Occidente, Cina e missione dell’Europa

Sotto la direzione degli Stati Uniti, seguendo una prospettiva costruita dalle potenze anglo-sassoni contemporanee, l’Occidente, negli ultimi dieci anni almeno, ha concentrato la propria attenzione sulla questione dei rapporti con il mondo islamico, nel quale, in una prospettiva storica dello "scontro di civiltà" (clash of civilization), ha visto, dopo la fine del comunismo in Europa, la maggiore minaccia alla propria egemonia mondiale. Così facendo, l’Occidente ha perso di vista una fondamentale costante della storia umana, almeno da quando essa è stata messa per iscritto: la presenza di una "pendolarità" nei grandi impulsi storici, culturali politici economici, da Oriente a Occidente, e viceversa. Un tema di cui pure la nostra storiografia ha autorevolmente trattato praticamente da sempre – da Tucidide a Toynbee.
Oggi, quando si affronta la questione del nuovo ruolo della Cina sulla scena mondiale, ci si dimentica di questa grande caratteristica strutturale: non ci si ricorda infatti che l’ultima grande espansione europea data all’incirca dal Settecento e che la nostra supremazia (culturale tecnico-scientifica e militare) risale appena alla seconda metà dell’Ottocento. Autorevoli studi ci dicono infatti che, ancora nel XVIII secolo, Cina ed India, ad esempio, erano assai più ricche e sviluppate dei Paesi europei che si apprestavano alla prima grande rivoluzione industriale.
Se si tiene presente questo fatto, non ci si può meravigliare che proprio la Cina oggi, e non certo il mondo islamico, guidi un nuovo moto espansivo dell’Oriente verso l’Occidente e, nell’epoca della globalizzazione, verso il mondo intero. Nell’epoca del materialismo, della potenza quantitiva, dello statalismo è del tutto naturale che oggi sia proprio la Cina, erede del "dispotismo asiatico", a proporsi come potenza leader dell’Oriente nell’occupare spazi che l’Occidente sembra avere difficoltà crescenti a riempire: dall’Africa, quello più ampiamente documentato, alla stessa Europa, dove proprio la Cina va penetrando con imponenti investimenti nell’industria e nella logistica (http://www.clarissa.it/esteri_int.php?id=1401 ), proponendosi esplicitamente come un finanziatore dotato di risorse illimitate, pronto ad impiegarle in un non disinteressato soccorso alla disastrate economie di molti Paesi, dall’Islanda alla Grecia, dal Portogallo alla Romania – e questo proprio quando grandi potenze europee coloniali come Francia e Gran Bretagna sono costrette a ridurre le risorse, ad esempio, destinate alle loro forze armate, un tempo indice per eccellenza della capacità di "proiezione" mondiale di una grande potenza industriale.
Ma questa, per quanto sia la più corrente, è solo una lettura, imperniata sugli aspetti di mero carattere elementare, della questione, mentre dovremmo appuntare la nostra attenzione su di un aspetto assai più significativo: mentre l’Occidente è in evidente difficoltà nel motivare le proprie missioni estere, dall’Africa al Medio Oriente – la Cina sta definendo con sempre maggiore chiarezza e successo la propria linea di condotta, alla luce di una ben chiara missione, incarnare cioè i diritti ed i desiderata del Terzo Mondo. Quello che un tempo veniva chiamato terzomondismo trova oggi nella Cina un nuovo alfiere, ma ben più vitale, in quanto liberato dalle problematiche ideologiche del comunismo internazionale, di quanto acccadde dopo la Conferenza di Bandung del 1955: nel proporsi per questa missione di respiro mondiale, la fine del comunismo pare infatti favorire enormemente la Cina in quanto essa oggi, a differenza di quanto accaduto per la Russia, non fa altro che adattare la concentrazione di potere costruita dal maoismo nel suo sistema politico alle nuove visioni di potenza che le si stanno schiudendo giorno per giorno. Mentre quindi, nella prospettiva storica, per la Russia il comunismo ha rappresentato un fenomeno distruttivo, per la Cina esso, in una sua specifica facies, ha costituito al contrario il fattore capace di riunificare e potenziare le forze dell’immenso paese per riproporlo in una forma più adeguata sulla scena storica della modernità.
Essa può quindi apprestarsi a replicare con successo con il terzomondismo quanto il wilsonismo ha rappresentato per gli Stati Uniti: il messaggio ideologico liberatore di cui una vera potenza imperiale può ammantarsi utilmente – creando un sistema dialettico impeccabile, grazie al quale riprodurre in forme moralmente accettabili all’umanità contemporanea le antiche forme elementari del potere che, nella cultura della Cina, a differenza degli Usa, sono ben altrimenti storicamente radicate.
Se quindi abbiamo ora davanti a noi il principio di una nuova oscillazione da Oriente verso Occidente, dovremo cominciare a considerare con attenzione le conseguenze immediate per l’Europa. Come non riflettere ad esempio sul fatto che gli Usa hanno in realtà guidato l’Occidente, nell’ultimo decennio, attraverso conflitti apparentemente vittoriosi, verso una grave sconfitta in Medio Oriente che potrebbe assumere proporzioni, in questa prospettiva, epocali per la sua egemonia mondiale: sappiamo già che i primi cacciabombardieri cinesi si sono affacciati in ottobre nei cieli mediorientali (http://www.clarissa.it/esteri_int.php?id=1386 ), su richiesta di Turchia ed Iran, a simboleggiare chiaramente l’esistenza oggi di un’alternativa geopolitica alla dipendenza da Washington, ben chiara e ben più concreta di quanto abbia mai potuto essere quella sovietica prima e russa oggi, troppo vicina, anche in termini geopolitici, a quest’area.
Qualora gli Occidentali dovessero abbandonare l’Afghanistan, come già di fatto accaduto in Iraq, si tratterebbe di una sconfitta paragonabile a quella del Vietnam, ma, in questo caso, non più interpretabile come un mero incidente di percorso, circoscrivibile alla incapacità nordamericana di gestire conflitti terrestri: segnerebbe la prima sconfitta dell’Occidente in quanto forza egemonica mondiale da centocinquant’anni. Tale sconfitta, troverebbe immediata rispondenza nella crescita dell’influenza cinese anche nel Medio Oriente, con sviluppi imprevedibili anche sul piano dei flussi energetici e finanziari – del resto già significativamente segnalati, ad esempio, da talune tendenze e scelte della più recente politica saudita.
In questo caso, si noti bene, sarebbe l’Europa a trovarsi nelle maggiori difficoltà: un processo di unificazione politica che stenta a trovare una via rapida e decisa, le sue divisioni interne, le sue periferie, in particolare quelle est-europea e mediterranea in crisi strutturale, la sua dipendenza dagli Usa sul piano delle capacità militari, la sua incapacità ad elaborare una linea comune di politica estera, i rapporti con il mondo islamico gravemente deteriorati – sono solo alcuni degli elementi che porrebbero il nostro continente in una posizione di estrema debolezza a livello globale.
Una prospettiva aggravata dall’incapacità ad assumere una decisione politica veramente fondamentale, quella del rapporto con la Russia. La consideriamo parte dell’Europa o no? Se è vero che si tratta di una domanda antica quanto la Russia stessa – oggi è una domanda cui non si può tardare a fornire una risposta. Ed ora, l’affacciarsi di una possibile "Asia mondiale" capeggiata dalla Cina potrebbe costituire una valida ragione per decidersi ad esprimersi finalmente in modo chiaro ed inequivocabile su questo punto.
Anche qui, del resto, la nostra memoria storica è assai corta: dimentichiamo che, alla fine del Novecento, le grandi potenze europee, per prima la Germania guglielmina, incitarono il già vacillante impero russo a difendere in Asia la civiltà occidentale dinanzi alle forze emergenti di quell’immenso continente. Il risultato fu la terribile sconfitta che la Russia subì nella guerra russo-giapponese (1905), determinante per preparare il crollo dello zarismo, ma ancora di più per segnare i limiti della supremazia occidentale, al punto che nei libri di scuola giapponesi ancora oggi quella guerra viene orgogliosamente ritenuta fondamentale per avere avuto "un effetto positivo su tutti i popoli asiatici"(1).
Ma l’Europa è oggi in grado di assumere unitariamente questa decisione epocale sul futuro dei suoi rapporti con la Russia? Ne dubitiamo. Non solo, per quel che si dice, ovvero per l’ostilità dei Paesi est-europei, per la tanto discussa patente di democraticità del sistema post-sovietico, per le questioni legate al controllo russo dei flussi energetici del gas. Il vero problema sta nel fatto che l’Europa può dare alla Russia questa risposta, attesa fin dai tempi di Pietro il Grande, solo in quanto l’Europa stessa riuscirà ad identificare la propria missione mondiale, a definire il valore della propria continuità storica fino al presente. Questa è la decisiva questione, nessuna altra può venir prima.
Il poderoso muoversi dell’Asia, l’emergere della leadership cinese, non può essere oggi vista in positivo in quanto occasione per l’enuclearsi della piena consapevolezza europea della propria identità – identità che, va detto oramai chiaramente, può essere definita solo a partire dalle componenti spirituali della storia dei popoli, che non ne rappresentano affatto la sovrastruttura, ma il perno. La Cina infatti reca oggi nella modernità il peso di una gigantesca aggregazione di forze materiali, il cui rinnovato collante spirituale è costituito da un’impostazione etica fondata sul senso di una collettività che predomina sulla singola individualità: un’antichissima forma di senso comunitario al quale non è estraneo nemmeno uno specifico orgoglio per la propria specificità culturale che può arrivare a venarsi in profondità di ostilità e persino disprezzo verso il diverso e l’estraneo.
Dinanzi a quest’antica forma di civiltà, la cui grandezza non può e non deve essere banalizzata in stereotipi come già accaduto con l’Islam, la civiltà europea ha recato nel mondo elementi di sviluppo assai diversi, che in definitiva si possono sintetizzare nella lunga e difficile strada verso il libero agire dell’essere umano cosciente. Un senso dell’esistenza che, avendo condotto a grandi acquisizioni del pensiero e della cultura, ma anche a straordinarie aberrazioni, spiega la complessità della storia europea, la sua importanza essenziale nel bene e nel male – sufficiente a darle valore universale.
L’esigenza non di contrapporsi alla Cina, ma di presentarsi al mondo, compreso il Terzo Mondo, come portatrice delle forze interiori che nell’uomo conducono alla libertà come vertice del suo sviluppo spirituale, insieme nel singolo e nelle collettività, è il senso ultimo della missione dell’Europa – il nocciolo intorno al quale essa potrebbe raccogliere le forze per ulteriori passi nello sviluppo dell’umanità: ben oltre e indipendentemente dalle nostre acquisizioni intellettuali, tecnico-scientifiche o economiche, delle quali, ora che ora sono divenute patrimonio comune dell’umanità, possiamo liberarci come forze di per sé neutre, capaci di generare benefici enormi come enormi sciagure – non tali da poterci caratterizzare realmente.
Quel nucleo ideale di libertà, una volta portato a piena consapevolezza, sarebbe in grado di sciogliere facilmente il primo nodo politico del presente, quello, prima ricordato, del fondamentale rapporto con la Russia, che, per la sua storia culturale e spirituale, è senza dubbio, con proprie forme peculiari, del tutto partecipe del comune destino dell’Europa.
In uno con la Russia, l’Europa potrebbe allora presentarsi, all’Asia come all’Africa, come elemento realmente equilibrante per il futuro del mondo, dinanzi ai rischi che la potenza cinese, come qualsiasi altra, reca comunque con sé: una forza, l’Europa, che potrebbe realmente agire come componente essenziale di una multipolarità che altre importanti potenze asiatiche, come l’India ed il Giappone, non potrebbero che accogliere oggi con sollievo.
Da ultimo, ma non ultimo, è su queste basi che potrebbe maturare un nuovo rapporto con il mondo nordamericano, che pone all’Europa l’altro grande interrogativo per il suo futuro assetto internazionale: mentre infatti è relativamente semplice sciogliere il nodo della "questione russa", assai più complesso l’intreccio con gli Stati Uniti, nel momento in cui questa potenza economica, militare e culturale si trova a propria volta a dover decidere del proprio futuro. Non è infatti detto a priori che gli Usa debbano sempre trovarsi in futuro a fianco dell’Europa, in una prospettiva di crescente potenza della Cina: non possiamo dimenticare infatti che, nella cultura politica americana, esiste da sempre una linea di pensiero, assai autorevolmente analizzata, che vede nel Pacifico e non nell’Atlantico il futuro spazio di attuazione del destino manifesto americano.
Se questa tendenza possa creare in prospettiva una contrapposizione degli Usa con la Cina, oppure una possibile integrazione con essa, simile a quella fino ad oggi verificatasi sulle due sponde del Nord Atlantico – è questione oggi delle più incerte ed importanti: la forte interdipendenza dei sistemi economici fra Cina e Stati Uniti, l’inevitabile concorrenzialità fra il sistema economico americano e quello europeo continentale, la crescente asiatizzazione della parte orientale degli Usa, rafforzano l’idea che un giorno gli Stati Uniti potrebbero scegliere per l’Asia anziché per l’Europa. Molto dipenderà dalle decisioni che in questi anni sta già assumendo quella particolare élite dirigente mondializzata che governa i grandi flussi finanziari e la cui influenza sull’establishment politico-culturale, oltreché economico, del mondo anglosassone è fondamentale da almeno un secolo.
Se l’Europa sarà capace di proporre in modo chiaro, nella direzione che abbiamo sintetizzato poco fa, quale sia il senso della propria presenza sulla scena mondiale, essa potrà offrire anche all’America una formulazione precisa della propria visione dell’avvenire dell’uomo e dei popoli e, a quel punto, saranno i popoli, anche nell’estremo Occidente, a dover scegliere. Ma, almeno, la domanda decisiva sarà stata posta una volta per tutte, e sarà stata l’Europa ad averlo fatto, dando finalmente un senso a tutta la propria storia.

(1) "Amor di Patria", Shukan Kinyobi, in Internazionale, n. 871, 5 novembre 2010.

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