La guerra dei minerali. Il sistema delle multinazionali uccide il Congo

La Global Witness, Ong che denuncia gli abusi di risorse e le violazioni dei diritti umani nel mondo, ha appena pubblicato un rapporto su come diverse multinazionali contribuiscono ad alimentare la guerra nel Congo.
Secondo l’organizzazione, molte aree minerarie dell’est sono controllate dall’esercito nazionale e dai ribelli, che sfruttano i civili per avere accesso alle preziose risorse del territorio. Alcune compagnie europee ed asiatiche, come la THAISARCO di Bangkok, l’inglese Afrimex e la belga Trademet, acquisterebbero materiali da fornitori che trattano con le parti in guerra, finanziando così i gruppi armati e alimentando il conflitto.
Attraverso inchieste e indagini sul campo, la Global Witness ha scoperto come l’esercito congolese e i gruppi ribelli, nonostante siano in guerra tra loro, collaborino regolarmente spartendosi il territorio e spesso anche i guadagni delle attività minerarie illegali. Ad esempio, i ribelli ruandesi usano strade controllate dalle Forze Armate della Repubblica del Congo e viceversa; oppure, i minerali prodotti dai ribelli sono esportati attraverso aeroporti locali gestiti dall’esercito nazionale.
Grazie alla situazione caotica del settore minerario in Congo, combinata alla la crisi dello stato di diritto e alla devastazione causata dalla guerra, questi gruppi hanno ottenuto un accesso illimitato alle risorse minerarie, avviando attività commerciali redditizie. Il rapporto della Global Witness mostra l’incapacità del governo non solo nel salvaguardare le zone ricche di minerali, ma anche nel controllare il suo stesso esercito, che sta facendo affari nel settore a spese dello stato.
I gruppi armati riescono a sopravvivere proprio grazie al loro controllo illegale delle miniere, in quanto i profitti permettono l’acquisto di armi ed equipaggiamento. Per mantenere questa fonte di ricchezza, le diverse fazioni hanno commesso orribili abusi dei diritti umani, come il frequente assassinio di civili inermi, le torture, gli stupri, i saccheggi, l’arruolamento di bambini-soldato e la rimozione forzata di centinaia di migliaia di persone dalle loro terre.
Questo legame tra i gruppi armati e il traffico illecito di minerali era già stato documentato dall’ONU nel dicembre 2008. I prodotti al centro della violenza comprendono la cassiterite, la columbite-tantalite (o coltan) e la wolframite, che dal Congo passano attraverso il Rwanda e il Burundi per poi raggiungere i paesi dell’Asia Orientale, dove sono lavorati per ottenere metalli preziosi, come lo stagno e il tungsteno, usati nell’elettronica.
Una delle compagnie citate nel rapporto è la THAISARCO, la quinta maggiore produttrice mondiale di stagno, di proprietà del gigante britannico dei metalli, la Amalgamated Metal Corporation (AMC). Il maggior fornitore della THAISARCO vende cassiterite e coltan da miniere controllate dai ribelli ruandesi. Un’altra compagnia, l’inglese Afrimex, già nel 2008 fu ammonita dal governo britannico perché acquistava prodotti da fornitori in affari con un gruppo ribelle, ma nessun provvedimento concreto è stato preso contro di essa.
Tutte queste multinazionali hanno replicato alle accuse della Global Witness definendole senza fondamento, sostenendo anzi di aver sempre seguito le direttive ONU per garantire la massima trasparenza riguardo all’origine dei minerali. Il rapporto però rivela che i comptoirs, ovvero le agenzie che comprano, vendono ed esportano i minerali gestiti dai gruppi armati, sono regolarmente registrate e autorizzate dal governo congolese. Le compagnie straniere usano così lo status "legale" dei loro fornitori come giustificazione per proseguire i rapporti commerciali con loro, senza verificare l’origine precisa dei materiali né l’identità degli intermediari.
La Global Witness ha infine sottolineato che paesi come la Gran Bretagna e il Belgio, evitando sanzioni pesanti contro le loro multinazionali coinvolte in questi traffici, stanno quasi vanificando tutti i loro sforzi diplomatici ed economici per porre fine alla guerra del Congo.

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