Rivoluzionari senza rivoluzione

Nel 1973, quando il Medio Oriente era appena stato scosso dalla guerra del Kippur e il mondo intero dalla successiva crisi petrolifera, un ricercatore all’università di Harvard negli Stati Uniti, Gene Sharp, pubblicava un voluminoso lavoro intitolato Politica dell’azione non-violenta. Quasi tre lustri dopo, nel 1987, quando in Medio Oriente le navi statunitensi iniziavano ad operare a protezione delle petroliere nel corso della guerra fra Iran e Iraq ed in Palestina si era alla vigilia della prima Intifada, un colonnello con trent’anni di carriera nell’esercito americano, decorato per un atto di valore nel corso della guerra del Vietnam con una delle più alte onorificenze militari, Robert L. Helvey, si trova ad Harvard come borsista per conto del prestigioso Center for International Affairs: ha occasione di ascoltare una conferenza proprio del professor Sharp, nel quadro del Program for Non-Violent Sanctions che è per lui importante materia di studio, dato che ha da poco concluso un soggiorno di alcuni anni come attaché all’ambasciata americana in Birmania.
"Presentò il suo discorso con queste parole: "La lotta strategica non violenta mira a impadronirsi del potere politico o ad impedire ad altri di farlo. Non ha niente a che vedere con il pacifismo o con convinzioni morali o religiose". Queste parole attrassero la mia attenzione, dal momento che la mia opinione sulla non violenza era invece legata all’epoca del Vietnam, dei figli dei fiori, dei raduni per la pace e dagli obiettori di coscienza". Così il col. Helvey, in un’altra bibbia della strategia non-violenta, On Strategic Non Violent Conflict: thinking about the Fundamentals descriverà nel 2004 le ragioni della nascita al primo impatto di un lungo sodalizio con il prof. Sharp.
Helvey non tarderà infatti a coinvolgere il professore in un primo esperimento applicativo di questa strategia di lotta, proprio in Birmania, dove nel 1990 una giunta militare autoritaria, nazionalista e anti-americana si è impadronita del potere: ora ufficiale dell’esercito in pensione, operando per conto dell’International Republican Institute, un think-tank statunitense che opera a livello internazionale su posizioni conservatrici, Helvey addestra alle tecniche della lotta non violenta i movimenti di resistenza locali, fino a quel momento rimasti legati alla guerriglia tradizionale. Nel 1992, su richiesta di Helvey, lo stesso Sharp, che già nel 1989 aveva seguito in Cina gli eventi di piazza Tienanmen, entrerà clandestinamente in Birmania dalla vicina Thailandia per impartire di persona lezioni sui suoi metodi di lotta politica agli oppositori birmani, e proprio dietro loro suggerimento pubblicherà From Dictatorship to Democracy, un altro testo-chiave della strategia non-violenta.
Proprio questo testo, riprodotto in fotocopia, sarà adottato come strumento essenziale da Marek Zelazkiewicz, un americano di origine polacche che nel 1997 lo porterà con sé in Kosovo, dove opera come attivista per favorire l’indipendenza di questa regione dalla Serbia. Come si sa, sono gli anni in cui è in corso la profonda riorganizzazione geo-politica dei Balcani, conseguente ai sanguinosi conflitti che hanno condotto alla disintegrazione della Jugoslavia titoista. Secondo una ricostruzione del Wall Street Journal, "gli attivisti kosovari decisero di lavorare sull’opinione pubblica serba e si trasferirono a Belgrado, portando di nascosto immagini delle presunte atrocità serbe ed una copia del libro di Sharp: "Se portate le signore dalla vostra parte, succede proprio come a James Bond", dice Zelazkiewicz a proposito di queste sue gesta. In quell’occasione passò copia del libro ad un gruppo serbo di fautori della democrazia, Iniziative Civiche, che lo tradussero in serbo e lo pubblicarono".
Il verbo dell’opposizione non-violenta si diffonde rapidamente, passando da Iniziative Civiche ad un altro gruppo di opposizione, Otpor, "resistenza" in serbo. Dietro la predicazione delle nuove tecniche di resistenza, troviamo ancora una volta il colonnello Helvey che nel 2000 viene chiamato ancora dall’International Republican Institute all’hotel Hilton di Budapest per tenere lì una serie di lezioni sui metodi teorizzati da lui e da Sharp a diversi dirigenti del neonato gruppo di opposizione serba contro Milosevic, Otpor appunto, che nel frattempo comincia a raccogliere qualche migliaio di militanti.
In una intervista di alcuni anni dopo, Helvey racconterà, a proposito di queste sue lezioni, riferendosi ai capi di Otpor: "Avevano analizzato molte cose, ma una cosa che non avevano era l’idea dei "pilastri di supporto". Credo di essere stato capace di mostrar loro un modo diverso di considerare la società, in modo tale che potessero far uso delle loro risorse più efficacemente ed essere così in grado di misurare gli effetti dei loro sforzi, proprio prendendo in considerazione queste istituzioni. Il regime si basa molto sulle forze armate, sulla polizia, sui funzionari pubblici, a volte sulle organizzazioni religiose, dato che la chiesa talvolta appoggia il regime dominante. Gli studenti sono molto spesso dalla parte dell’opposizione, in che modo possiamo rinforzarli e conferire loro addirittura una maggiore aggressività?".
La storia di Otpor è oggi piuttosto nota, come centro di promozione dell’opposizione contro i regimi al potere nei Paesi dell’ex Urss, dalla Georgia, all’Ucraina, al cosiddetto "cuneo degli stan", i paesi dell’Asia Centrale una volta ricompresi nell’Unione Sovietica: è ormai acquisito il fatto che le cosiddette "rivoluzioni arancioni" sono state organizzate, utilizzando le strategie non violente teorizzate e messe in pratica da Sharp ed Helvey, da movimenti fotocopia di Otpor, spesso con la presenza di "istruttori" di questa stessa organizzazione serba. Meno noto è forse il fatto che queste tecniche sono state trasferite anche in Russia, ad esempio al movimento di opposizione Oborona, ma anche in Iran, grazie alla traduzione in farsi dei libri dei due esperti, realizzata da un ingegnere petrolifero iraniano che lavorava negli Emirati Arabi Uniti, Mehdi Kalantarzadeh: l’editore iraniano Shahla Lahiji che, pur consapevole dei rischi, ha pubblicato il libro, raccontava nel 2008 che il volume era andato a ruba nel suo stand alla fiera tenutasi l’anno prima in Iran, contribuendo probabilmente a fornire in tal modo altri attivisti, preparati nelle tecniche della strategia non violenta, alla "Rivoluzione Verde" che molti occidentali auspicano possa prima o poi rovesciare Ahmadinejad.
La comune matrice di questi movimenti, ispirati alle strategie non violente elaborate da Gene Sharp e organizzati da uomini inquadrati dalle organizzazioni americane che le hanno adottate come strumento per rovesciare regimi considerati nemici, hanno sollevato spesso proteste in paesi come Venezuela, Russia e Iran, poiché questi movimenti sono ovviamente considerati nient’altro che delle "quinte colonne" statunitensi. Il giornalista russo Vlaceslav Nikonov, ad esempio, in un articolo del 2007 del quotidiano Izvestja, descriveva l’"algoritmo di queste operazioni politiche" come una partita in sei mosse: con la prima, il paese viene dichiarato non libero da una delle organizzazioni internazionali americane, come la Freedom House, sulla quale avremo modo di tornare; nella seconda gli Usa e le altre organizzazioni internazionali allineate dichiarano di intervenire in nome del loro diritto-dovere di instaurare la democrazia, attivando nel frattempo movimenti come Otpor; poi, terza fase, questi movimenti, anche se minoritari, vengono presentati "come il vero portavoce della volontà e degli interessi di gran parte della popolazione"; le manifestazioni daranno vita, provocheranno nella quarta fase, l’intervento delle forze dell’ordine che forniranno così "un’ottima occasione per dimostrare il grado di ira popolare contro il regime e la mancanza di libertà dell’opposizione"; in caso di elezioni, poi, se il risultato non è conforme a quanto desiderato, si metterà in dubbio "la capacità del sistema elettorale di assicurare un conteggio dei voti imparziale ed accurato"; il che condurrà infine, grazie ad un monitoraggio internazionale, alle conclusioni auspicate.
Per verificare se anche negli avvenimenti di questi mesi nel mondo arabo si sia davanti ad una strategia di democracy building di questo tipo, in cui le tecniche del professor Sharp e del colonnello Helvey sono di nuovo all’opera, dobbiamo però fare un passo indietro: nel 1976, infatti, il prof. Sharp aveva fatto un incontro importante, imbattendosi in Peter Ackerman, una figura rivelatasi nel tempo davvero determinante per la diffusione delle sue idee ed il successo della strategia non violenta da lui propugnata. Proprio Sharp era stato infatti il relatore della tesi in relazioni internazionali sugli Aspetti strategici dei movimenti di resistenza non violenti che il promettente Ackerman aveva presentato alla prestigiosa Fletcher School of Law and Diplomacy, dove aveva in tal modo conseguito il PhD.
Ackerman intraprendeva poi una brillante carriera nel mondo dell’alta finanza speculativa, quella dei junk bonds, gli strumenti finanziari "spazzatura" che hanno permesso a lui di guadagnare, si dice, oltre 100 milioni di dollari l’anno per oltre un decennio e che hanno robustamente contribuito alla crisi dei subprime apertasi dall’estate 2007. Mentre il suo primo socio, Michael Milken, avrebbe poi avuto seri problemi giudiziari per le sue speculazioni finanziarie, Ackerman ha proseguito con successo la sua carriera di finanziere, che gli avrebbe anche consentito di diventare per anni, con contributi da lui definiti "a otto cifre", il principale finanziatore dell’organizzazione costituita da Sharp nel 1983, la Albert Einstein Institution (AEI). Nonostante i suoi impegni come banchiere, nel 1990 Ackerman aveva pubblicato un altro dei principali testi della strategia non violenta, Strategic Non-violent Conflict, mentre svolgeva attività di ricerca presso l’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra, uno dei più importanti think tank politico-militari al mondo: coautore di questo lavoro è stato Christopher Kruegler, altro personaggio del vivaio di Sharp, per alcuni anni direttore dello stesso AEI, come specialista in particolare delle strategie di difesa civile, analizzate e sviluppate fin dalla seconda Guerra Mondiale dal grande studioso britannico di strategia militare, sir Basil Liddel Hart, al quale Kruegler direttamente si ispira.
Dopo avere creato, nel 2002, una propria organizzazione, lo International Center on Non Violent Conflict (ICNC), Ackerman decideva però di sospendere i finanziamenti allo AEI, motivando questa sua decisione con la volontà di perseguire con maggiore intensità ed attivismo la lotta contro i regimi non democratici: uno degli aspetti di questa svolta è anche rappresentato dal fatto che, fin dal 1999, Ackerman stava contribuendo alla realizzazione di alcuni importanti prodotti mediatici, come consulente per la versione televisiva del film di Steve York "Una forza più potente: un secolo di conflitti non violenti" (A Force More Powerful: A Century of Nonviolent Conflict), per poi diventare nel 2002 il produttore del documentario sulla caduta di Slobodan Milosevic, "Rovesciare un Dittatore" (Bringing Down a Dictator), considerato il seguito del precedente lavoro. Un impegno nei nuovi media che si è spinto fino all’ideazione di un gioco elettronico, People Power oggi acquistabile on line a pochi dollari sul sito http://www.peoplepowergame.com , col quale ci si può divertire a mettere in pratica, comodamente seduti a tavolino, gli insegnamenti degli strateghi dell’azione non violenta.
Nel giugno del 2004, ebbe modo di illustrare la sua visione dell’importanza dei nuovi media ad una conferenza, tenuta niente meno che al Dipartimento di Stato, il ministero degli esteri americano, sul tema Between Hard and Soft Power: The Rise of Civilian-Based Struggle and Democratic Change, nel corso della quale spiegava che i movimenti giovanili che avevano rovesciato Milosevic in Serbia avrebbero potuto rovesciare anche quelli dell’Iran e della Corea del Nord, senza bisogno di usare le forze armate, affermando anche di stare sviluppando presso i Lawrence Livermore Laboratories, uno dei maggiori centri di ricerca scientifica militare, nuove tecnologie della comunicazione che potevano essere utilizzate in altre insurrezioni giovanili nel mondo: riferendosi alla Cina, in particolare, concludeva che "non v’è dubbio che queste tecnologie sono democratizzanti, in quanto permettono di decentralizzare le attività; se volete, possono creare un concetto digitale del diritto di riunione".
La figura di Peter Ackerman è di particolare importanza quindi perché permette di cominciare a mettere a fuoco i collegamenti fra gli strateghi americani dell’opposizione non-violenta e gli avvenimenti odierni del mondo arabo, collegandoli in modo evidente e assai stretto a quanto accaduto dagli anni Novanta nei Balcani, nell’area ex-sovietica e nelle altre aree "calde" del mondo, laddove gli Usa hanno proclamato di voler diffondere la democrazia di stampo occidentale. Nel 2008, Ackerman è intervenuto anche al prestigioso appuntamento della classe dirigente israelo-americana che si tiene, sotto gli auspici del governo israeliano, ad Herziliya (vedi http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=280 ), nell’ambito di un gruppo di discussione sulla "Sfida dell’Islam radicale", dove aveva precisato che "su 67 conflitti che hanno condotto alla democrazia, solo 17 sono derivati da negoziati fra classi dirigenti, gli altri 50 sono stati condotti mediante la disarticolazione dal basso dell’organizzazione politica: l’impegno della non violenza non è adottato per ragioni morali ma solo perché è necessario per demolire la lealtà della gente ad un regime e questo è difficile da realizzare se state minacciando di sparare". Con uno sguardo alle possibilità di azione verso l’Iran, questo intervento dimostra l’attenzione degli strateghi della non violenza al mondo islamico: anche in questo caso, Ackerman ha già a sua disposizione uno strumento ben sperimentato.
Ackerman ha infatti costituito a Belgrado, finanziandolo con le risorse del suo ICNC, il Center for Applied Non Violent Action and Strategies, meglio noto come Canvas, nel quale sono confluiti molti dei militanti serbi di Otpor. Canvas è divenuto negli ultimi anni una delle organizzazioni più attive a livello mondiale nella formazione di attivisti che lavorano a favore della lotta contro i regimi messi al bando dagli Usa: alcuni di loro sono "veterani" delle campagne in Serbia, Georgia, Bielorussia di Otpor, come Slobodan Djinovic, Ivan Marovic, Srdja Popovic, oggi proprietario di una delle più importanti compagnie telefoniche private del paese. Questi attivisti hanno operato nello Zimbabwe, in Birmania, nelle Maldive, in Libano, Venezuela, Nigeria, Iran, con diversi livelli di successo, applicando le teniche di Gene Sharp, di Robert Helvey, di Peter Ackerman, di cui utilizzano testi e documentari.
Un lungo articolo celebrativo di Tina Rosenberg, comparso lo scorso 16 febbraio su Foreign Policy, intitolato Revolution U, illustra con chiarezza i collegamenti fra Otpor e alcune componenti della "rivoluzione" egiziana: "Il movimento del 6 aprile ha ripreso da Otpor il pugno come suo simbolo ancora prima che Mohamed Adel [militante del 6 Aprile che si è addestrato in Serbia presso Otpor] si recasse a Belgrado. Il corso che ha seguito qui è lo stesso che ha seguito un attivista birmano. Lo scorso aprile, i giornali serbi hanno messo in prima pagina una foto della protesta in Egitto, in cui i dimostranti agitano la bandiera del 6 Aprile, con il simbolo familiare del pugno. "Il pugno di Otpor minaccia Mubarak?", intitolavano. Proprio come le immagini dei dimostranti nella piazza Tahir che alzano i loro figli davanti ai carri armati dell’esercito, diffusesi nelle scorse settimane in tutto il mondo, che ricordano a Popovic il grafico del potere fatto da Adel, in cui l’esercito aveva uno spazio importante, per cui era cruciale, si rendeva conto, scalzare questo pilastro". Il 6 Aprile ha quindi bene utilizzato le tecniche di Otpor, per esempio diffondendo fra gli attivisti un manuale di ventisei pagine, intitolato "Come protestare con intelligenza", nel quale vengono date istruzioni dettagliate per sviluppare sistemi di lotta non violenta, evitando scontri con le forze dell’ordine, proteggendo i manifestanti e proponendo slogan positivi che richiamino all’unità del paese ed alla fraternizzazione con le forze armate: tutti elementi che sono stati gestiti con successo nel corso delle proteste in Egitto. Il tutto, quindi, nel solco della strategia di lotta non violenta dei maestri americani.
Torniamo quindi ad Ackerman, che, mentre creava Canvas, andava anche sviluppando un profilo ancora più ampio ed articolato rispetto a quello di Sharp, entrando a far parte di fondamentali istituzioni internazionali del mondo anglo-sassone. Oggi è per esempio membro del consiglio di amministrazione del Council of Foreign Relations (CFR), una celebre istituzione nata nel 1919 che rappresenta l’élite più esclusiva della politica internazionale occidentale; è diventato anche membro del comitato esecutivo dell’International Institute for Strategic Studies (IISS); dal 2005 al 2009, è stato membro del consiglio di amministrazione della Freedom House, una delle istituzioni americane che viene più spesso citata quando si parla di democracy building: è infatti l’organismo che da alcuni anni compila i rapporti denominati Freedom in the World, rapporti che fanno testo, le cui pagelle sulla democraticità dei vari regimi sono riprese dalla stampa di tutto il mondo.
Scriveva Leonard Sussman, presentando il rapporto del 1997: "Freedom House è un’organizzazione indipendente nata all’inizio del 1941 con lo scopo di mobilitare l’opinione pubblica americana in favore dell’entrata in guerra degli Stati Uniti in soccorso delle democrazie europee. Si trattava di rovesciare la corrente isolazionista e di proporre ai nostri connazionali una visione più internazionalista. Da quella data, abbiamo creato tutta una serie di attività destinate essenzialmente a combattere le tirannie, di destra o di sinistra, in tutti i continenti e ad aiutare le democrazie esordienti, com’è accaduto in particolare in questi ultimi anni nell’Europa centrale e orientale e nell’ex Urss".
Quanto all’indipendenza dalle amministrazioni Usa, è significativo il fatto che fondatori della FH nel 1941 furono niente meno che la moglie dell’allora presidente Franklin Delano Roosevelt, Eleanor, e l’ex candidato, antagonista dello stesso Roosevelt nelle presidenziali del 1940, il repubblicano Wendell Willkie, che venne cooptato nell’amministrazione democratica, nonostante fosse stato un duro oppositore del New Deal rooseveltiano, proprio in virtù della sua visione internazionalista in politica estera che ne faceva il candidato ideale per sostenere la politica bellica del Paese, come una specie di ambasciatore itinerante del governo Usa. Al centro della sua visione infatti era l’idea che gli Stati Uniti, in quanto portatori dei valori della democrazia parlamentare e del liberismo economico, avevano una missione mondiale da svolgere, missione che egli presentò in un libro di grande successo, intitolato significativamente One World (1943), nel quale appunto illustrava questa idea, che, da Wilson a Obama, domina incontrastata la politica internazionale dei presidenti americani, chiamandoli ad unificare il mondo nel segno della democrazia e del liberismo.
Per comprendere come questo orientamento sia rimasto invariato nel corso degli anni, basterebbe del resto dare un’occhiata al comunicato con cui, nel marzo 2003, FH presentava così la propria posizione a sostegno dell’amministrazione Bush sulla guerra all’Iraq: "mentre la guerra in Iraq raggiungerà lo scopo immediato di rimuovere Saddam Hussein, in modo da conseguire un impatto positivo per la stabilità e la pace nella regione, gli Stati Uniti e le altre democrazie devono impegnarsi fermamente nello stabilire la democrazia in questo paese". I firmatari di questo documento sono, oltre lo stesso Ackerman, alcuni tra i "falchi" della politica estera americana, come Jane Kirkpatrick, Stuart Eizenstat, Steve Forbes, Kenneth Adelman, Max Kampelman e Samuel Huntigton, il celebre storico dello "scontro fra le civiltà": difficile del resto soprendersi, dato che in quel momento, presiedeva la Freedom House l’ex direttore della Cia, Robert James Woolsey jr., di cui Ackelman sarebbe per l’appunto stato il successore.
Attualmente, poi, a ricoprire il ruolo di Ackerman alla Freedom House è il pronipote di un presidente americano, William H. Taft IV, nominato nel 1981 dal presidente Reagan consigliere generale del Dipartimento della Difesa, poi sottosegretario alla Difesa dal 1984 al 1989, ambasciatore presso la Nato dal 1989 al 1992, proprio quando si aprì il conflitto nei Balcani e si combatté la prima guerra del Golfo, consulente per gli aspetti legali con il ministro Colin Powell dal 2000 al 2002: anch’egli quindi un ragguardevole esperto di problemi internazionali e militari, non certo un pacifista, non certo un isolazionista in politica estera.
Possiamo da qui comprendere facilmente come l’ispirazione politica della Freedom House non sia affatto legata ad una visione pacifista o isolazionista, ma rientri nella tradizione wilsoniana della politica estera americana, quella appunto che motiva l’interventismo globale americano sulla base del dovere di propagare il verbo della democrazie liberale. Possiamo anche comprendere lo stretto legame operativo che coordina un’istituzione come la Freedom House alle diverse amministrazioni americane, dato anche, occorre sottolinearlo, che la Freedom House riceve almeno l’80% delle proprie risorse finanziarie dallo stesso governo degli Stati Uniti d’America, cosa che del resto vale per tutte queste organizzazioni come AIE e ICNC, considerati gli imponenti finanziamenti che il governo americano ha diretto a questi strumenti di azione, per esempio nel caso dei Balcani, con oltre 77 milioni di dollari.
In questo modo mettiamo meglio a fuoco la prospettiva di questi sostenitori delle strategie di cambiamento non violento del potere, la cui prospettiva non è appunto, come riconoscono esplicitamente, né pacifista né morale, ma semplicemente tecnica, allo stesso modo cioè con cui un alay strategist delle amministrazioni americane come il famoso Edward Luttwak ha teorizzato la tecnica del golpe militare, in Strategia del colpo di stato, o come altri militari Usa teorizzano oggi la counter-insurgency per il teatro afghano, riprendendo le tecniche che negli anni Settanta trovavano largo spazio in alcuni dei Field-Manual delle forze speciali americane o nel celeberrimo manuale di resistenza del maggiore dell’esercito svizzero von Dach, conosciuti in Italia attraverso la pubblicazione del libro scandalo In caso di golpe.
In un quadro del genere, si pone quindi la questione più ampia, di valutare cioè in che misura le "rivoluzioni" avvenute in Egitto, Tunisia, Libia siano da considerarsi così spontanee come ci vengono presentate e poi, aspetto forse più importante, in che misura saranno realmente in grado di mutare la natura e il funzionamento dei sistemi di potere presenti in quei Paesi. Il dubbio che sorge è quindi che difficilmente le rivoluzioni cui stiamo assistendo modificheranno l’organizzazione politica economica e sociale di questi Paesi, ma si limiteranno con ogni probabilità a sostituire un gruppo dirigente con un altro, il cui connotato fondamentale dovrà comunque essere l’osservanza dell’allineamento filo-americano nella regione. L’impressione è quindi di trovarci di fronte a "rivoluzionari senza rivoluzione", ovviamente a prescindere dalla buona fede, dal coraggio e dall’impegno degli attivisti che sono scesi nelle piazze, rischiando e pagando di persona, talvolta a prezzo della vita stessa. Rivoluzioni, quindi, cui mancherebbe il requisito fondamentale per ogni paese libero degno di questo, l’indipendenza e la sovranità nazionale.
A rafforzare queste impressioni, del resto, sorgono spontanee altre rapide considerazioni: l’Arabia Saudita, ad esempio, uno dei Paesi più oscurantisti, oppressivi, corrotti, anti-democratici al mondo, caratterizzata da una polarizzazione della ricchezza di stampo medievale, documentatamente sospettata di avere diffuso per anni e sostenuto con imponenti flussi di denaro la più radicale delle predicazioni terroristiche anti-occidentali in tutto il Medio Oriente, appare del tutto immune dal contagio pro-democratico, indenne dalle operazioni speciali degli Helvey e degli Otpor. È lecito chiedersi perché.
Così come appare singolare la differenza per cui, mentre si invocano e si ottengono a tamburo battente sanzioni contro un governo come quello libico, nel momento in cui esso si trova nel bel mezzo dello scatenamento di una guerra civile, si consente invece all’autocratica classe dirigente del Barhein di reprimere sanguinosamente la popolazione civile che protesta pacificamente, senza fare alcun ricorso a pressioni di carattere internazionale. L’impressione finale è che, anche in questo caso, come in quelli di Irak e Afghanistan, di Somalia e Palestina, non siano proprio la democrazia o i diritti umani la vera discriminante, ma la funzione strategica di questi Paesi e che dunque la non violenza degli Sharp, degli Helvey e degli Ackerman abbia assai poco a che vedere con la ahimsa di Ghandi, liberatore del suo popolo, ma sia soltanto uno fra i numerosi strumenti operativi della potenza egemone dell’Occidente.
Del resto, alla domanda se si dovesse o meno considerare guerra la strategia non violenta, il colonnello Helvey non esitava un attimo a rispondere lapidariamente, nella già ricordata intervista: It’s a form of warfare, "è un tipo di guerra".

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