La Patria invisibile

In centocinquant’anni, il tempo passa al setaccio all’incirca cinque generazioni. Forse, più che celebrare astrattamente questo lasso di storia, dovremmo immaginare la successione in linea familiare di cinque Italiani, per avere un’idea realistica del cambiamento avvenuto lungo questo periodo e provare in questo modo a leggere il senso della nostra storia e ad affacciarci sul futuro.
È luogo comune del resto ricordare la famosa frase attribuita a Massimo D’Azeglio, secondo cui dopo avere realizzato l’Unità italiana ci si doveva preoccupare di formare gli Italiani, un’esigenza che, sia pure in modi diversi, è stata sentita in tutti gli Stati moderni al momento della loro unificazione – dato che, almeno in Europa, si partiva ovunque dalla frammentazione feudale, da noi ovviamente durata più a lungo, per di più aggravata dalla presenza di dominazioni di lingua e cultura non italiane.
Ci sfiora in questo modo, in maniera del tutto naturale e spontanea, l’intuizione che qualsiasi patria ha una dimensione che possiamo definire "invisibile", nel senso appunto che non bastano, come hanno voluto taluni nazionalisti, la condizione storico-geografica né, come pensano altri materialisti, l’insieme dei tessuti socio-economici a determinare l’essenza di una Patria; né è sufficiente l’idea di una "cultura", sia perché la sua precisa identificazione è spesso assai difficile, sia perché circoscrive alla componente intellettuale dell’essere umano la sua caratterizzazione, dalla quale restano in questo modo escluse quelle sensibilità interiori alle quali ci possiamo riferire come alla vera "anima" di un popolo, umanamente più vasta della sua pur splendida intellettualità.
Per questo, riferendoci appunto all’anima di un popolo, dovremmo parlare di una componente "morale" della Patria, ovviamente non rifacendoci al concetto del bene e del male con cui spesso si identifica la moralità, ma al modo di essere e sentirsi nell’anima rispetto alla propria comunità umana. Qui sta propriamente la dimensione "invisibile" della Patria, quella fondamentale, se ci pensiamo bene, poiché solo in essa può radicarsi realmente il sentimento di un’appartenenza comune, ogni moto di solidarietà, ogni spinta al superamento dell’interesse individuale, in una parola il fondamento di una vera comunità.
Un Italiano nato intorno al 1860 ha dovuto sperimentare il faticoso ma entusiastico sentimento di stare edificando una nazione europea, nel clima di fine Ottocento, nel quale il progresso scientifico e tecnico, le lotte sociali, la stessa espansione coloniale, il vigore produttivistico del capitalismo industriale, la diffusione di massa delle idee e delle aspirazioni, hanno certamente contribuito all’accensione di un clima morale nel quale si sentiva progredire la Patria insieme a se stessi, poiché la creazione personale era anche creazione del Paese.
Chi è nato trent’anni dopo, sul finire del XIX secolo, negli anni Novanta ad esempio, ha conosciuto della storia italiana il mezzo secolo più potentemente combattuto: pensiamo che un Italiano di quella generazione ha vissuto la Grande Guerra, le lotte che hanno portato al Fascismo, all’impresa etiopica, al clima entusiastico delle sanzioni, alla tragedia della Seconda Guerra mondiale, con la sconfitta, la guerra civile, fino alla ricostruzione post-bellica. La generazione dunque dei grandi conflitti, politici e bellici, del coinvolgimento di grandi masse di Italiani in essi, con lo scontro di idee e di visioni ideologiche che li hanno motivati: un clima morale di lotta e di affermazione senza mezzi termini di ciò che si considerava vero e giusto anche per il bene della Patria, o almeno del nostro popolo.
Chi si è trovato a nascere intorno agli anni Trenta, poi, è stato educato nel clima del Fascismo, con il suo tentativo di imprimere totalitariamente una visione ed una volontà comune agli Italiani, in una prospettiva di grandezza con cui l’Italia risorgimentale non aveva ritenuto di potersi misurare. Un clima bruscamente interrotto dall’8 settembre, dalla sconfitta politico-militare, dal conflitto fascismo-antifascismo, che hanno aperto un vuoto di identità condivisa sul quale si sono innestate le grandi correnti ideologiche provenienti dal mondo anglosassone, dal comunismo sovietico, dalla stessa Chiesa, in difesa dei propri valori e del proprio potere. Un clima prolungatosi con la Guerra fredda, che ha trasferito all’interno del nostro Paese, già diviso dalle vicende della guerra civile, il clima di scontro sotterraneo di cui i fenomeni terroristici degli anni Settanta e Ottanta sono stati il logico prolungamento – una fase vale a dire in cui il clima di unità morale dell’Italia è stato gravemente scosso e messo radicalmente in discussione, fino ad arrivare alle attuali tendenze al separatismo di aree importanti del Paese.
I contemporanei nati intorno agli anni Cinquanta, a propria volta, hanno completamente assorbito questo clima nel quale la stessa idea di Patria, come punto di comune riconoscimento con gli altri concittadini, è andato dissolvendosi. Su questa idea, nel mentre si viveva l’impegno politico degli anni della contestazione e degli anni di piombo, e poi anche il ripiegamento individualistico degli anni Ottanta e Novanta, nessuno o forse pochissimi hanno più fatto affidamento come base delle proprie scelte fondamentali, nel lavoro, nella famiglia, nelle idealità. Un fatto questo che spiega molto più di tanta sociologia la formazione di un clima politico nel quale i partiti, da movimenti di massa di idee e aspirazioni, si sono trasformati in gruppi di potere, conventicole di interessi, cordate economiche, centri di controllo delle decisioni strategiche dell’Italia.
I giovani di adesso, ragazzi nati dopo gli anni Ottanta, vivono moralmente le conseguenze della perdita progressiva della vitalità morale del nostro popolo, una perdita che hanno sentito nelle parole e visto nei comportamenti dei padri e dei nonni, che leggono sui giornali, ascoltano dai mass-media, mentre assimilano proposte culturali e utilizzano strumenti di comunicazione interpersonale che rafforzano il senso di dispersione della propria identità in una "globalizzazione" nella quale definire la propria appartenenza ad una società unitaria appare del tutto inutile, prima che impossibile: di essa resta, ben che vada, il numero degli amici adunanti su Facebook o dei followers raccolti sugli altri strumenti di social networking – fuori, è solitudine e alienazione.
Non è difficile allora comprendere la grande fatica con cui i decisori politici sono arrivati alla celebrazione di questi sudati Centocinquanta Anni di Unità nazionale; i calcoli delle ore di lavoro che una festa destinata a santificarli avrebbe fatto perdere, a danno degli interessi produttivi di tizio o caio, come se questi non fossero minacciati da ben altri rischi; l’opposizione di quelli che temono che questa celebrazione possa rafforzare la concretezza storica dell’Italia, rispetto ad un’idea, come quella di Padania, ad esempio, generata dalle paure dei ceti sociali messi in pericolo dai fenomeni più macroscopici della mondializzazione; l’entusiasmo dei cultori del marketing per i quali i Centocinquanta Anni dell’Italia unitaria non sono altro che l’ennesima occasione per vendere qualcosa di superfluo o un tema provvidenzialmente nuovo cui dedicare, ad esempio (e l’esempio è vero), una sfilata di cani di razza.
La Patria passa quindi invisibile dietro la celebrazione di questi Centocinquanta anni di Unità: non sono questi i tempi, non sono questi gli uomini, non sono queste le classi dirigenti adeguati ad una simile ricorrenza. Ma la Patria invisibile è reale nei fatti: ce lo ricorda, non ci paia strano, l’ambasciatore americano Spogli, in un suo rapporto da Roma del 5 febbraio 2009:
"L’Italia è uno dei pilastri fondamentali del nostro rapporto con l’Europa ed è indispensabile in qualsiasi sforzo volto a incanalare le risorse europee per affrontare i nostri interessi globali. (…) Per le forze USA, l’Italia rappresenta una piattaforma geo-strategica unica in Europa, e consente di raggiungere facilmente zone a rischio in tutto il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa. E, a causa di questa posizione, l’Italia è la sede del più completo arsenale militare – la 173ma brigata aerotrasportata e i Global Hawks – di cui noi disponiamo al di fuori del territorio degli Stati Uniti. Cosa ancor più importante, l’Italia ha dimostrato la volontà, e anche l’entusiasmo, di affiancare gli Stati Uniti nell’affrontare molte delle più pressanti questioni della nostra epoca".
Chi dunque, per mestiere, è abituato a riconoscere l’importanza mondiale di quello che, con il Metternich, noi siamo invece tornati a considerare mera "espressione geografica", sa bene cosa rappresenta oggi l’Italia, nel mondo terribilmente integrato del dopo Guerra Fredda, delle società post-industriali, dei network globali, della risorgente geopolitica dei popoli e delle civiltà, dei poteri finanziari dominanti. Spogli probabilmente saprebbe bene anche cosa l’Italia dovrebbe celebrare oggi e perché, non tanto per le sue nemmeno troppo lontane origini di Italiano quanto per il suo ruolo di proconsole della più grande potenza dell’Occidente contemporaneo.
Quello che sta avvenendo nell’area centrale del Mediterraneo, sulle coste della Libia, su cui si affacciano le nostre isole da Lampedusa in su, ci costringe oggi a riconoscere che l’unità dell’Italia era nei fatti, come era inevitabile la nostra partecipazione alle lotte coloniali ed alle guerre mondiali del XX secolo, così come le nostre divisioni ideologiche e ideali che quei conflitti hanno tragicamente alimentato. Il destino visibile del nostro Paese come entità fisicamente, storicamente e culturalmente unitaria è dunque nei fatti: è una forma plasmata dai molti secoli di storia, fattuale ed ideale, nei quali si sono avvicendate generazioni di Italiani, quelle di cui abbiamo detto e quelle che le hanno precedute.
Perciò quello che si richiede agli Italiani di oggi, di cui dovremmo occuparci in questo centocinquantesimo anniversario, è qualcosa di assai difficile da conseguire, in quanto appunto ha a che vedere con l’Unità morale dell’Italia, che possiamo immaginare come somma della consapevolezza, in ciascuno di noi, di ciò che l’Italia realmente è: una somma che costruisce la nostra Patria invisibile appunto, assai diversa dalla retorica patriottica, dal nazionalismo escludente, dalle aspirazioni di potenza e, proprio per questo, è Patria destinata a restare, destinata a durare; quella che passa di padre in figlio, che si trasmuta di padre in figlio, ma non si esaurisce; quella che sola può seriamente collaborare con gli altri Popoli, quando anch’essi divengono somma della libera coscienza degli esseri umani che li compongono. Patria invisibile che sola garantisce della nostra libertà, indipendenza e sovranità.
Se ancora dobbiamo fare gli Italiani, è di essa che dobbiamo occuparci, della Patria invisibile che dà senso alla storia d’Italia, da ben prima della sua Unità, e che lascerà intatto il suo valore anche il giorno in cui l’Italia non dovesse più esistere nello spazio e nel tempo.
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