Afghanistan: sangue e menzogne

I 34 caduti italiani in Afghanistan sono sicuramente tra i migliori giovani che l’Italia possa vantare. Lo spirito di sacrificio e la dedizione che dimostrano ogni giorno nel compiere il loro dovere li collocano su di un piano morale incomparabilmente più elevato rispetto alla classe politica che li manda a combattere quella guerra.
Ovviamente lo stesso vale per gli operatori umanitari che il nostro paese invia lì e altrove nel mondo: anch’essi guardano alla vita con una tenuta ideale che è ormai rara nella grande maggioranza della nostra società.
Qualsiasi tentativo di contrapporre queste due maniere, diverse ma complementari, di collocare la propria esistenza su di un piano più elevato, non circoscritto al proprio immediato tornaconto, è da respingere. E noi lo respingiamo: chiunque oggi tenti di porre la propria vita in una dimensione che anche minimamente trascende l’egoismo individuale merita infatti il nostro assoluto rispetto, soprattutto quando è pronto a mettere in gioco la propria vita per questo.
Diversa questione è quella della motivazione politica che viene data a questo sacrificio: le dichiarazioni dei nostri ministri, che si succedono in ognuna di queste occasioni di lutto e di dolore, sono infatti menzogna allo stato puro.
Non è vero che stiamo difendendo in Afghanistan i diritti di autonomia e di libertà di quel popolo, non è vero che lo stiamo aiutando a diventare una democrazia moderna, non è vero che stiamo combattendo lì per estirpare il terrorismo internazionale. Chi lo afferma oggi, mentisce sapendo di mentire.
L’Afghanistan è un paese devastato da oltre trent’anni di guerre, in gran parte sostenute da denaro, armi e istruttori occidentali – terribili conflitti di resistenza cui si sono mescolati, come spesso avviene, le componenti tipiche di una guerra civile, qui alimentata da aspetti etnico-tribali e religiosi: parlare di libertà e democrazia in questo contesto è solo ipocrisia. Abbiamo visto fallire le elezioni, abbiamo visto il livello di corruzione dei gruppi dirigenti fantoccio creati dall’occidente e stiamo assistendo a spericolate trattative con "il nemico" nello stesso momento in cui gli si dà la caccia!
Non a caso, col buon senso di chi vede la morte in faccia, uno dei nostri soldati, ferito nell’esplosione di ieri, scriveva: "qui non ci si capisce nulla".
In realtà gli Stati Uniti per primi hanno preso atto dell’impossibilità di vincere questa guerra, che richiede, come bene hanno dichiarato alti ufficiali anglo-americani, quella "conquista delle anime" che è miseramente fallita, nonostante la tecnologia profusa e le tecniche di contro-guerriglia impiegate secondo canoni ben noti fin dagli anni Cinquanta. Pertanto è ridicolo che oggi un ministro della Repubblica parli di strategie che puntano al "controllo del territorio": gli analisti sanno benissimo che, davanti alla guerriglia, questo non ha senso, se non si sono appunto conquistati prima gli animi – ci siamo già dimenticati del Vietnam e dell’Algeria?
Sappiamo quindi che, così come avvenuto per l’Iraq, gli occidentali se ne dovranno andare perché non vi è più rapporto fra i costi, l’impegno profuso ed i risultati: dovranno resistere ancora mesi, per consentire che questo "sganciamento" dal pantano afghano possa essere gestito con il minimo dei danni politici possibili.
Questo vuol dire che gli eserciti occidentali in Afghanistan sono già sconfitti e che devono tenere quelle posizioni a costo di alte perdite semplicemente per evitare alle classi dirigenti di dover ammettere oggi il fallimento politico militare della strategia dell’Occidente in tutto il Medio Oriente allargato, dalla Palestina al Pakistan, passando appunto per Iraq e Afghanistan.
Il prezzo politico di questa ammissione sarebbe infatti altissimo: per la prima volta dal 1945, gli Alleati non potrebbero più dichiararsi né vincitori, né liberatori, né militarmente superiori. Alla crisi evidente del sistema economico occidentale si unirebbe così una crisi politica di fondo – che non potrebbe passare più inosservata a lungo, in quanto l’instabilità del Medio Oriente ne sarà inevitabilmente e sanguinosamente accentuata, mentre, sullo sfondo, la Cina e l’India si pongono già come possibili alternative "terzomondiste" in tutte le aree in cui ha dominato finora il colonialismo occidentale.
Nessuno, nel panorama politico italiano, ha il coraggio di affrontare la questione in questi termini, nei soli cioè in cui etica e verità camminano di passo: la nostra classe dirigente si prende in tal modo una pericolosa responsabilità, alla quale potrebbe essere richiamata molto prima e molto più bruscamente di quanto oggi costoro, occupati come sono nell’affarismo e nelle piacevolezze che derivano dal potere, possano pensare.
Queste giovani vite cadute senza gloria richiamo quindi oggi tutti noi, ciascuno al suo posto, a risollevare l’Italia dalla sua attuale miseria morale, una missione che ci accomuna perché il loro sacrificio non sia stato ancora una volta tragicamente vano.

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