mondo sunnita e shiita, polarizzazione che sempre più viene utilizzata come strumentale divide et impera in funzione anti-iraniana e come sola via per tenere in vita e consolidare il ruolo di un regime indifendibile sul piano della democrazia com’è quello dell’Arabia Saudita, per di più caratterizzato da un orientamento religioso, come quello wahabbita, esplicitamente anti-occidentale ed integralista.
In tal modo, si va delineando un accordo strategico di fondo che allinea le potenze anglo-sassoni, Israele e, nuova aggiunta, la Francia, che spera di potere recuperare un ruolo mediterraneo ed africano che negli ultimi decenni gli Stati Uniti avevano attaccato duramente, fino a quando non è apparso sulla scena politica d’Oltralpe il presidente Sarkozy, evidentemente l’uomo giusto per il compromesso con gli Stati Uniti e con Israele.
Inquieta in questa logica l’ipotesi che il nuovo interventismo della Francia, che aveva per altro da decenni un conto aperto con Gheddafi per la questione del Ciad, possa rappresentare un ulteriore consolidamento del ruolo di Israele come potenza egemone nel Medio Oriente in senso stretto, ad est cioè del Canale di Suez, del quale l’azione francese costituirebbe il supporto complementare a occidente, una linea di protezione che si integra perfettamente con la pianificazione strategica americana che ha costituito a tale scopo lo Africom, struttura di comando USA per l’Africa, operativa dall’ottobre 2008, cui sono state assegnate unità prima destinate al teatro europeo.
Non dobbiamo dimenticare infatti il fattore che nelle ultime settimane ha rallentato i tempi di reazione occidentali: gli Stati Uniti non dispongono più delle forze terrestri necessarie a gestire altri conflitti nell’emisfero occidentale, oltre Iraq e Afghanistan, come ha ricordato senza mezzi termini qualche mese fa il ministro della difesa Robert Gates in un discorso a West Point: "Qualsiasi futuro segretario alla difesa che consigliasse il presidente di inviare in Asia, Medio Oriente o Africa un grande esercito di terra statunitense dovrebbe farsi visitare da uno psichiatra". Per questa ragione, gli Usa non possono fare a meno dell’Europa, non solo in termini di supporto logistico, ma anche per conservare quella superiorità tecnologica, di uomini e di mezzi che sola può assicurare il successo delle operazioni di polizia internazionale.
In questo contesto, la posizione assunta dall’Italia, giudicata come un partner strategico essenziale dagli Stati Uniti, come dimostra la collocazione in Italia dei comandi dello stesso Africom, dimostra l’incapacità della nostra classe dirigente di interpretare autonomamente il proprio ruolo mediterraneo. Una volta di più, il nostro Paese dimostra di non possedere una capacità effettiva di proiettarsi nel contesto geo-politico nel quale è storicamente collocata da almeno 150 anni: siamo oggi in guerra con un regime il cui capo politico è stato da noi ricevuto con tutti gli onori solo pochi mesi fa; non siamo stati in grado di influire minimamente sull’evoluzione interna della Libia; né di esercitare su questo Paese una pressione riequilibratrice, che evitasse cioè il ricorso alle armi, pressione che avrebbe potuto trovare fra l’altro nella Germania e nella Russia un decisivo supporto.
Di conseguenza, ci troviamo oggi a subire servilmente una campagna militare che avrà effetti devastanti per il nostro ruolo in Libia e per la stabilità del Mediterraneo centrale probabilmente per anni, dato che, come si è visto in Medio Oriente, facile è disarcionare i dittatori arabi, assai più difficile costruire poi dei sistemi politici in grado di conciliare le componenti etniche tribali religiose con l’esercizio dei diritti individuali cui siamo adusi in Occidente, da un lato, e con le esigenze di conservare rapporti economici essenziali per garantire a noi la sopravvivenza energetica, dall’altro.
In una prospettiva storica seria, quella cioè dei tanto sbandierati 150 anni di Unità nazionale, dobbiamo constatare che l’Italia dopo la fine della Guerra Fredda ha visto definitivamente scalzata la propria sia pur residuale influenza in quelle aree ex-coloniali nelle quali abbiamo storicamente operato, valga per il Corno d’Africa, vale anche per la Libia: consapevoli che, dopo la nostra definitiva fuoriuscita da queste aree, la Somalia non esiste più come entità politico-statale e ci sono valide ragioni per temere che anche la Libia del dopo-Gheddafi si vada avviando verso un’analoga polverizzazione politica.
Se significativo è notare che nessuna delle entità che costituiscono l’attuale classe dirigente ha avuto il coraggio di porre in questi termini la questione, giacché il mugugno leghista contro l’intervento rispecchia le pressioni di certi ambienti cattolici e le fobie xenofobe tipiche di quel partito e nulla più, molto istruttivo sul nostro passato è vedere un presidente ex-comunista invocare l’intervento militare contro un Paese terzomondista, in barba all’internazionalismo proletario di un tempo, cosa del resto che non può sorprenderci particolarmente, dato che fu un premier comunista ad attivare il primo intervento militare post-bellico italiano, nei Balcani.
Sono questi gli uomini che hanno propiziato nel mondo l’ipocrita illusione che il presidente americano Obama, insignito ovviamente a tale scopo persino di un premio Nobel, fosse l’iniziatore di un’epoca di rinnovamento, di giustizia e di pace – lo stesso Obama che, dopo avere riavviato in sordina i processi senza garanzie ai detenuti di Guantanamo, bombarda ora Tripoli, per garantire le élite dell’alta finanza internazionale in merito al futuro controllo delle materie prime che sostengono l’Occidente.
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